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vedanta.it

Gli ariani vedici come abbiamo in precedenza accennato, avanzando nell'India si imbatterono in tribù non civilizzate, selvagge e barbare, dove vigeva il culto della magia, della stregoneria.

Mentre il Rgveda deriva dal periodo di conflitto tra gli ariani dalla pelle chiara e i Dasyu dalla carnagione scura, che la mitologia indiana trasformerà nella lotta fra i Deva  e i Raksasa, l'Atharva veda parla del periodo in cui il conflitto è risolto e le due razze stanno cercando di vivere in armonia tramite scambi reciproci.

Da questo scambio, da questo compromesso, il pensiero ariano venne inevitabilmente contaminato dalla cultura del posto, e l'Atharva veda prende vita proprio dal tentativo di integrare la religione del posto con il puro pensiero ariano.  La forte contaminazione con la magia, con la stregoneria fa si che venne considerato parte dei Sacri Veda solamente in un secondo tempo e con notevoli difficoltà. Nelle due "branche" a noi pervenute, quelle degli Saunakiya e quella dei Paippalada, seguaci del saggio Pippalada, troviamo inni intrisi di formule magiche, di scongiuri, malocchi, esorcismi che pronunciati dalla persona da beneficiare o dallo stesso stregone sono diretti a procurare la più grande varietà di fini desiderabili.

La religione vedica più pura cede il posto ad un infantile fiducia nella stregoneria e nella magia, ed è lo stregone, colui che tratta  con gli spiriti, che viene ad assumere il ruolo predominante.

Il mantra e la preghiera che nel Rgveda è uno strumento di elevazione, qui è piuttosto usato come strumento di superstizione.

Nonostante gli inni dal contenuto magico rappresentano almeno numericamente, la parte principale dell'intera raccolta, si trovano anche inni di contenuto teosofico e cosmogonico con elementi in comune con le Upanisad e i Brahmana.

Troviamo il culto del Tempo -Kala-, del desiderio - Kama - del sostegno - Skambha-. Skambha è il principio supremo chiamato anche Prajapati, Purusa, Brahman. Troviamo Rudra divinizzato, il signore degli animali, anello di congiunzione tra le religione vedica e il successivo culto di Siva.

La dottrina delle forze vitali che avrà molta importanza nella successiva metafisica indiana, viene qui trattata per la prima volta, Prana, salutato come il principio che dà vita alla natura.

Si ricollegano inoltre all'Atharvaveda la Mundakopanisad, la Prasnopanisad, e l'importantissima Manukyopanisad , l'Up. della Rana, cui argomento di dissertazione filosofica sono gli stati di coscienza veglia, sogno e sonno profondo, più il quarto trascendente che ad essi soggiace (Turiya).

Grande importanza riveste tuttavia l'Atharvaveda per l'etnologia e la storia della religione perché esso ci offre un gran numero di informazioni sulla vita quotidiana del mondo vedico e tardo vedico.

di Lamberto Breccia

Nasce a Calcutta il 15 Agosto 1872. Studia in Inghilterra e ritorna in India nel 1893 e qui ha la sua prima esperienza spirituale. 

Nel 1902 entra in contatto con il movimento rivoluzionario del Bengala e fonda poi un giornale che propugnava i principi di resistenza passiva a Gandhi. Venne accusato di complotto ed imprigionato ad Alipore. Qui studiò i testi sacri dell'India e comprese la Coscienza Cosmica, abbandonando subito al politica. Venne poi assolto a cominciò a predicare la sua dottrina yoga.

Attraverso la pratica respiratoria o pranajama affermò di essere giunto all'illuminazione (prakashmaya) che espresse in una vastissima produzione poetica e letteraria. Successivamente giunse all'elaborazione e sistematizzazione del suo Yoga integrale, unica via per la presa di coscienza e presupposto anche del risveglio politico dell'India. 

Muore il 5 Dicembre 1950.

(Tratto da Avadhūtagītā, di Dattātreya, commento di Bodhananda, Ed. I Pitagorici, sutra 1, 4, 10, Cap.VII, pag 245-255)

1. Venendo a Te da pellegrino ho negato la tua pervasività, meditando ho negato il tuo trascendere la mente, cantando le tue lodi ho negato il tuo trascendere la parola. Perdonami sempre questi tre peccati.

Ogni cammino religioso o spirituale propone i propri riti o tecniche, quali strumenti di ascesi per compiacere, raggiungere o [finanche] trascendere il Divino. Dattātreya conferma la necessità finale dell’abbandono di qualsiasi pratica, perché impedisce il compimento ultimo dell’Advaita: realizzare la Realtà assoluta.

Ritenere l’Assoluto più accessibile in certi luoghi piuttosto che altri, quali templi, chiese, monasteri e luoghi di pellegrinaggio, se da un lato nega al Divino l’onnipresenza limitandolo nella spazialità, dall’altro afferma che la facoltà percettiva dei sensi e dell’emotività possano recepirlo; questo implica che l’Assoluto sia non solo percettibile attraverso i sensi ed entro alcune coordinate spaziali, ma anche che l’uomo abbia la possibilità di percepirlo, limitando così il Divino nella sua stessa natura di assolutezza.

«E dice che niente nasce né s’estingue né si muove e che uno è il tutto, estraneo al mutamento.»1

Ugualmente, il meditante che ritiene di contemplare l’ideale divino nella propria mente, lo riduce ad un aspetto mentale, laddove l’ideale divino va oltre la mente, la congettura e l’immaginazione. Così, la definizione degli attributi dell’ideale, attraverso il canto e la preghiera, negano la sua indefinibilità e assolutezza. Come affermare, chiede Dattātreya, che Quello sia all’interno delle possibilità del linguaggio, mentre Egli è oltre? Parimenti errano coloro che affermano l’unicità della Divinità del proprio Maestro, negando quella di altri Maestri o di altre forme del Divino stesso.

«Perché, qual è la mente o il senno loro? Credono ai cantori popolari e si valgono per maestra della folla, non sapendo che cattivi sono i più, pochi i buoni.»2

«I vari riti, sacrifici, adorazione di immagini: proiezioni di una mente infantile, sono mezzi preliminari, appoggi e sostegni, a volte necessari, ma che vanno eliminati quando il discepolo si propone di valicare veramente l’abisso per trovarsi quale Sé di infinita compiutezza.»3

Questo è motivo per cui ogni vera Via di riconoscimento della natura non duale dell’Uomo non ammette possibilità di proselitismo, di convincimento e rifugge dalle forme solite di mortificazione, proprie dei cammini duali.

«Il cammino di coloro la cui mente è protesa verso il Nonmanifesto è più difficile [da seguire] perché il Non-mani-festo è arduo da realizzare fino a quando la coscienza è legata alla forma.»4

Qualcuno potrebbe interrogarsi su quali possano essere le tecniche per giungere al Non-manifesto, dato che per esso viene definito un cammino e pertanto deve necessariamente compendiare dei passi al suo interno. Dattātreya, nella stesura dell’Avadhūtagītā, non prescrive alcun percorso trascendente, mostrando la propria natura al discepolo e ai posteri; egli descrive lo stato immutabile dell’avadhūta, uno stato di suprema immobilità, quali che siano i movimenti dei suoi veicoli corporei e il suo agire nel mondo. L’Avadhūtagītā pertanto non si propone come indirizzo per colui che inizia il cammino di conoscenza, partendo da una posizione di adesione al mondo dei nomi e delle forme; le parole di Dattātreya illustrano il passaggio finale: quel supremo momento di immedesimazione coscienziale, per coloro che hanno realizzato che ogni cammino, ogni tecnica, ogni vita, ogni aspetto e loro stessi, sono già quanto congetturano di raggiungere. Realizzato questo, cadono sia la concezione che la possibilità di cammino.

«Questo Brahman, questo potere, questi mondi, questi Dei, queste creature, tutti questi oggetti, tutto ciò che esiste è ātman5

Sono altri i testi che si possono proporre quale indirizzo per coloro che possiedono i tre requisiti indicati nel Vivekacūḍāmai.

«I più rari presupposti [per la liberazione] sono tre e sono dovuti all’influsso del grande Signore: la nascita in un corpo umano, l’ardente volontà di liberazione, la protezione di un Saggio già realizzato.»6

Sono quei testi che stimolano l’ente all’autoconoscenza, attraverso la discriminazione e il distacco (viveka e vairāgya), e che non cessano mai di richiamarlo alla sua reale natura di assoluto per evitare che l’ente finisca per credere reale lo stato della percezione da cui vorrebbe disancorarsi. Mille di questi testi non saranno pari ad una sola parola diretta di un avadhūta; mille parole dirette di un avadhūta non saranno mai pari alla diretta Realizzazione del Sé.

«Quando si parla di non-evoluzione o liberazione si deve ricordare che questi eventi sono visti dalla prospettiva individuata. Il Sé, eternamente libero, non è soggetto né a schiavitù né a liberazione né a trasmigrazione. Non c’è una entità reale che debba essere liberata, né c’è una forma reale, intrinsecamente autonoma, che sia nata e debba evolvere.»7

4. Il saggio è compassionevole, privo di violenza, paziente con tutti; è l’essenza della verità, è puro di cuore è equanime e munifico con tutti.

«Vi sono anime sante, serene e magnanime che, simili alla primavera, effondono una benefica influenza per il bene dell’umanità. Costoro, avendo trasceso l’oceano delle nascite e delle morti, per un atto di amore aiutano i loro simili a trascenderlo a loro volta.»8

La tradizione non duale, presente e testimoniata nello spazio-tempo attraverso la vita di pochi, non sempre è stata compresa quale pura testimonianza, spesso è stata fraintesa se non travisata. È grazie a quei pochi che la tradizione è detta vivente, perché mai venuta totalmente meno, al più solo nascosta in qualche punto dello spazio-tempo. Oggi appare essere sempre stata presente, grazie a quei pochi Saggi illuminati non sempre riconoscibili o avvicinabili.

Molti si interrogano su come trovare e avvicinare uno di quei pochi, mentre altri si propongono quali surrogati di quei pochi. Né può essere dato un metro per riconoscere un vero Conoscitore, un avadhūta, da un surrogato-filosofo che si proponga in sua vece, perché un avadhūta non è riconoscibile da alcun segno distintivo, ma c’è una affermazione che può essere offerta senza tema di alcuna smentita: se e quando, per l’aspirante, sarà giunto il momento di avere accesso ad un Conoscitore, questo evento si verificherà, così come sempre è stato e sempre sarà.

10. (Questo canto) è stato composto dall’avadhūta Dattātreya nel quale la Beatitudine si è incarnata. Chiunque lo legga o rascolti non dovrà rinascere.

Quello mostrato da Dattātreya nella sua Avadhūtagītā è lo stato di coscienza supremo, a cui indirizza ogni ramo tradizionale del sapere metafisico, nella consapevolezza che tale conoscenza per essere reale deve essere realizzativa, deve cioè avere una valenza di trascendenza testimoniata da coloro che, anche grazie alle sue indicazioni, si sono risvegliati alla propria natura sempre esistente di Realtà assoluta.

La tradizione incarnata da questi Conoscitori, vertendo sulla Realtà assoluta, non è relegabile ad un singolo contesto culturale, sociale, etnico, geografico o storico: è la tradizione metafisica e non duale, dalla cui realizzazione o intuizione parziale discendono ogni filosofia e religione.

Questo è il motivo per cui può essere trasmessa e commentata dalle parole di qualsiasi avadhūta, quale che sia la sua origine filosofica, religiosa o storica.

Dobbiamo gratitudine a questo Maestro per la preziosa testimonianza che ha lasciato di sé e non possiamo che “aprirci alla vita” affinché possano esserci sempre su questo piano di esistenza degli avadhūta perché, se la loro presenza venisse meno, bui sarebbero i secoli a venire mancando agli aspiranti la possibilità di avere accesso alla conoscenza sapienzale più antica, testimoniata da Pitagora, Parmenide, Platone, Marco Aurelio, Plotino, Gauḍapāda, Śaṅkara, Rāmakṛṣṇa, Rāmana Mahàrṣi, Raphael e ogni altro che l’ha incarnata nella pienezza dell’Assoluto.

Affinché ciò possa avvenire occorre che dei veri discepoli siano presenti al mondo. Non mancano i Maestri, quanto manca al pianeta sono quegli aspiranti realmente e intimamente pronti ad essere discepoli, pronti cioè a morire ad ogni convinzione, ogni opinione, ogni aspetto formale pur di essere sé stessi, della stessa natura del Padre.

1Senofane, I presocratici, pag. 179.

2Eraclito, Sulla natura, 104.

3Śaṅkara, Vivekacūḍāmani, dal commento di Raphael al Vl sūtra.

4Bhagavadgītā, XII, 5. Edizioni Āśram Vidyā.

5Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, IV, V, 7.

6Vivekacūḍāmaṇi 3.

7Māṇḍūkya Upanisad, nota di Raphael al IV, 77.

8Vivekacūdāmani, 37.

Aurobindo & Mère


Raramente si è vista una figura più travisata di Sri Aurobindo da parte dei suoi stessi seguaci; ma questo travisamento depone a favore del suo spessore spirituale che non lascia indifferente chi gli si accosta.

Nel suo insegnamento egli ha spesso marcato come fosse dedicato a coloro che, avendo realizzato uno degli yoga, avesse voluto andare oltre e, per questo motivo, ha codificato gli yoga principali con un linguaggio moderno.

È stato spesso visto in contrapposizione con la Tradizione, ma, considerata la sua dichiarata affezione nei confronti di Sri Ramakrishna e Svami Vivekananda, è autoevidente che questa contrapposizione non è possibile.

Le eventuali contraddizioni che sembrano trasparire dai suoi testi nascono dall'esistenza di più Aurobindo: il patriota, il politico, l'aspirante, il maestro.

Non solo. Egli si erge in un periodo in cui la diffidenza dell'intellighenzia indiana nei confronti delle proprie radici è ancora modernista e anglofila, nonostante si scontri duramente con la Gran Bretagna sul piano sociale e politico.

Per questo motivo, egli si vide costretto a lasciare il linguaggio vedico della tradizione e a codificarne uno diverso, che facesse riferimento alla cultura moderna che si andava imponendo nelle scuole di pensiero dell'epoca.

Oggi che le radici vediche dell'India vengono invece esaltate, i suoi testi necessitano di un'attenta lettura per comprendere che non c'è alcuna contrapposizione fra il suo insegnamento e quello tradizionale; la differenza è semmai nei confronti di quei movimenti che si ponevano come propugnatori di aspetti e insegnamenti non praticati e non realizzati. Un altro aspetto da considerare nello studio di Sri Aurobindo e della sua polarità femminile, Mère, è che molti dei testi disponibili sono dei veri e propri collages di articoli e brani presi da giornali, diari e lettere; questo fa sì che dei consigli diretti a precise persone possano venire presentati come insegnamenti di ordine generale.

[Fonte: forum i pitagorici, Vedanta & co.]

(Tratto da Avadhūtagītā, di Dattātreya, commento di Bodhananda, Ed. I Pitagorici, sutra 12, 17, 18, 20, Cap. IV, pag 172-178)

12. Non sono né corporeo né incorporeo, non ho intuizione, né mente né sensi. Come potrei parlare di attaccamento e non attaccamento? La mia forma è svanita e sono libero da ogni male.

I termini usati per descrivere lo stato realizzativo dell’avadhūta hanno la funzione di trasferire all’aspirante qualificato la descrizione, con parole comprensibili, dell’incomprensibile (agrāhya), invisibile (aḍṛṣta), inoperante (avyavahārya), indefinibile (alakaa), impensabile (acintya) e indescrivibile (avyapadeśya).1

«Non è possibile comprendere il nome di una cosa senza sapere che cosa sia quella cosa.»2

Qualsiasi definizione, facendo riferimento alle categorie mentali dell’uditore, è di per sé incorretta, come è incorretto qualsiasi concetto o illazione su uno stato che può essere solo esperito per identità. Ugualmente occorre che l’aspirante faccia attenzione quando si formi delle opinioni su questi argomenti, perché queste sono comunque delle proiezioni illusorie.

«È impossibile avere delle opinioni, visto che tutte le cose o le conosciamo o non le conosciamo.»3

D’altra parte è difficile per la mente non formarsi delle opinioni, per questo occorre che l’aspirante sia consapevole che le proprie opinioni non solo non sono vere perché non esperite in una conoscenza diretta, ma deve essere pronto a lasciarle cadere alla prima possibilità. Occorre ricordare che è difficile basare un’azione su quanto non si conosce attraverso una diretta realizzazione.

«Non si cade in errore su ciò che non si conosce, purché si sappia di non saperlo. Gli errori nell’agire dipendono da questa ignoranza, ossia dal fatto che, non sapendo, si crede di sapere. Coloro che sbagliano, non sono sicuramente quelli che sanno. E poiché non sono né quelli che sanno, né, tra gli ignoranti, quelli che sanno di non sapere, quali altri potranno rimanere se non coloro che non sanno, ma credono di sapere? Pertanto, questa ignoranza è causa di mali ed è una biasimevole insipienza. E quando riguarda i valori più alti è ancor più dannosa e turpe.»4

Per meglio approfondire questo discorso, osserviamo come queste stesse note possano condurre in errore: all’inizio di questa chiosa al dodicesimo sūtra abbiamo usato per comodità di linguaggio esplicativo queste parole “lo stato realizzativo dell’avadhūta”, in realtà il chiamarlo “stato” è già un’imprecisione filosofica, perché il termine “stato” ne implica altri e si postula l’esistenza di tale “stato” come alternativa o sostituzione di questi. Occorre comprendere che la realizzazione non implica alcuna alterazione della coscienza di sé, anzi è la piena identità con questa coscienza.

Gli stati di alterazione possono presentarsi qualora ci sia una realizzazione inizialmente non stabilizzata, ossia quando il jīva non è totalmente scomparso nell’ātman e quindi si ha una sorta di oscillazione che determina un continuo nascere e morire all’individualità, ciò viene percepito dall’esterno come una alterazione di coscienza (si pensi ai lunghi anni di Rāmana Mahārṣi, quando la sua percezione corporea andava e veniva), mentre dall’interno questo stato può essere vissuto con sofferenza se è l’aspetto individuato a prevalere, e con distacco (vairāgya) se è l’aspetto universale a dominare. La difficoltà dell’uso del linguaggio non deve far ritenere che la realizzazione sia uno degli stati che l’ente umano può vivere nel corso della sua vita; non è uno fra gli stati; non è uno stato. La Realizzazione può essere intuita come lo status proprio del puro Essere; in quanto tale essa è il sostrato a qualsiasi ente. «Noi siamo piante non terrestri, ma celesti.»5

17. Per me non c’è sonno né veglia. Non pratico mai né la concentrazione né i mudrā. Per me non c’è né notte né giorno. Come potrei parlare di stato relativo o trascendente? La mia forma è svanita e sono libero da ogni male.

Alcuni ritengono che la conoscenza del Sé, o Realizzazione, sia un qualcosa che si possa ottenere attraverso una qualche tecnica corporea o mentale, altri ancora sperano che ci sia una formula magica o un qualche mistero che, una volta conosciuto (possibilmente grazie ad un libro segreto o un Maestro che sveli delle sacre parole), dia l’immediata realizzazione. In realtà, non essendoci alcunché da raggiungere, nulla da trovare, nulla che già non si sia, è erroneo parlare anche solo di conseguimento o di stato relativo contrapposto ad uno trascendente. Proprio perché in grado di parlare e muoverci, noi siamo lo stato trascendente, solo che “ci piace” vederlo relativo, e questo stesso piacere è dato dall’avidyā. Questa capacità di poter vedere e creare il relativo, ci potrebbe far comprendere che esso è non reale, mentre è la nostra natura ad essere reale.

18. Sappi che io sono libero da tutto e da ciò che compone il tutto. In me non c’è né illusione né libertà dall’illusione. Come potrei parlare del rituale delle prehiere del mattino e della sera? La mia forma è svanita e sono libero da ogni male.

Quando l’ente è uno con il Brahman Nirguna (Brahman senza attributi), è libero da ogni “cosa”. Il termine nirguna (senza attributi), indica lo stato indifferenziato dell’essere che corrisponde alla Realtà assoluta che è in ultima istanza la natura ultima e prima dell’ente. Quando l’ente è identificato al Brahman Saguna (Brahman con attributi) è uno con ogni “cosa”. Si dice che quest’ultimo stato sia ancora uno stato limitativo, relativo pur se universale, poiché l’indifferenziazione è assente.

Nonostante la difficoltà, un aspirante cercherà comunque di comprendere attraverso le proprie categorie morali, verificando se i suoi comportamenti si attengono alle discipline codificate per il raggiungimento supremo. Dattātreya sostiene che nemmeno tutte le discipline del mondo (japa, preghiera, meditazione, carità, studio delle scritture e vari tipi di sacrifici) potranno mai condurre qualcuno alla realizzazione, proprio perché necessitano di un soggetto per essere svolte, mentre, affinché avvenga la realizzazione suprema, deve svanire proprio quel soggetto egoico che le pratiche possono invece rafforzare. Le discipline possono essere azioni preparatorie, possono servire a favorire un buon futuro, possono portare un maggior benessere, ma nessuna di queste potrà mai condurre alla realizzazione, perché questa non è un’azione né può essere la conseguenza di una azione, è solo pura consapevolezza non duale in sé.

20. Non sono né ignorante né erudito. Per me non c’è silenzio né assenza di silenzio. Come potrei argomentare a favore o contro? La mia forma è svanita e sono libero da ogni male.

Nell’avadhūta non ci sono ricordi, non c’è erudizione, né egli parla perché ha memorizzato dei testi. Non c’è ignoranza perché vivendo la conoscenza diretta di Sé e non esistendo alcuna differenziazione nel Sé, viene detto saggio. Un saggio che non si cura del superfluo, del relativo, dell’apparenza. Ugualmente ogni argomento viene visto nella sua integralità senza alcuna posizione da sostenere o imporre.

Nel relativo ogni proposizione ha un punto di vista da cui può essere sostenuta e, non essendoci alcuna dipendenza morale, ogni evento non è né da accettare né da rifiutare. Vediamo come i più grandi avadhūta raramente si siano preoccupati di rispettare le consuetudini sociali dei propri tempi, quando è giunto il momento del puro fluire nel sensibile. La legge morale viene valicata, ma non infranta, per favorire nell’aspirante la comprensione dell’inconsistenza dei fenomeni. Queste leggi raramente rispondono ai bisogni dell’aspirante che abbia l’istanza di valicare i limiti del sensibile, mentre un avadhūta è “tenuto a rispondere” a chi gli si accosta con intento puro, aperto e disponibile all’autoconoscenza. Le modalità di risposta possono variare di scuola in scuola, di avadhūta in avadhūta.

1 Cfr. Mandukya Upanisad, VII.

2 Platone, Teeteto, 147, B.

3 Platone, Teeteto, 188, C.

4 Platone, Alcibiade maggiore, 117D-118A.

5 Platone, Timeo, 90 A.

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