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vedanta.it

CARATTERI ESSENZIALI DELLA METAFISICA   di René Guénon   

Mentre il punto di vista religioso implica essenzialmente l'intervento di un elemento di ordine sentimentale, il punto di vista metafisico è esclusivamente intellettuale; ma questo, quantunque abbia per noi un significato nettissimo, a molti potrebbe sembrare che non caratterizzi sufficientemente il punto di vista in questione, poco familiare agli occidentali, se non ci dessimo la pena di precisarlo ulteriormente.

Anche la scienza e la filosofia, infatti, quali esistono nel mondo occidentale, hanno pretese di intellettualità; se neghiamo che queste pretese siano fondate e affermiamo che esiste una differenza delle più profonde tra tutte le speculazioni di questo genere e la metafisica, è perché l'intellettualità pura, nel senso in cui noi la consideriamo, è tutt'altra cosa da quel che di solito s'intende, in modo più o meno vago, con tale parola.   

Dobbiamo dire subito che quando usiamo il termine "metafisica", come facciamo, poco ci importa la sua origine storica, che è alquanto dubbia e che sarebbe puramente fortuita se si dovesse ammettere l'opinione, peraltro poco verosimile ai nostri occhi, secondo la quale avrebbe designato, in principio, semplicemente ciò che veniva "dopo la fisica" nella raccolta delle opere di Aristotele. Nè dobbiamo curarci delle accezioni diverse e più o meno abusive che taluni hanno creduto bene di attribuire alla parola nel corso del tempo; questi non sono motivi sufficienti a indurci ad abbandonarla perché, così com'è, essa è troppo adatta a quel che normalmente deve designare, almeno per quanto può esserlo un termine desunto dalle lingue occidentali. In effetti, il suo significato più naturale, anche etimologicamente, è quello secondo cui designa ciò che è "al di là della fisica", intendendo per "fisica", come sempre facevano gli antichi, l'insieme di tutte le scienze della natura, considerato in una maniera del tutto generale, e non semplicemente una di queste scienze in particolare, secondo l'accezione ristretta che è propria dei moderni. Questa è dunque la nostra interpretazione del termine "metafisica" , e sia detto una volta per tutte che se ci teniamo è unicamente per la ragione or ora indicata e perché pensiamo che è sempre disdicevole ricorrere a neologismi se non in casi di assoluta necessità.   

Diremo ora che la metafisica, così intesa, è essenzialmente la conoscenza dell'universale, o, se si vuole, dei princìpi di ordine universale, che del resto sono gli unici a cui convenga propriamente il nome di princìpi; ma non vogliamo dare con ciò una vera e propria definizione della metafisica, cosa che, a rigore, è impossibile proprio a causa di questa stessa universalità che consideriamo il primo dei suoi caratteri, quello da cui tutti gli altri discendono.

In realtà non è definibile se non ciò che è limitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa, assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente di racchiuderne la nozione in una formula più o meno stretta; in questo caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto più ci si sforzasse di renderla precisa.   

È importante osservare che abbiamo detto conoscenza e non scienza; vogliamo con ciò sottolineare la distinzione profonda che bisogna necessariamente stabilire tra la metafisica da un lato e, dall'altro, le differenti scienze nel senso proprio della parola, vale a dire tutte le scienze particolari e specializzate che hanno come oggetto di indagine un certo aspetto delle cose individuali.

Questa è dunque, in fondo, la distinzione stessa tra l'universale e l'individuale, distinzione che non deve essere intesa come un'opposizione, perché tra i suoi due termini non esiste misura comune ne alcuna relazione di simmetria o di possibile coordinazione.

D'altronde, tra la metafisica e le scienze non può sussistere opposizione o conflitto di sorta, precisamente perché i loro àmbiti rispettivi sono profondamente separati; ed esattamente lo stesso avviene, del resto, in rapporto alla religione. Tuttavia è opportuno capire bene che detta separazione non si riferisce tanto alle cose in sé quanto ai punti di vista da cui noi consideriamo le cose; e ciò è particolarmente importante per quanto diremo più specificamente sulla "fisica" e su come devono essere concepiti i reciproci rapporti dei diversi rami della dottrina indù. È facile rendersi conto che uno stesso oggetto può essere studiato da differenti scienze sotto aspetti diversi; allo stesso modo, tutto quanto consideriamo da certi punti di vista individuali e specifici può essere, per mezzo di una trasposizione adeguata, considerato anche dal punto di vista universale - che non è d'altronde un punto di vista specifico - allo stesso modo in cui può esserlo quanto non è suscettibile di essere inteso in modo individuale.

Così si può dire che il dominio della metafisica comprende tutto, il che è necessario perché essa sia veramente universale, come deve esserlo essenzialmente; e i domini propri alle differenti scienze non restano per ciò meno distinti da quello della metafisica, dal momento che quest'ultima, non ponendosi sullo stesso terreno delle scienze particolari, in nessun modo può essere un loro analogo, sicché non potrà mai darsi che si stabilisca alcuna comparazione tra i risultati dell'una e quelli delle altre.

Del resto il dominio della metafisica non è per nulla, come pensano alcuni filosofi che al riguardo sono piuttosto ottusi, quello che le diverse scienze lasciano da parte perché il loro sviluppo attuale è più o meno incompleto, ma piuttosto quello che, per sua stessa natura, sfugge a queste scienze e supera di gran lunga la portata a cui possono legittimamente pretendere. Il dominio di ogni scienza è sempre circoscritto dall'esperienza, in una qualunque delle sue diverse modalità, mentre il dominio della metafisica è costituito essenzialmente da ciò per cui non può esserci esperienza possibile: essendo "al di là della fisica", siamo anche, e proprio per questa ragione, al di là dell'esperienza.

Di conseguenza l'àmbito di ogni scienza particolare può estendersi indefinitamente, se ne è suscettibile, senza mai giungere ad avere il sia pur minimo punto di contatto con quello della metafisica.   

Consegue immediatamente da quanto precede che parlando dell'oggetto della metafisica non si deve pensare a qualcosa di più o meno analogo all'oggetto particolare di una certa scienza. Consegue anche che tale oggetto deve essere sempre assolutamente lo stesso, che non può in alcun modo essere qualcosa di mutevole e soggiacente alle influenze di tempo e di luogo; il contingente, l'accidentale, il variabile appartengono in proprio all'àmbito dell'individuale; sono anzi dei caratteri che condizionano necessariamente le cose individuali in quanto tali, o, per esprimersi con più rigore, l'aspetto individuale delle cose nelle sue molteplici modalità. Quindi, quando si tratta di metafisica, con il tempo e il luogo possono cambiare solo i modi di esposizione, vale adire le forme più o meno esteriori che la metafisica può assumere e che sono suscettibili di adattamenti diversi, e anche, evidentemente, lo stato di conoscenza o d'ignoranza degli uomini, o per lo meno della maggioranza di loro nei confronti della vera metafisica; ma essa resta sempre, in fondo, perfettamente identica a se stessa, il suo oggetto essendo essenzialmente uno, o più esattamente "senza dualità" come dicono gli Indù, e questo oggetto, sempre per il suo essere"al di là della natura", è anche al di là del cambiamento: è quel che gli Arabi esprimono dicendo che "la dottrina dell'Unità è unica".   

Inoltrandoci nell'ordine delle conseguenze, possiamo aggiungere che in metafisica non è assolutamente possibile fare scoperte, perché, trattandosi di un modo di conoscenza che non ricorre all'uso di mezzi speciali ed esteriori di investigazione, tutto ciò che è suscettibile di essere conosciuto può esserlo stato in ugual modo da uomini diversi in tutte le epoche; ed è ciò che risulta effettivamente da un esame approfondito delle dottrine metafisiche tradizionali. D'altronde, quand'anche si ammettesse che le idee di evoluzione e di progresso possano avere un qualche valore relativo in biologia e in sociologia, la qual cosa è lungi dall'esser provata, non sarebbe meno certo che esse non hanno alcuna applicazione possibile alla metafisica; è così che queste idee sono del tutto estranee agli orientali, come del resto lo furono, fin verso la fine del secolo XVIII, agli stessi occidentali che oggi le reputano elementi essenziali dello spirito umano. Ciò implica, lo si noti bene, la condanna formale di ogni tentativo di applicare il"metodo storico" a quanto sia di ordine metafisico: lo stesso punto di vista metafisico si oppone in modo radicale al punto di vista storico, o sedicente tale, e in questa opposizione bisogna vedere non soltanto una questione di metodo, ma anche e soprattutto, il che è molto più grave, una vera questione di principio, poiché il punto di vista metafisico, nella sua immutabilità essenziale, è la negazione stessa delle idee di evoluzione e di progresso; si potrebbe perciò dire che la metafisica non si può studiare che metafisicamente. Non bisogna qui tenere conto di contingenze quali possono essere le influenze individuali, che, a rigore, non esistono in questo àmbito e non possono esercitarsi sulla dottrina perché essa, essendo di ordine universale, dunque essenzialmente sovraindividuale, sfugge per forza di cose alla loro azione; anche le circostanze di tempo e luogo, lo ribadiamo, possono influire soltanto sull'espressione esteriore, e null'affatto sull'essenza stessa della dottrina; e infine, in metafisica, non si tratta per nulla, come invece nell'ordine del relativo e del contingente, di "credenze" o di "opinioni" più o meno variabili e mutevoli in quanto più o meno dubbie, ma esclusivamente di certezza permanente e immutabile.   In effetti, per il fatto stesso che la metafisica non partecipa minimamente della relatività delle scienze, deve implicare, quale carattere intrinseco, la certezza assoluta, e ciò vale anzitutto per il suo oggetto, ma anche per il suo metodo, se tale parola può applicarsi qui, perché altrimenti tale metodo, o comunque si voglia chiamarlo, non sarebbe adeguato all'oggetto.

La metafisica esclude quindi necessariamente qualsiasi concezione di carattere ipotetico, donde risulta che le verità metafisiche, in se stesse, hanno un'assoluta incontestabilità; di conseguenza, se talvolta può esserci discussione e controversia, sarà sempre e soltanto per effetto di una esposizione difettosa o di una comprensione imperfetta di tali verità. D'altra parte, ogni possibile esposizione è qui necessariamente difettosa, perché le concezioni metafisiche, per la loro natura universale, non sono mai del tutto esprimibili, e neppure immaginabili, non potendo essere raggiunte nella loro essenza che dall'intelligenza pura e "informale" ; esse oltrepassano immensamente tutte le forme possibili e in particolare le formule in cui il linguaggio vorrebbe chiuderle, formule sempre inadeguate che tendono a restringerle e perciò a snaturarle. Queste formule, come tutti i simboli, possono servire solo come punto di partenza, come "supporto" per così dire, per aiutare a concepire ciò che in se rimane inesprimibile, ed è compito di ciascuno sforzarsi di concepirlo effettivamente a misura della propria capacità intellettuale, supplendo in tal modo, in questa stessa misura, alle fatali imperfezioni dell'espressione formale e limitata; è del resto evidente che tali imperfezioni raggiungeranno il loro massimo quando l'espressione dovrà avvenire in lingue che, come quelle europee, soprattutto moderne, sembrano quanto mai refrattarie all'esposizione delle verità metafisiche. Come appunto dicevamo più sopra a proposito delle difficoltà di traduzione e adattamento, la metafisica, in quanto si apre su possibilità illimitate, deve sempre riservarsi la parte dell'inesprimibile, che in fondo è anche per lei del tutto essenziale.   Questa conoscenza di ordine universale deve porsi al di là di tutte le distinzioni che condizionano la conoscenza delle cose individuali, e delle quali il tipo generale e fondamentale è la distinzione fra soggetto e oggetto; ciò mostra una volta di più che l'oggetto della metafisica non è assolutamente paragonabile all'oggetto specifico di qualsiasi altro genere di conoscenza, e che non può neppure essere chiamato oggetto se non in un senso puramente analogico, perché per poterne parlare bisogna pur attribuirgli una qualche denominazione. Allo stesso modo, se si vuol parlare del mezzo della conoscenza metafisica, esso non potrà che costituire un tutt'uno con la conoscenza stessa, dove soggetto e oggetto sono unificati in modo essenziale; come dire che tale mezzo, seppure è lecito chiamarlo così, non può esser nulla di simile all'esercizio di una facoltà discorsiva quale è la ragione umana individuale. Si tratta, come dicevamo, dell'ordine sovraindividuale e, di conseguenza, sovrarazionale, che non significa affatto irrazionale: la metafisica non può opporsi alla ragione, piuttosto è al di sopra della ragione, che lì può intervenire solo in modo del tutto secondario per la formulazione e l'espressione esteriore di quelle verità che vanno di là dalla sua sfera e dalla sua portata. Le verità metafisiche possono essere concepite unicamente da una facoltà che non è più dell'ordine individuale e che si può definire intuitiva per il carattere immediato della sua operazione, purché, beninteso, si aggiunga che non ha assolutamente niente in comune con ciò che certi filosofi contemporanei chiamano intuizione, facoltà soltanto sensitiva e vitale, che è propriamente al di sotto, e non più al di sopra, della ragione. Occorre dunque dire, per maggior precisione, che la facoltà di cui stiamo parlando è l'intuizione intellettuale, di cui la filosofia moderna ha negato l'esistenza perché non la capiva, quando non preferì ignorarla puramente e semplicemente; si può ancora designarla col nome di intelletto puro, seguendo l'esempio di Aristotele e dei suoi continuatori scolastici, per i quali infatti l'intelletto è ciò che possiede immediatamente la conoscenza dei princìpi. 

Aristotele dichiara espressamente(1) che "l'intelletto è più vero della scienza", vale a dire, in definitiva, della ragione che costruisce la scienza, ma che "nulla è più vero dell'intelletto", il quale è necessariamente infallibile proprio perché la sua operazione è immediata e perché, non essendo realmente distinto dal proprio oggetto, si confonde con la verità stessa. Tale è il fondamento essenziale della certezza metafisica; e da questo si vede che l'errore può introdursi soltanto con l'uso della ragione, vale a dire nella formulazione delle verità concepite dall'intelletto, e ciò perché la ragione è evidentemente fallibile a causa del suo carattere discorsivo e mediato. D'altronde, ogni espressione essendo necessariamente imperfetta e limitata, l'errore, nella forma se non nella sostanza, vi è inevitabile: per quanto rigorosa si voglia rendere l'espressione, quel che essa esclude è sempre molto più di quel che può includere; ma un errore del genere può non avere nulla di positivo in quanto tale, e tutto sommato essere solo una verità minore che risiede unicamente in una formulazione parziale e incompleta della verità totale.   

Ci si può ora rendere conto di quale sia, nel suo significato più profondo, la distinzione tra conoscenza metafisica e conoscenza scientifica: la prima dipende dall'intelletto puro, il cui dominio è l'universale; la seconda dipende dalla ragione, il cui dominio è il generale, in quanto, come ha detto Aristotele, "non vi è scienza se non del generale". Non bisogna dunque confondere l'universale e il generale come troppe volte fanno i logici occidentali, i quali non si innalzano mai realmente al di sopra del generale neppure quando gli attribuiscono indebita mente il nome di universale. Abbiamo detto che il punto di vista delle scienze è di ordine individuale; infatti il generale non si oppone all'individuale, ma soltanto al particolare, e anzi altro non è che un'estensione dell'individuale; ma l'individuale può estendersi anche indefinitamente senza perciò perdere la sua natura e travalicare le proprie condizioni restrittive e limitative; e per questo affermiamo che la scienza potrebbe estendersi indefinitamente senza mai raggiungere la metafisica, dalla quale rimarrà sempre separata nel modo più profondo, perché solo la metafisica è la conoscenza dell'universale.   

Pensiamo di aver caratterizzato a sufficienza la metafisica; molto di più non potremmo dire senza entrare nell'esposizione della dottrina vera e propria, che qui sarebbe fuori luogo; d'altronde questi dati saranno completati nei capitoli che seguiranno, e in particolare quando parleremo della distinzione tra la metafisica e ciò che nell'Occidente moderno viene generalmente chiamato col nome di filosofia. Tutto quanto abbiamo detto si applica, senza alcuna restrizione, a una qualunque delle dottrine tradizionali dell'Oriente, nonostante le grandi differenze di forma che possono nascondere l'identità di fondo a un osservatore superficiale: tale concezione della metafisica è vera per il taoismo, per la dottrina indù e anche per l'aspetto profondo ed extrareligioso dell'islamismo. Esiste qualcosa di simile nel mondo occidentale? Se si esamina solo ciò che esiste attualmente, si potrebbe sicuramente dare a questa domanda una risposta negativa, perché ciò che il pensiero filosofico moderno si compiace talvolta di abbellire col nome di metafisica non corrisponde in alcun modo alla concezione che abbiamo esposto; ritorneremo comunque su questo punto. Tuttavia quanto abbiamo detto su Aristotele e sulla dottrina scolastica mostra che vi fu, se non la metafisica totale, almeno della metafisica in una certa misura; e nonostante questa riserva necessaria, si trattò di qualcosa di cui la mentalità moderna non offre più il minimo equivalente, e la cui comprensione le sembra preclusa.

D'altra parte, se la riserva che abbiamo or ora fatto si impone, è perché esistono, come dicevamo in precedenza, delle limitazioni che sembrano davvero inerenti a tutta l'intellettualità occidentale, almeno a partire dall'antichità classica; e a questo proposito abbiamo notato come i Greci non avessero punto l'idea di Infinito. Del resto, perché mai gli occidentali moderni, quando credono di pensare all'Infinito, si rappresentano quasi sempre uno spazio, il quale non può essere che indefinito, e perché confondono immancabilmente l'eternità, che risiede essenzialmente nel "non tempo", se così possiamo esprimerci, con la perpetuità, che non è se non un'estensione indefinita del tempo, mentre in simili confusioni non incorrono mai gli orientali? Il fatto è che la mentalità occidentale, volta quasi esclusivamente alle cose sensibili, fa costante confusione tra concepire e immaginare, al punto che ciò che non è suscettibile di rappresentazione sensibile le pare veramente impensabile; e già presso i Greci le facoltà immaginative erano soverchianti.

Le quali, evidentemente, sono l'esatto opposto del pensiero puro; così stando le cose, non può esserci intellettualità nel vero senso della parola, ne, di conseguenza, metafisica. Se a queste considerazioni si aggiunge poi l'altra confusione abituale tra razionale e intellettuale, non si tarderà ad accorgersi che la pretesa intellettualità occidentale non è in realtà, soprattutto nei moderni, che l'esercizio di quelle facoltà meramente individuali e formali che sono la ragione e l'immaginazione; e si capirà allora tutto ciò che la separa dall'intellettualità orientale, per la quale non c'è conoscenza vera e valida se non quella che ha le proprie radici profonde nell'universale e nell'informale.

  Tratto da Esonet.org 

Purusha o Atma, manifestandosi come jivatma nella forma vivente dell’essere individuale, secondo il Vedanta, si riveste con una serie d’«involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, che rappresentano altrettante fasi della sua manifestazione; sarebbe però completamente erroneo assimilare a «corpi» questi involucri, perché l’ultima fase soltanto è d’ordine corporeo. Del resto, non si può rigorosamente affermare che Atma sia in realtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua propria natura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né può essere condizionato da qualche stato di manifestazione [Nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 8° Anuvaka, shruti 1, e 3° Valli, 10° Anuvaka, shruti 5, le designazioni dei diversi involucri sono direttamente riferite al «Sé», secondo lo si consideri in rapporto a tale o talaltro stato di manifestazione].

Il primo involucro (anandamaya-kosha, la particella maya significa «che è fatto di» o «che consiste in» ciò che specifica il vocabolo al quale è unita) è l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione che Atma comporta in sé, nella sua «permanente attualità», allo stato principiale ed indifferenziato. Si dice «fatto di Beatitudine» (Ananda), poiché il «Sé», in questo stato primordiale, gode della pienezza del suo proprio essere, e non è affatto veramente distinto dal «Sé»; esso è superiore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, ed è al grado dell’Essere puro: perciò è ritenuto come caratteristica d’Ishwara [Mentre le altre designazioni (quelle dei quattro involucri seguenti) possono essere considerate come caratterizzanti jivatma, quella d’anandamaya conviene, non solamente ad Ishwara, ma, per tra- sposizione, anche a Paramatma od al Supremo Brahma; perciò è detto nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 5° Anuvaka, shruti 1: «L’altro Sé interiore (anyo’ntara Atma), che consiste in Beatitudine (anandamaya), è differente da quello che consiste in conoscenza distintiva (vijnanamaya)». - Cfr. Brahma-Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 12 a 19]. Siamo qui dunque nell’ordine informale; è solamente quando lo si considera in rapporto alla manifestazione formale, ed in quanto il principio di questa vi si trova contenuto, che si può dire che è la forma principiale o causale (karana-sharira), ciò per cui la forma sarà manifestata ed attualizzata agli stadi seguenti.

Il secondo involucro (vijnanamaya-kosha) è formato dalla Luce (nel senso intelligibile), direttamente riflessa, della Conoscenza integrale ed universale (jnana, la particella vi implicando il modo distintivo) [La parola sanscrita jnana è identica al greco Γνωσις per la radice, che, d’altronde, è anche quella del vocabolo «conoscenza» (da co-gnoscere), e che esprime un’idea di «produzione» o di «generazione», poiché l’esame «diviene» ciò che conosce e si realizza appun- to per questa conoscenza]; esso è altresì composto delle cinque «essenze elementari» (tanmatra), «concepibili», ma non «percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nella congiunzione dell’intelletto superiore (Buddhi) alle facoltà principiali di percezione che procedono rispettivamente dai cinque tanmatra, ed il cui sviluppo esteriore costituirà i cinque sensi nell’individualità corporea [Il vocabolo sharira s’applica propriamente a partire da questo secondo involucro, soprattutto se si dà a questa parola, interpretata per i metodi del Nirukta, il senso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi (o d’ahankara, che direttamente ne deriva e che è il primo principio d’ordine individuale) e dai cinque tanmatra (Manava-Dharma-Shastra, 1° Adhyiya, shloka 17)]. Il terzo involucro (mano- maya-kosha), nel quale il senso interno (manas) è unito con il precedente involucro, implica specialmente la coscienza mentale [Con questa espressione vogliamo intendere qualche cosa di più, quanto determinazione, della coscienza individuale pura e semplice: si potrebbe dire che è la risultante dell’unione del manas con ahankara] o facoltà pensante, che, come precedentemente abbiamo detto, è d’ordine esclusivamente individuale e formale, ed il cui sviluppo procede dall’irradiazione in modo riflesso dell’intelletto superiore in uno stato individuale determinato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro (pranamaya-kosha) comprende le facoltà che procedono dal «soffio vitale» (prana), cioè i cinque vayu (modalità di questo prana), nonché le facoltà d’azione e di sensazione (queste ultime già esistevano principialmente nei due precedenti involucri, come facoltà puramente «concettive», quando, d’altra parte, non poteva essere affatto questione di alcuna specie d’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme di questi tre involucri (vijnanamaya, manomaya e pranamaya) costituisce la forma sottile (sukshma-sharira o linga-sharira), in opposizione a quella grossolana o corporea (sthula-sharira); ritroviamo qui dunque la distinzione dei due modi di manifestazione formale, di cui già più volte abbiamo parlato.

Le cinque funzioni od azioni vitali sono chiamate vayu, quantunque non siano propriamente l’aria od il vento (che è il senso generale della parola vayu o vata, dalla radice verbale va, andare, muoversi, che abitualmente designa l’elemento aria, di cui la mobilità è una proprietà caratteristica) [Ci riferiremo, a questo proposito, a quello che abbiamo detto in una precedente nota in merito alle differenti applicazioni della parola ebraica Ruahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscrito Vayu], tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quello corporeo; ma, come dicemmo, esse sono modalità del «soffio vitale» (prana, o più generalmente ana) [La radice an si ritrova, con lo stesso senso, nel greco ανεμος «soffio» o «vento», e nel latino anima, il cui senso proprio e primitivo è esattamente quello di «soffio vitale»], rilevato principalmente in rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1° l’aspirazione, vale a dire la respirazione ascendente nella sua fase iniziale (prana, nel senso più stretto della parola), che attira gli elementi non ancora individualizzati dell’ambiente cosmico, per farli partecipare, per assimilazione, alla coscienza individuale; 2° l’ispirazione discendente in una fase successiva (apana), per la quale questi elementi penetrano nell’individualità; 3° una fase intermediaria fra le due precedenti (vyana), che, da una parte, consiste nell’insieme delle azioni e reazioni reci- proche, prodotte dal contatto fra l’individuo e gli elementi ambienti, e, d’altra parte, nei diversi movimenti vitali che ne risultano, la cui corrispondenza nell’organismo corporeo è la circolazione sanguigna; 4° la espirazione (udana), che proietta il soffio, e lo trasforma, di là dai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle sole modalità che sono comunemente sviluppate per tutti gli uomini), nel campo delle possibilità dell’individualità estesa, considerata nella sua integralità [La parola «espirare» significa contemporaneamente «ricacciare il soffio» (nella respirazione) e «morire» (quanto alla parte corporea dell’individualità umana); questi due sensi sono entrambi in rapporto con l’udana di cui si tratta]; 5° la digestione, o l’assimilazione sostanziale intima (samana), per la quale gli elementi assorbiti divengono parte integrante dell’individualità [Brahma-Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 8 a 13. - Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 19° a 23° Khanda; Maitri Upanishad 2° Prapathaka, shruti 6]. È nettamente specificato che non si tratta d’una semplice operazione d’uno o più organi corporei; ciò infatti non dev’essere considerato solamente per le funzioni fisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche per l’assimilazione vitale nel suo più vasto senso.

La forma corporea o grossolana (sthula-sharira) è il quinto ed ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo stato umano, al modo di manifestazione più esteriore; è l’involucro alimentare (annamaya-kosha), composto dei cinque elementi sensibili (bhuta), a cominciare dai quali sono costituiti tutti i corpi. Esso si assimila gli elementi composti che ha ricevuto dal cibo (anna, parola derivata dalla radice verbale ad, mangiare) [Questa radice è quella del latino edere, ed anche, quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e del tedesco essen], secernendo le parti più fini, che stanno nella circolazione organica, ed escretando o rigettando le più grossolane, tranne tuttavia quelle deposte nelle ossa. Come risultato di questa assimilazione, le sostanze terree diventano la carne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midollo ed il sistema nervoso (materia fosforica); poiché vi sono sostanze corporee nelle quali la natura di taluno o talaltro elemento predomina, quantunque tutte siano formate dall’unione dei cinque elementi [Brahma-Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 21. - Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 5° Khanda, shruti 1 a 3].

Qualunque essere organizzato, che sta in una siffatta forma corporea, possiede, ad un grado di sviluppo più o meno completo, le undici facoltà individuali di cui abbiamo precedentemente parlato; come già ugualmente l’abbiamo detto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’essere dagli undici organi corrispondenti (avayava, designazione che è del resto riferita anche allo stato sottile, ma soltanto per analogia con quello grossolano). Per Shankaracarya [Commento sui Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 1° Pada, sutra 10 e 21. - Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 3° Khanda, shruti 1; Aitareya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3. Quest’ultimo testo, oltre le tre classi d’esseri viventi enumerate negli altri, ne menziona una quarta: gli esseri nati dal calore umido (swedaja); ma questa classe può essere riferita a quella dei germinipari], si distinguono tre classi d’esseri organizzati, secondo il loro modo di riproduzione: 1° i vivipari (jivaja o yonija, od ancora jarayuja), cioè l’uomo ed i mammiferi; 2° gli ovipari (andaia), cioè gli uccelli, i rettili, i pesci, gl’insetti; 3° i germinipari (udbhijja), che comprendono contemporaneamente gli animali inferiori ed i vegetali, i primi, mobili, che nascono principalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi, nascono abitualmente dalla terra; tuttavia, secondo certi passi dei Veda, il cibo (anna), cioè il vegetale (oshadhi), procede anche dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che fertilizza la terra [Specialmente vedi Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 2: «i vegetali sono l’essenza (rasa) dell’acqua»; 3° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7° Prapathaka, 4° Kanda, shruti 2: anna proviene o procede da varsha. - La parola rasa letteralmente significa «linfa», e, come già dicemmo, significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, in francese ugualmente, le parole sève, «linfa», e saveur, «sapore», hanno una stessa radice (sap), che è nello stesso tempo quella di savoir, «sapere», per l’analogia che esiste fra l’assimilazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitiva nell’ordine intellettuale e mentale. - È d’uopo significare che la parola anna designa qualche volta l’elemento terra, l’ultimo nell’ordine dello sviluppo, e che deriva anche dall’elemento acqua, che immediatamente lo precede (Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 2° Khanda, shruti 4)].

da L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta. Capitolo IX. Gli involucri del Sè; i cinque vaju o funzioni vitali

Renè Guènon

edizioni Luni

Possiamo ripetere qui l'osservazione già fatta a proposito della comunicazione con i morti: anziché domandarsi se essa è vera o falsa - l'unica cosa che conta - si discute per sapere se è o non è «consolante»; così si può discutere indefinitamente senza fare un passo avanti: si tratta di un criterio puramente «soggettivo», come direbbero i filosofi. Fortunatamente, contro la reincarnazione vi è molto di meglio da dire, visto che se ne può stabilire l'assoluta impossibilità. Prima di arrivare a questo dobbiamo però trattare un'altra questione, facendo alcune distinzioni e precisandole.
A parte il fatto che sono distinzioni di per sé molto importanti, se le trascurassimo qualcuno potrebbe anche stupirsi nel sentirci affermare che la reincarnazione è un'idea esclusivamente moderna. Troppe confusioni, troppe nozioni false circolano da un secolo a questa parte perché un gran numero di persone, anche fuori degli ambienti «neospiritualistici», non ne siano gravemente influenzate; la deformazione ha assunto proporzioni tali che perfino gli orientalisti ufficiali, per esempio, interpretano correntemente in senso reincarnazionistico testi che non contengono niente del genere, e sono diventati totalmente incapaci di comprenderli in modo diverso, il che equivale a dire che non ne capiscono assolutamente nulla.


Reincarnazione

Il termine «reincarnazione» dev'essere distinto da almeno due altri termini, i quali hanno un significato completamente diverso; sono i termini «metempsicosi» e «trasmigrazione ». Si tratta di cose che erano ben note agli antichi, e ancora lo sono a parte degli orientali, ma gli occidentali moderni, inventori della reincarnazione, le ignorano totalmente.
E' sottinteso che quando si parla di reincarnazione si intende che l'essere che è già stato incorporato riprende un nuovo corpo, cioè ritorna nello stato attraverso il quale è già passato: si ammette inoltre che ciò riguarda l'essere reale e completo e non semplicemente qualcuno degli elementi più o meno importanti che hanno potuto intervenire nella sua costituzione con una qualsiasi funzione.
Fuori di queste due considerazioni non si può assolutamente parlare di reincarnazione; ora, la prima la distingue essenzialmente dalla trasmigrazione, com'è considerata nelle dottrine orientali; la seconda la differenzia non meno profondamente dalla metempsicosi, nel senso in cui l'intendevano in particolare gli Orfici e i Pitagorici.


Metempsicosi

Gli antichi, in realtà, non sostennero mai la trasmigrazione dell'uomo in altri uomini, come si potrebbe definire la reincarnazione.
Senza dubbio esistono espressioni più o meno simboliche che possono dar luogo a malintesi - ma soltanto quando non si sappia ciò che vogliono dire realmente, che è questo: ci sono nell'uomo elementi psichici che si dissociano dopo la morte e possono quindi passare in altri esseri viventi, uomini o animali, senza che ciò in fondo abbia molta più importanza del fatto che, sempre dopo la dissoluzione del corpo dell'uomo, gli elementi che lo componevano possano servire a formare altri corpi.
In entrambi i casi si tratta degli elementi mortali dell'uomo e non della parte imperitura che costituisce il suo essere reale, la quale non è assolutamente toccata da questi mutamenti postumi.
La dissociazione che segue la morte non agisce soltanto sugli elementi corporei ma anche su certi elementi che si possono dire psichici; già lo vedemmo quando spiegavamo come tali elementi possono intervenire talvolta nei fenomeni dello Spiritismo e contribuire a dare l'illusione di un'azione reale dei morti; in modo analogo essi possono anche, in certi casi, dare l'illusione di una reincarnazione.
Ciò che importa rilevare, sotto quest'ultimo aspetto, è che tali elementi (i quali possono, durante la vita, essere stati propriamente coscienti o soltanto «subconsci») comprendono in particolare tutte le immagini mentali che, derivando dall'esperienza sensibile, hanno fatto parte di quelle che sono chiamate memoria e immaginazione: queste facoltà, o piuttosto questi insiemi, sono perituri, cioè soggetti a dissolversi, perché essendo di ordine sensibile, sono vere e proprie «dipendenze» dello stato corporeo; d'altra parte, fuori della condizione temporale, che è una di quelle che definiscono questo stato, la memoria non avrebbe evidentemente alcuna ragione di
persistere.
Certo, queste considerazioni sono molto lontane dalle teorie della psicologia classica sull'« io» e la sua unità, teorie che hanno l'unico difetto di essere, nel loro genere, quasi altrettanto prive di fondamento quanto le concezioni dei «neospiritualisti».
Un'altra osservazione non meno importante è che vi può essere trasmissione di elementi psichici da un essere a un altro senza che ciò presupponga la morte del primo: in effetti, così come esiste un'eredità fisiologica, esiste pure un'eredità psichica, che è assai poco contestata anche perché è un fatto di osservazione corrente; ma ciò di cui molti probabilmente non si rendono conto, è che questo presuppone almeno che i genitori trasmettano un germe psichico, assieme a un germe corporeo. Questo germe può coinvolgere potenzialmente un insieme estremamente complesso di elementi appartenenti alla sfera del «subconscio», oltre alle tendenze o predisposizioni in senso proprio le quali, sviluppandosi, appariranno in modo più manifesto; gli elementi subconsci, al contrario, potranno diventare apparenti soltanto in casi piuttosto eccezionali.
È questa la duplice eredità psichica e corporea espressa dalla formula cinese: «E tu rivivrai nelle migliaia di tuoi discendenti », che sarebbe assai difficile, senza troppo rischiare, interpretare in senso reincarnazionistico, quantunque gli occultisti e talvolta anche gli orientalisti siano riusciti a compiere ben altre forzature di questo tipo. Le dottrine estremo orientali tengono conto di preferenza dell'aspetto psichico dell'eredità e vedono in essa un vero e proprio prolungamento dell'individualità umana; è questo il motivo per cui, sotto il nome di «posterità» (che è d'altro canto suscettibile anche di un senso superiore e puramente spirituale), esse la associano alla «longevità », chiamata immortalità dagli occidentali.
Come vedremo in seguito, certi fatti che i reincarnazionisti credono di poter invocare in appoggio della loro ipotesi si spiegano perfettamente mediante l'uno o l'altro dei due casi da noi esaminati, vale a dire, da una parte con la trasmissione ereditaria di taluni elementi psichici, dall'altra con l'inglobamento in una individualità umana di altri elementi psichici provenienti dalla disintegrazione di individualità umane anteriori, le quali non hanno per questo il minimo rapporto spirituale con essa.
Vi è, in quest'ordine di cose, corrispondenza e analogia tra la sfera psichica e la sfera corporea; e ciò è comprensibile, poiché l'una e l'altra, lo ripetiamo, si riferiscono esclusivamente a quelli che si possono chiamare gli elementi mortali dell'essere umano. Occorre ancora aggiungere che nella sfera psichica può succedere, più o meno eccezionalmente, che un insieme abbastanza considerevole di elementi si conservi senza dissociarsi e sia trasferito tal quale in una nuova individualità; i fatti di questo genere sono naturalmente quelli che presentano il carattere più vistoso agli occhi dei sostenitori della reincarnazione, e tuttavia casi simili non sono meno illusori di tutti gli altri.
Qualcuno pensa che un «transfert» analogo possa avvenire per elementi corporei resi più o meno sottili, e prende così in considerazione una «metensomatosi» accanto a1la «metempsicosi»; a prima vista si potrebbe essere tentati di supporre che si tratti di una confusione e che sia erroneamente attribuita la corporeità agli elementi psichici inferiori. Si può tuttavia realmente trattare di elementi di origine corporea, ma in qualche modo «psichizzati» attraverso quella trasposizione nello «stato sottile» di cui abbiamo indicato precedentemente la possibilità. Lo stato corporeo e lo stato psichico, semplici modalità differenti di uno stesso stato di esistenza - quello dell'individualità umana -, non possono essere totalmente separati.Tutto ciò, come abbiamo detto, non riguarda e non tocca assolutamente l'essere reale; è vero, ci si potrebbe domandare perché se le cose stanno così gli antichi sembrano aver attribuito una importanza abbastanza grande alla sorte postuma degli elementi in questione.
Potremmo rispondere facendo semplicemente notare che molte persone si preoccupano del trattamento che il loro corpo subirà dopo la morte, senza pensare per questo che il loro spirito debba risentirne il contraccolpo; ma aggiungeremo che effettivamente, come regola generale, queste cose non sono affatto indifferenti. Se lo fossero, i riti funerari non avrebbero alcuna ragione d'essere, mentre invece ne hanno una molto profonda.
Senza poter insistere sull'argomento, diremo che l'azione di tali riti si esercita precisamente sugli elementi psichici del defunto; abbiamo ricordato quello che pensavano gli antichi del rapporto intercorrente tra la mancata esecuzione dei riti funerari e certi fenomeni di «infestazione»: tale opinione era perfettamente fondata. Certo, se si considerasse l'essere soltanto in quanto passato a un altro stato di esistenza, non sarebbe
assolutamente il caso di tener conto di quello che può succedere a tali elementi (tranne forse per assicurare la tranquillità dei viventi); ma le cose sono del tutto diverse se si ha riguardo a quelli che abbiamo chiamato i prolungamenti dell'individualità umana. Questo argomento potrebbe dar luogo a considerazioni la cui complessità e la cui inusitatezza stesse ci dissuadono dall'affrontare ora; riteniamo, del resto, che sia uno di quelli che non è né utile né profittevole trattare pubblicamente in modo particolareggiato.


Trasmigrazione

Dopo aver detto in che cosa consiste realmente la metempsicosi, ci resta ora da dire che cosa sia la trasmigrazione in senso proprio: questa volta si tratta sì dell'essere reale, ma non di un suo ritorno nel medesimo stato di esistenza, ritorno che, se potesse avvenire, sarebbe una «migrazione», non una «trasmigrazione». La trasmigrazione è, al contrario, il passaggio dell'essere ad altri stati di esistenza, definiti, come abbiamo detto, da condizioni totalmente differenti da quelle alle quali è soggetta l'individualità umana (con l'unica restrizione che, finché si tratta di stati individuali, l'essere è sempre rivestito di una forma, la quale però non può dar luogo ad alcuna rappresentazione spaziale o di altro tipo, più o meno modellata su quella della forma corporea).
Quando si parla di trasmigrazione si intende essenzialmente cambiamento di stato.
Questo insegnano tutte le dottrine tradizionali dell'Oriente, e molteplici ragioni ci spingono a pensare che identico fosse l'insegnamento dei «misteri» dell'antichità; lo stesso si dica di dottrine eterodosse come il buddhismo, nonostante l'interpretazione reincarnazionistica diffusa oggi fra gli europei. E’ la dottrina vera della trasmigrazione, intesa nel senso che le attribuisce la metafisica pura, a consentire la confutazione assoluta e definitiva dell'idea della reincarnazione; e solo su questo terreno simile confutazione è possibile.
Siamo dunque così condotti a dimostrare che la reincarnazione è una impossibilità pura e semplice; intenderemo con ciò che uno stesso essere non può avere due esistenze nel mondo corporeo, sia pure questo mondo considerato in tutta la sua estensione: poco importerà che ciò avvenga sulla terra o su qualunque altro astro; poco importerà altresì che la cosa lo coinvolga in quanto essere umano oppure, secondo le false concezioni della metempsicosi, sotto tutt'altra forma, animale, vegetale o addirittura minerale. Aggiungeremo ancora: poco importerà che si tratti di esistenze successive o simultanee, giacché si dà il caso che alcuni abbiano fatto la supposizione, quanto meno ridicola, di una pluralità di vite svolgentisi contemporàneamente, per uno stesso essere, in luoghi diversi verosimilmente su pianeti differenti.
Alcuni occultisti sostengono inoltre che l'individuo umano può avere più «corpi fisici», come dicono, viventi nello stesso tempo su differenti pianeti; e si spingono fino ad affermare che se succede a qualcuno di sognare di essere stato ucciso, ciò avviene perché, in molti casi, nello stesso istante è effettivamente stato ucciso su un altro pianeta! Può sembrare incredibile, ma l'abbiamo udito con i nostri orecchi.
C'è da aggiungere che la dimostrazione che vale contro tutte le teorie reincarnazionistiche, qualsiasi forma assumano, si applica egualmente, e per gli stessi motivi, a certe concezioni di tipo più propriamente filosofico, quali la concezione dell'«eterno ritorno» di Nietzsche, e, in una parola, a tutto quel che presuppone nell'universo una qualsiasi ripetizione.


Dimostrazione logica dell'impossibilità della reincarnazione
Teoria degli stati molteplici dell'essere: cenni

Non possiamo pensare di esporre qui, con tutti gli sviluppi che comporta, la teoria metafisica degli stati molteplici dell'essere; ad essa abbiamo intenzione di dedicare, quando potremo, uno o più studi particolari.
Possiamo però indicare almeno il fondamento della teoria, che è nello stesso tempo il principio della dimostrazione di cui è ora questione: la Possibilità universale e totale è necessariamente infinita e non può essere concepita in modo diverso, poiché, comprendendo tutto e non lasciando niente fuori di sé, non può essere limitata assolutamente da nulla; una limitazione della Possibilità universale, dovendo essere esteriore ad essa, è propriamente e letteralmente una impossibilità, cioè un puro nulla. Ora, supporre una ripetizione nell'ambito della Possibilità universale, come si fa ammettendo due possibilità particolari identiche, equivale ad attribuirle una limitazione, in quanto l'infinità esclude qualsiasi ripetizione: soltanto all'interno di un insieme finito si può tornare due volte a uno stesso elemento, e inoltre tale elemento non sarebbe rigorosamente lo stesso se non alla condizione che l'insieme formi un sistemà chiuso, condizione che non si realizza mai effettivamente.Essendo l'universo realmente un tutto, o piuttosto il Tutto assoluto, un ciclo chiuso non può esistere da alcuna parte: due possibilità identiche sarebbero una stessa e sola possibilità; perché siano veramente due, è necessario che esse differiscano per una condizione almeno, di conseguenza non sono più identiche.
Nulla può mai ritornare allo stesso punto, e questo anche in un insieme soltanto indefinito (e non infinito) come il mondo corporeo: mentre si traccia un cerchio si verifica uno spostamento, pertanto il cerchio si chiude solo in modo del tutto illusorio. Questa è una semplice analogia, ma può servire per aiutare a comprendere che, a fortiori, nell'esistenza universale, il ritorno allo stesso stato è una impossibilità: nella Possibilità totale le possibilità particolari costituite dagli stati di esistenza condizionati sono necessariamente in molteplicità indefinita; negare questo significa nuovamente voler limitare la Possibilità; sarà dunque necessario ammetterlo pena la contraddizione, e ciò basta perché nessun essere possa passare due volte attraverso lo stesso stato.
Come si vede, questa dimostrazione è in sé estremamente semplice, e se qualcuno faticherà un poco a comprenderla ciò sarà forse dovuto soltanto al.fatto che gli mancano le conoscenze metafisiche più elementari; in questo caso sarebbe forse necessaria un'esposizione più sviluppata, ma preghiamo coloro che sono in tali condizioni di attendere, per trovarla, che ci sia data l'occasione di esporre integralmente la teoria degli stati molteplici. Costoro possono però essere certi che, in ogni caso, tale dimostrazione, così come l'abbiamo esaminata nelle sue linee essenziali, non lascia nulla a desiderare sotto l'aspetto della rigorosità. Quanto a coloro che pensano che respingendo la reincarnazione rischiamo di limitare in un altro modo la Possibilità universale, risponderemo semplicemente che così facendo respingiamo soltanto una impossibilità la quale non è nulla, e quindi aumenterebbe la somma delle possibilità soltanto in modo totalmente illusorio, essendo uno zero puro, Non si limita la Possibilità negando una assurdità, per esempio dicendo che non può esistere un quadrato rotondo, o che fra tutti i mondi possibili non può essercene nessuno in cui due per due faccia cinque; il caso in questione è esattamente lo stesso.
Alcuni si fanno, in quest'ordine di idee, degli strani scrupoli: così Cartesio, quando attribuiva a Dio la «libertà di indifferenza », per timore di limitare l'onnipotenza divina (espressione teologica della Possibilità universale), senza accorgersi che una simile «libertà di indifferenza», ovvero la scelta in assenza di motivo, implica condizioni contraddittorie; diremo, per usare il suo linguaggio, che un'assurdità non è tale perché Dio l'ha arbitrariamente voluta, ma che, al contrario, è proprio perché si tratta di una assurdità che Dio non può fare in modo che essa sia qualcosa, senza tuttavia che ciò comprometta minimamente la sua onnipotenza, assurdità e impossibilità essendo sinonimi. Ritornando agli stati molteplici dell'essere, faremo notare, poiché è essenziale, che tali stati possono essere concepiti tanto in simultaneità quanto in successione e che, nell'insieme, la successione non si può ammettere se non come rappresentazione simbolica, poiché il tempo è una condizione propria soltanto a uno degli stati; del resto, anche la durata, sotto qualunque suo aspetto, può essere attribuita solo ad alcuni fra di essi. Se si vorrà dunque parlare di successione, bisognerà aver cura di precisare che ciò si può fare soltanto in senso logico, e non in senso cronologico.
Dicendo successione logica intendiamo dire che esiste un concatenamento causale fra i diversi stati; ma il rapporto stesso di causalità, assunto nel suo vero significato (e non nell'accezione «empiristica» di alcuni logici moderni), implica precisamente la simultaneità o la coesistenza dei suoi termini.
Inoltre, è bene precisare che anche lo stato individuale umano, soggetto alla condizione temporale, può presentare tuttavia una molteplicità simultanea di stati secondari: l'essere umano non può avere diversi corpi, ma, al di fuori della modalità corporea e contemporaneamente ad essa, può possedere altre modalità nelle quali si sviluppano alcune delle possibilità che esso comporta.
Questo ci induce a segnalare una concezione che si ricollega piuttosto strettamente a quella della reincarnazione, e conta numerosi sostenitori anche fra i «neospiritualisti»: secondo tale concezione, ogni essere dovrebbe, nel corso della sua evoluzione (coloro che sostengono simili idee sono infatti, in un modo o in un altro, sempre evoluzionisti), passare successivamente attraverso tutte le forme di vita, terrene e non terrene.
Una simile teoria esprime soltanto una impossibilità manifesta, per la semplice ragione che esiste una indefinità di forme viventi attraverso cui un essere qualsiasi non potrà mai passare, essendo tutte queste forme occupate dagli altri esseri.
D'altra parte, quand'anche un essere avesse percorso successivamente una indefinità di possibilità particolari, e in un campo ben più esteso di quello delle «forme di vita», esso non sarebbe con ciò più avanzato rispetto al termine finale, che non potrebbe essere raggiunto in questo modo; ritorneremo su questo punto parlando più particolarmente dell'evoluzionismo spiritistico. Per il momento faremo soltanto notare questo: il mondo corporeo tutt'intero, nello spiegamento integrale di tutte le possibilità che contiene, rappresenta soltanto una parte del campo di manifestazione di un solo stato; questo stato comporta quindi, a fortiori, la potenzialità corrispondente a tutte le modalità della vita terrestre, la quale è soltanto una porzione molto ristretta del mondo corporeo.
Ciò rende perfettamente inutile (anche se la sua impossibilità non fosse dimostrabile in un altro modo) la supposizione di una molteplicità di esistenze attraverso le quali l'essere si eleverebbe progressivamente dalla modalità più bassa, quella del minerale, fino alla modalità umana, considerata la più alta, passando successivamente attraverso il vegetale e l'animale, con tutta la moltitudine di gradi che ciascuno di questi regni comporta; in effetti vi sono persone che fanno di queste ipotesi (respingono solo la possibilità di un ritorno all'indietro).
In realtà l'individuo, nella sua estensione integrale, contiene simultaneamente le possibilità che corrispondono a tutti questi gradi (non diciamo, si noti bene, che le contenga corporalmente). Tale simultaneità si traduce in successione temporale soltanto nello sviluppo della sua unica modalità corporea, nel corso del quale, come mostra l'embriologia, l'individuo passa effettivamente attraverso tutti gli stadi corrispondenti, a partire dalla forma unicellulare degli esseri organizzati più rudimentali, anzi, risalendo ulteriorormente, a partire dal cristallo, fino alla forma umana terrestre.
Quel che occorre soprattutto ricordare è che il punto di vista della successione è essenzialmente relativo; d'altra parte, anche nei limiti ristretti in cui è legittimamente applicabile, esso perde quasi tutto il suo interesse grazie alla semplice osservazione che il germe, prima di qualsiasi sviluppo, contiene già in potenza l'essere completo (ne vedremo presto l'importanza). In ogni caso, questo punto di vista deve sempre restare subordinato a quello della simultaneità, come esige il carattere puramente metafisico, quindi extratemporale (ma anche extraspaziale, in quanto la coesistenza non suppone necessariamente lo spazio), della teoria degli stati molteplici dell'essere.

 N.B. Il testo sovrariportato è tratto dal cap. VI del testo di Renè Guenon "L'errore dello spiritismo" e non ne è l'integrale riproduzione. Si è fatta questa scelta per renderne più snella la consultazione; sono stati tagliati solo i riferimenti e le confutazioni relative alle teorie delle più note correnti spiritistiche e occultistiche che, all'epoca in cui il testo è stato scritto, erano in gran voga mentre, oggi, sono quasi sconosciute. La suddivisione in paragrafi e i sottotitoli sono del redattore.

Sebbene la distinzione fra l'iniziazione effettiva e l'iniziazione virtuale possa essere già abbastanza compresa con l'ausilio delle precedenti considerazioni, essa è tanto importante da indurci a precisarla meglio; a tal riguardo, faremo rilevare in primo luogo che, tra le condizioni dell'iniziazione enunciate in precedenza, il collegamento ad una organizzazione tradizionale regolare (collegamento che naturalmente presuppone la qualificazione) è sufficiente per l'iniziazione virtuale, mentre, il lavoro interiore che ne consegue concerne proprio l'iniziazione effettiva; insomma, questa è a tutti i suoi gradi lo sviluppo «in atto» delle possibilità cui l'iniziazione virtuale dà accesso. Questa iniziazione virtuale è dunque l'iniziazione intesa nel significato più stretto del termine, vale a dire come una «entrata» o un «principio»; il che, bene inteso, non significa menomamente che essa possa essere considerata come qualche cosa di sufficiente a se stessa, ma soltanto come il punto di partenza necessario per tutto il resto; quando si è entrati in una via, bisogna altresì sforzarsi di seguirla, ed anzi, se è possibile, di seguirla fino in fondo. Si può riassumere tutto in poche parole: entrare nella via è l'iniziazione virtuale; seguire la via è l'iniziazione effettiva; disgraziatamente, di fatto, molti restano sulla soglia, non sempre per colpa della loro incapacità nel procedere oltre, ma anche, nelle condizioni attuali del mondo occidentale soprattutto, a causa della degenerescenza di certe organizzazioni che, divenute semplicemente «speculative», come abbiamo spiegato, non possono per tal motivo aiutarli in alcun modo nel lavoro «operativo», fosse pure nei suoi stadi più elementari, e nulla forniscono di ciò che almeno possa permettere ad essi di avere il semplice sospetto dell'esistenza di una qualsiasi «realizzazione». Epperò, anche in queste organizzazioni, si parla è vero ad ogni istante di «lavoro» iniziatico, o almeno di qualche cosa che si considera tale; ma ci si può porre allora legittimamente la questione: in qual senso e in qual misura ciò corrisponde ancora a qualche, realtà?

Per rispondere ad una tale questione, ricorderemo che l'iniziazione è essenzialmente una trasmissione, ed aggiungeremo che un tal fatto può intendersi in due modi differenti: da una parte, trasmissione di una influenza spirituale, e, d'altra parte, trasmissione di un insegnamento tradizionale: È la trasmissione dell'influenza spirituale che dev'essere soprattutto considerata, non soltanto perchè deve logicamente precedere ogni insegnamento, il che è troppo evidente quando si comprende la necessità del collegamento tradizionale, ma anche e principalmente perché proprio questa trasmissione costituisce essenzialmente l'iniziazione in senso stretto, sicchè, se non dovesse trattarsi che di iniziazione virtuale, tutto si potrebbe insomma limitare a ciò, senza nemmeno porsi la questione di aggiungervi ulteriormente un insegnamento qualsiasi. In effetti, l'insegnamento iniziatico, di cui in seguito preciseremo il carattere particolare, non può essere altro che un aiuto esteriore apportato al lavoro interiore di realizzazione, alfine di appoggiarlo e guidarlo per quanto possibile; donde in fondo la sua unica ragion d'essere, ed è solo in ciò che può consistere il lato esteriore e collettivo di un vero «lavoro» iniziatico, se si intende realmente quest'ultimo nel suo significato legittimo e normale.

Ora, la questione è resa un po' più complessa dal fatto che le due specie di trasmissioni da noi indicate, pur essendo in effetti distinte, in ragione della differenza della loro stessa natura, non possono tuttavia mai essere interamente separate, il che richiede ancora qualche spiegazione, sebbene un tale punto sia stato già da noi trattato in qualche modo implicitamente a proposito degli stretti rapporti intercorrenti fra il rito e il simbolo.

In effetti, i riti sono essenzialmente ed in primo luogo il veicolo dell'influenza spirituale, che senza di essi non può in alcun modo essere trasmessa; ma in, pari tempo, per il fatto stesso che hanno, in tutti gli elementi che li costituiscono, un carattere simbolico, comportano in se stessi necessariamente anche un insegnamento, poiché, come abbiamo detto, i simboli sono precisamente il solo linguaggio conveniente realmente all'espressione delle verità dell'ordine iniziatico. In modo inverso, i simboli sono essenzialmente un mezzo d'insegnamento, e non soltanto di insegnamento esteriore, ma anche di qualche cosa di più, dovendo soprattutto servire da «appoggio alla meditazione» che è almeno il principio di un lavoro interiore; ma questi stessi simboli, in quanto elementi dei riti e in ragione del loro carattere «non-umano», sono pure «appoggi» della stessa influenza spirituale. Del resto, è sufficiente riflettere sul fatto che questo lavoro interiore resta inefficace senza l'azione, o, se si preferisce, senza la collaborazione di questa influenza spirituale, per comprendere come la meditazione sui simboli prenda essa stessa in certe condizioni il carattere di un vero rito, e di un rito che questa volta non conferisce più soltanto l'iniziazione virtuale, ma permette di raggiungere un grado più o meno avanzato d'iniziazione effettiva.

Per contro, invece di servirsi dei simboli in tal modo, ci si può 'anche limitare a « specularvi » sopra, senza proporsi altro; in questa maniera, non vogliamo certo dire che sia illegittimo spiegare i simboli, nella misura del possibile, e cercare di sviluppare, con appropriati commenti, i sensi differenti che contengono (a condizione di guardarsi bene da ogni «sistemazione», incompatibile con l'essenza stessa del simbolismo); ma vogliamo dire che in tutti i casi un tal fatto dovrebbe essere considerato soltanto come una semplice preparazione a qualche altra cosa, ed è proprio ciò che, per definizione, sfugge necessariamente al punto di vista «speculativo» come tale. Quest'ultimo non può attenersi che ad uno studio esteriore dei simboli, studio mediante il quale non si può evidentemente passare dall'iniziazione virtuale all'iniziazione effettiva; questo studio esteriore si arresta altresì molto spesso ai significati più superficiali, poichè, per andare oltre, è già necessario un grado di comprensione che in realtà presuppone una cosa del tutto differente dalla semplice «erudizione»; ed anzi bisogna stimarsi fortunato se tale studio non si smarrisce più o meno completamente in considerazioni «laterali», come ad esempio avviene quando si vuole trovare nei simboli un pretesto per «moralizzare» o per ricavarne pretese applicazioni sociali, oppure politiche, che di certo non hanno nulla di iniziatico o di tradizionale. In quest'ultimo caso, si è già oltrepassato quel limite donde il «lavoro» di certe organizzazioni cessa interamente di essere iniziatico, fosse pure in modo del tutto «speculativo», per cadere, puramente e semplicemente nel punto di vista profano; questo limite è naturalmente anche quello che separa la semplice degenerescenza dalla deviazione, ed è facile comprendere come la «speculazione», presa per un fine in se stessa, si presti sfortunatamente a scivolare dall'una all'altra in maniera quasi insensibile.

Possiamo ora ricavare le conclusioni .da una tale questione: fin quando non si fa che «speculare», anche attenendosi al punto di vista iniziatico e senza deviarne in modo alcuno, ci si trova in qualche maniera chiusi in un vicolo cieco, poichè non sì può in tal modo oltrepassare la iniziazione virtuale; e, d'altronde, quest'ultima esisterebbe ugualmente senza alcuna «speculazione», poichè è la conseguenza immediata dalla trasmissione dell'influenza spirituale. L'effetto del rito, per il cui tramite questa trasmissione è operata, è «differito», come già dicemmo, e resta allo stato latente ed «inviluppato» finché non si passa dallo «speculativo» all'«operativo»; in altri termini, le considerazioni teoriche hanno valore reale, come lavoro propriamente iniziatico, soltanto se sono destinate a preparare la «realizzazione»; ed esse ne sono di fatto la preparazione necessaria, ma il punto di vista speculativo è incapace di riconoscere questa verità, e in conseguenza non può darne menoma-mente la coscienza a coloro che limitano il loro orizzonte a questo punto di vista stesso. 

tratto da Renè GuenonConsiderazioni sull'iniziazione, cap. XXX, , Luni Editrice

René Guénon riteneva che la diffusione di informazioni di carattere biografico fosse inutile e che le speculazioni sulla vita privata di una persona avessero una connotazione voyeurista.

Per chi fosse interessato, oltre alle fin troppo numerose informazioni facilmente reperibili in rete, si consiglia la lettura de La vita semplice di Renè Guènon di Paul Chacornac.

In ogni caso è innegabile che l'esistenza terrena del filosofo francese è stata sempre, in ogni suo aspetto, conforme al Dharma, 'nel mondo, ma non del mondo'.

Sebbene - come ogni vero maestro - egli non si sia mai atteggiato nè abbia voluto essere chiamato maestro, Guénon è stato e continua ad essere un riferimento sicuro per coloro che a un certo punto della loro vita sentono il richiamo del Sacro, oltre l'apparenza transeunte.

Poiché ciò che sta davvero a cuore a Guènon è il Logos e non il veicolo fisico attraverso il quale esso viene espresso, è utile un richiamo alla funzione da lui svolta, sinteticamente espressa in queste parole dell'autore stesso:

"Se alcuni occidentali potessero, attraverso la lettura di quanto siamo andati esponendo, prendere coscienza di quanto fa loro difetto intellettualmente, se potessero non diremo capirlo ma solo intravederlo e presentirlo, questo lavoro non sarebbe stato fatto invano. Non intendiamo parlare soltanto dei vantaggi inestimabili che potrebbero ottenere direttamente, per se stessi, coloro che fossero così condotti a studiare le dottrine orientali, dove troverebbero, per poco che possiedano le attitudini indispensabili, conoscenze che non hanno l'uguale in Occidente e accanto a cui le filosofie che passano per geniali e sublimi non sono che passatempi infantili; non vi è misura comune tra la verità assentita nella sua pienezza, attraverso una concezione dalle possibilità illimitate e in una realizzazione ad essa adeguata, e le ipotesi, di qualunque natura siano, immaginate da fantasie individuali a misura della loro capacità essenzialmente limitata.

Vi sono ancora altri risultati, di un interesse più generale, e che del resto si ricollegano ai precedenti come fossero conseguenze più o meno lontane; intendiamo alludere alla preparazione, non certo imminente, ma nondimeno effettiva, di un avvicinamento intellettuale tra l'Oriente e l'Occidente".

 

Bibliografia guenoniana essenziale:

- Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

- L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta

- Gli stati molteplici dell'essere

- Considerazioni sull’iniziazione

 

    

       

 

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