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Questo pianeta, in cui lo "stato individuato umano" esiste da svariate migliaia di anni, è talmente intriso di "male" da far pensare a molti che il bene non debba proprio esistere.
L'ente planetario ha sempre sofferto, soffre e soffrirà per la potenza del male che lo tortura, lo inebetisce e lo rende alienato. La storia dell'umanità è stata più o meno caratterizzata da lotte intestine, da guerre fratricide, da violenze di ogni genere tali da oscurare ogni razionalità. Alcune dottrine considerano questo nostro pianeta non sacro; vale a dire un pianeta - meglio, il suo stato coscienziale - scisso dall'Armonia universale. E' una sfera di dolore perchè in essa impera il senso dell'io, della separatività e del non riconoscimento del proprio ruolo in seno alla natura.
Fino a quando gli individui non si soffermano un pò a meditare sul loro vero stato esistenziale, fino a quando non prendono in considerazione la visione totale, integrale della propria costituzione coscienziale non sarà possibile comprendere il male e tantomeno risolverlo e trascenderlo. Eppure tante personalità, di statura immensa, hanno cercato di far capire e persino dato indicazioni per eliminare la condizione di indigenza, di povertà conoscitiva e spirituale.
L'uomo è arrivato a un tal punto di smarrimento da essersi appiattito e rassegnato a vivere quella "parte di sè" che manifesta espressamente l'ignoranza e quindi il dubbio e la confusione, con tutte le conseguenze del caso. Molti (e non solo la parte "massa" dell'umanità) considerano l'ente come un semplice fenomeno corporeo che proviene dal nulla e al nulla ritorna e la cui contingente apparizione non apporta altro che contraddizioni, violenza e male. A volte si può persino pensare che il male si diventato un aspetto reale e ineluttabile al quale bisogna sottostare, fino a considerarlo parte integrante e legittima del vivere quotidiano. Ciò rappresenta il totale annichilimento della coscienza umana. Sotto questa prospettiva il nichilismo è la visione madre dell'uomo, ma esso è la forma più oscura riduttiva e imprigionante che l'ente abbia proposto a sè stesso e agli altri.
Poniamoci alcune domande, evitando aprioristicamente un rifiuto ingiustificato e cerchiamo di rispondere presentando alcune vedute di estrema utilità che i nostri veri Padri e Maestri ci hanno indicato come soluzione per comprendere e risolvere certe cose.

Qual è la natura del male?
Qual è la sua origine?
Il male è una realtà assoluta?
All'esistente è necessario il male?

Per comprendere adeguatamente la natura del male è opportuno comprendere prima la natura del bene.
Il bene - come supremo accordo di sè con sè stessi, quindi con gli altri - è felice espressione del vivere a qualunque livello e grado, è quel bene che comprende l'unità della vita, che riconosce la molteplicità come sviluppo dell'unità, che riconduce tutti gli enti all'Ente Supremo; è quello stato in cui si riconosce l'altro come indivisibile dalla propria natura. Il bene è la condizione dell'aver compreso la  totalità di sè stesso, è quella espansione di consapevolezza tale da lambire la circonferenza vitale.
Il bene è il fondamento unico e indivisibile del tutto esistente; e in colui che lo alberga, essendo egli medesimo divenuto bene, non può nè germogliare nè attecchire il male.
Questo tipo di bene lo possiamo riferire alla sfera sovrarazionale, sovrasensibile e universale nella sua più autentica accezione; mondo sensibile, commensurato, compiuto, sostanziato di Armonia, come affermano i più grandi Maestri o Saggi del passato e del presente. In tale mondo non possiamo trovare nè l'origine nè la natura del male.
Se accettiamo la natura del bene così come l'abbiamo esposta, di conseguenza comprenderemo quella del male. Il male ha la natura della separazione, della scissura dall'Intellegibile, della contrapposizione, dell'assolutismo dell'io in quanto fattore di distinzione; è la dissociazione dall'Essere, dall'Unità; è il costituirsi come elemento disgregante; è la condizione di sprofondamento nella totale differenziazione fino a far perdere il germe stesso della razionalità. Lo stesso termine "diavolo", personificazione del male, deriva dal latino diabolus e dal greco diàbolos (diàbolos da diabàllo), parole che significano calunniare, maledire, essere ostile, proporre discordia, quindi separazione da ciò che può unire.
Il male non è l'opposto sostanziale del bene, ma la degenerazione di una parte dell'ente che si è scissa dall'Intelligibile fino a costituirsi come realtà autonoma ed esclusiva.
Il male non può essere una realtà assoluta perchè rappresenta solo un "degrado"; anche se rientra come possibilità, si può dire che è un "accidente" in termini aristotelici. D'altra parte, non possono esistere due assoluti: il bene e il male.
Una dualità assoluta non è concepibile anche perchè è contraddittoria e i due si annullerebbero reciprocamente. La luce e la tenebra, come ogni dualità, non costituiscono due realtà essendo l'una la mancanza dell'altra. Constatiamo anche che i vari mali degli enti, propaggini del male originario, sono aleatori, modificabili e persino annullabili.

Ma qual è l'origine del male?

Se gli enti intelligibili esprimono accordo, pienezza, beatitudine, quindi perfetta commensura tra sè e sè stessi, e di conseguenza tra sè e il tutto esistente, vuol dire che in un dato "momento" v'è stato uno scollamento, uno stacco, per cui si è operata una scissura e l'ente si è costretto nella molteplicità opposizione-repulsione, nell'io e non-io, nella generazione del corporeo distintivo.
Ma un ente, che è unità e pienezza, può mai diventare molteplicità e povertà? Si può mai cambiare natura? Se la natura è lo stato permanente di una cosa, per cui essa è quello che è e non può essere diversamente da ciò che è, allora l'ente, avendo la natura della pienezza beatitudine, non può trovarsi d'un tratto con una natura diversa e addirittura opposta.
Se il male-povertà-dispersione è nel mondo del sensibile e non in quello Intelligibile (il fenomeno non può non presupporre il noumeno, il composto il semplice e l'inferiore il superiore) significa che l'ente intelligibile rimane identico a se stesso e quanto di esso si trova nel sensibile è un suo "riflesso" , una sua "ombra", una sua funzione, un suo specificarsi, un raggio diffusivo e anche dispersivo che, pur partecipando al suo arkè, principio divino, non è il vero ente nella sua pura essenza (ousia) e realtà.

"Qual è mai la causa che ha reso le anime - le quali pure son parti staccate di lassù e appartengono anzi completamente al mondo superno - dimentiche del loro padre Iddio e ignare di sè stesse e di Lui? Ebbene, prima radice del male, per esse, fu la temerarietà, e poi il nascere e l'alterità primitiva e la voglia di appartenere a sè stesse. Così, ebbre, visibilmente, di quella loro autodecisione, poi ch'ebber fatto il più largo uso di quel loro spontaneo movimento, dopo quella gran corsa sulla via contraria, distanziate che furono per sì gran tratto, finirono alfine per ignorare sè stesse e la loro origine ..."

L'ente nel sogno può proiettare un'immagine di sè che, per quanto sostanziale, non è reale-assoluta, e quest'immagine cedendosi realtà a sè stante, scissa dalla sua fonte, è in condizione alienata.
Il mondo della precipitazione, del sensibile e del divenire è un mondo in cui l'immagine rovesciata del vero ente opera in opposizione alle altre "immagini". E' il mito della caverna di Platone. Questo riflesso coscienziale della pura Consapevolezza intelligibile, per quanto apparentemente vivo, diremo che è un "morto" vagante, un ente di sogno che appare e scompare dall'orizzonte intelligibile; il male è solo un effetto, un prodotto che turba l'armonia del mondo ma non la può distruggere.
La scissura, per quanto non assoluta, non è operata dal vero ente ma dal suo riflesso il quale credendosi autonomo e separato dalla sua fonte, opera come se fosse il solo esistente, disconoscendo la sua paternità: "staccate da lassù... con la voglia di appartenere a sè stesse..."
In ciò si delinea il processo dell' "individuazione", della "particolarizzazione" dell'esistente sensibile. Così, è il sensibile che si stacca dall'Intelligibile; questo, inglobando e contenendo le indefinite modalità vitali e costituendo i fondamento metafisico di tutto l'esistente sensibile, non può staccarsi da niente e da nessuno.
Esso è l'Intero.
L'ente, quale realtà e unità, non può scindersi per costituirsi altro da sè, può comunque proiettare, per la sua facoltà creativa, un alter ego il quale non sarà altro che un'apparenza, un'immagine che, per quanto consistente, non potrà essere reale, perchè di realtà ve n'è una sola.
Un reale non può produrre un altro reale se già esso stesso è reale, nè ancora può produrre un niente, per cui il dato sensibile non è come le corna di una lepre o il figlio di una donna sterile, secondo l'esempio di Sankara; ciò che esso può manifestare è solo un fenomeno (da phainomai = io appaio).
L'Essere (tò òn) micro o macrocosmico, è; la vita formale, secondo Parmenide , appare e scompare dall'orizzonte noetico, e ciò è un'evidenza.
L'origine del male risiede in un atto proiettivo dell'ente reale, proiezione che determina l'altrettanto apparente smembramento di sè.
Plotino parla di temerarietà dell'Anima di uscire fuori di sè, come tendenza diffusiva, potenza attiva e dispersiva in reiterati "riflessi" formali.
Ma questo evento è una necessità, un'ineluttabilità dell'ente? Se l'ente intelligibile è totale pienezza, è anche totale libertà, e in questa libertà esso può offrirsi delle determinazioni; così ogni determinazione, essendo accidente, ha come causa il non-determinato. La libertà non è un suo attributo, il quale può esserci e non esserci; è, diremo, consustanziale all'ente, ed essendo tutto può tutto tranne che inficiare la natura dell'ente, quindi di sè.
Noi riconosciamo che l'esistente-sensibile umano può può pensare-proiettare, identificarsi col pensato, e può non identificarsi; può anche non proiettare-pensare. L'ente ha anche la libertà di non essere, per quanto solo in apparenza perchè non può ovviamente cambiare natura.
Il non-essere (tò mè òn) non è sostanziale quanto l'essere (tò òn), ma la sua "ombra", un suo fenomeno, un suo chiaroscuro, un suo miraggio che, per l' "ente di sogno", è sostanziale e reale quanto l'essere.
L'ente non erra quando sceglie di manifestarsi sui vari piani esistenziali, essendo questa una condizione accettabilissima, ma sbaglia quando s'identifica con i suoi prodotti, dimenticando sè stesso come realtà.
E' sempre il mito di Narciso che ci illumina. D'altra parte, l'identificazione rientra nelle sue possibilità e, inoltre, egli può riconoscersi in errore solo quando incomincia a prendere consapevolezza del suo vero stato.
Sembra paradossale che una tale identificazione - con ideali, passioni, beni materiali, erudizione, vanità, ecc. - possa portare l'uomo a tragedie inaudite; eppure è così. L'ente che sappia disidentificarsi dalla propria "ombra" , e quindi dai suoi prodotti, può rimettere le ali e volare verso lo stato di pienezza.
Così, l'evento proiettivo dell'ente non è ineluttabile, non è una necessità; come il male stesso, non essendo assoluto, non è un evento inevitabile. La libertà dell'ente intelligibile contempla necessariamente l'indefinita possibilità di specificarsi ma anche di non specificarsi. La causa comunque della differenziazione dev'essere attribuita all'"ombra" che si crede ciò che non è.
Nel Vedanta si parla di avidya, vale a dire del disconoscimento di ciò che si è realmente; l'ente empirico, o sensibile, crede di essere mortale, crede di essere un corpo, crede di essere il solo esistente nell'universo, crede di essere questo o quello; tutto ciò rappresenta una semplice credenza. In termini psicologici è l'io empirico che si considera un assoluto, una realtà in quanto tale; ma l'io, con i suoi prodotti, è un fenomeno che si staglia sullo schermo del noumeno, del nous; il suo consistere è movimento, divenire, cambiamento continuo fino a quando non si estingue completamente reintegrandosi nella sua fonte.
L'"ombra", o l'ente empirico, riceve l'intelligenza, la volizione e l'affezione dall'ente reale e immortale, ma esse rappresentano solo fattori di riflesso; la sua conoscenza è quella che si ha quando ci si trova davanti allo specchio; le verità che egli scopre sono il prodotto di immagini speculari, è dunque conoscenza mediata; Platone parla di eikasìa e di pìstis, immaginazione e credenza. Le cose vengono rappresentate, non conosciute per quello che sono.
Noi, quali composti empirici, abbiamo la rappresentazione concettuale dell'albero, o di una qualunque forma corporea, ma non abbiamo la conoscenza, o meglio, la consapevolezza dell'ousìa dell'albero o di un'altra forma.
Tale conoscenza di identità è pertinente al noùs.
L'atto diffusivo dell'ente reale è un fatto di ordine atemporale perchè la sua potenza è atto; mentre gli eventi e le cose che "crea" il riflesso vitale appartengono al tempo e allo spazio perchè esso opera nel mondo dei composti e perchè esso stesso si è foggiato di corpi composti per la propria sopravvivenza.
L'identificazione del riflesso coscienziale col composto e non col Semplice (noùs), è la causa che promuove il male, l'oscurità, l'alienazione, l'io e il non-io, l'opposizione, la lotta, la supremazia dell'uno sull'altro; è ciò che può determinarsi proprio perchè non si è.
Chi è pienezza e beatitudine vive di moto proprio, del proprio essere, della propria totalità. Chi è non si pone dei fini perchè non deve raggiungere alcunchè; è il riflesso coscienziale che, non essendo, deve porseli per conseguire quel qualcosa che non ha, di qui il divenire-movimento affannoso dell'ente empirico; ma per quanto possa divenire e "muoversi verso", non potrà mai raggiungere alcuna meta, anche perchè le mete sono indefinite. Andando nella direzione sbagliata, pressato da desideri e irrequietezze, è in continuo peregrinare, senza alcun proposito reale.
Ma come l'irraggiare dell'ente reale non è necessità, così l'identificazione del riflesso coscienziale con il composto non è necessità: rientra solo nelle sue possibiltà.
Tutte le Tradizioni filosofiche autenticamente realizzative hanno come movente quello di ricondurre il riflesso incarnato alla sua fonte metafisica la quale è la meta, se di meta si può parlare, più giusta e naturale.
Parmenide, Platone, Plotino pongono comunque una realtà suprema che trascende non solo la sfera del sensibile conflittuale, ma persino quella della Bellezza che, con il suo splendore, rende bello tutto l'Inteligibile; questa Realtà suprema e metafisica per eccellenza (che trascende il male e lo stesso bene), su cui si fonda l'intero esistente, viene denominata con vari nomi: Bene sommo, Uno-Uno, Essere in quanto è e non diviene, Uno metafisico (Plotino) e, per quanto riguarda il Vedanta shankariano, Brahman nirguna (non qualificato, Non-duale (advaita), ecc.

"Tutti gli uomini, fin dalla nascita, fanno uso dei sensi prima che dell'intelletto e incontrando dapprima, di necessità, le cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la loro vita nella credenza che esse siano le prime e le ultime cose e sostengono che quanto v'è in esse di doloroso o di piacevole sia rispettivamente il male e il bene: così pensano di averne abbastanza, e passano la loro vita perseguendo l'uno e tenendo l'altro lontano dal loro tetto. E chi tra loro s'atteggia a filosofo pretende persino che sia qui la sapienza! Somiglian, costoro, a uccelli pesanti che hanno preso molto dalla terra e, appesantiti così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un pò dalla bassura, poichè la parte più nobile dell'anima loro li sospinge verso la Bellezza; ma poichè non riescono a vedere le altezze - privi di altro sostegno cui appoggiarsi - precipitano in basso insieme con la loro decantata "virtù" all'agire pratico, cioè alla "scelta" tra le cose vive e basse donde prima avevan pure tentato di sollevarsi.
V'è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte vigore e di sguardo più acuto che san vedere, come per una suprema intensità visiva, lo splendore superno e s'innalzano fin lassù quasi al di sopra delle nubi e della caligine terrena e ivi dimorano disdegnando tutte le cose del mondo e deliziandosi di quel luogo - bene verace e avito - come un uomo che da tanto vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua, retta da buone leggi".

Raphael, Fuoco dei Filosofi
ed Asram Vidya, pagg. 109-118


Le citazioni sono tratte da Plotino, Enneadi.
Traduzione di Vincenzo Cilento. Laterza, Bari

D. Si parla di reincarnazione, metempsicosi, rinascita, trasmigrazione, ma che cosa vogliono dire questi termini?

E chi è che rinasce o trasmigra?

R. In tutti i rami tradizionali si è sempre posto il problema della rinascita. La Tradizione misterica occidentale parla, appunto, di metempsicosi, quella orientale - e in essa si può includere il Buddhismo, il Taoismo e il Jainismo - di trasmigrazione o rinascita.
Il concetto di trasmigrazione, o rinascita, implica ovviamente che c'è qualcosa che va e viene, che crea movimento o cambiamento di stato. Potremmo ulteriormente chiederci: perché si trasmigra, perché si rinasce? Questo punto è molto importante e anche molto discusso.
Prima di tutto potremmo porre il problema in termini metafisici: il "nato", se veramente è tale, non può rinascere una seconda volta; ciò che non è nato non può nascere e venire all'esistenza, essendo un eterno presente, un assoluto o una costante; l'inesistente poi non può né nascere né esistere o essere.
Dunque, se la Costante-atman, Spirito puro, l'Assoluto in noi o il puro Essere non può né nascere perché semplicemente è, né quindi trasmigrare perché non è soggetto a cambiamento, allora che cosa è in noi che trasmigra? E perché trasmigra e rinasce?

Per capire chi rinasce e perché, dovremo conoscere la costituzione dell'ente manifestato nei suoi componenti psico-fisici; in questo modo potremo meglio affrontare l'intero problema.
Come abbiamo già menzionato, secondo la Tradizione misterica occidentale, l'uomo è la sintesi di nous, psichè e soma; secondo quella vedanta esso è la sintesi di atma, jiva e jivabhuta. Il nous, come l'atma, essendo la costante, l'immortale, il non-nato e l'assoluto in noi, non può ovviamente essere soggetto a nascita e trasmigrazione. L'immortale non può divenire mortale, né il mortale divenire immortale, dice Gaudapada nelle sue karika alla Mandukya upanisad.
Il corpo, o i corpi dell'ente, essendo perituri come i tafani, si disintegrano, e i loro elementi ritornano al piano e all'elemento esistenziale da cui sono stati tratti. Non possono trasmigrare né rinascere perché, essendo dei composti, si sciolgono, si disintegrano e non lasciano dietro di sé alcuna traccia.
Il jiva, o psichè, è un riflesso coscienziale dell'atman-nous, è un raggio di pura coscienza che, per quanto semplice raggio, ha in sé volontà-essere, intelligenza-coscienza e creatività. Esso attira a sé una quantità di sostanza dai piani esistenziali dell'Essere, creandosi i corpi di manifestazione coi quali poter esperire i vari oggetti dei sensi.

"Un eterno frammento di Me, divenuto nel mondo
dei mortali un'anima vivente (jivabhuta), attira
a sé i [cinque] sensi e la mente (manas), come
sesto organo, i quali trovano fondamento in prakrti".

(Bhagavad Gita: XV, 7)

Se l'atma appartiene allo stato dell'Essere - per cui essendo immortale non può trasmigrare -, se il corpo appartiene alla condizione del non-essere, per cui non ha vita propria e aseità, allora l'attenzione va posta su due dati molto importanti: il riflesso-jiva-psichè e le "qualità" le quali rappresentano il "profumo" della sostanza.

"Il soffio vitale", scrive Renè Guenon in "L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta" (Edizioni Studi Tradizionali) parafrasando alcuni capitoli della "Brhad-aranyaka up.", della "Chandogya up." e del "Brahma sutra", che trattano del momento della morte, "accompagnato similmente da tutte le altre funzioni e facoltà (già in esso riassorbite e non sussistendovi che come possibilità, poiché sono ormai ritornate allo stato d'indifferenziazione da cui erano dovute uscire per manifestarsi effettivamente durante la vita), a sua volta, è riassorbito nell'anima vivente (jivatma, manifestazione particolare del Sé al centro dell'individualità umana, come precedentemente lo abbiamo spiegato, e distinguentesi dal Sé finché questa individualità sussiste come tale, quantunque questa distinzione sia d'altronde del tutto illusoria in rapporto alla realtà assoluta, per la quale non vi è altro che il Sé); ed è appunto quest'anima vivente (come riflesso del Sé e principio centrale dell'individualità) che governa l'insieme delle facoltà individuali (considerate nella loro integralità, e non soltanto in ciò che concerne la modalità corporea).
Come i servi d'un re si riuniscono intorno a lui quando egli è in procinto d'intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e le facoltà (esterne ed interne) dell'individuo si riuniscono intorno all'anima vivente (o piuttosto proprio in essa, da cui procedono tutte e nella quale sono riassorbite) all'ultimo momento (della vita nel senso ordinario della parola, vale a dire dell'esistenza manifestata nello stato grossolano), quando quest'anima vivente sta per ritirarsi dalla sua forma corporea.

Così, accompagnata da tutte le sue facoltà (poiché le contiene e le conserva in sé a titolo di possibilità), essa si ritira in un'essenza individuale luminosa (vale a dire nella forma sottile, assimilata ad un veicolo igneo, come l'abbiamo spiegato a proposito di Taijasa, la seconda condizione d'Atma), che è composta dei cinque tanmatra o essenze elementari soprasensibili (come la forma corporea è composta dei cinque bhuta o elementi corporei e sensibili), in uno stato sottile (in opposizione allo stato grossolano, che è quello della manifestazione esteriore o corporea, il cui ciclo è ormai compiuto per l'individuo considerato).

"Per conseguenza (in virtù di questo passaggio nella forma sottile, descritta come luminosa), si dice che il soffio vitale si ritira nella Luce, senza che s'intenda da ciò il principio igneo in modo esclusivo (poiché si tratta in realtà d'un riflesso individualizzato della Luce intelligibile, riflesso la cui natura è in fondo la stessa di quella del mentale durante la vita corporea, e che, d'altronde, implica come appoggio o veicolo una combinazione dei principi essenziali dei cinque elementi) e senza che questo ritrarsi si effettui necessariamente per una transizione immediata; infatti (per usare un paragone), si dice che un viaggiatore si reca da una città ad un'altra, anche se si ferma successivamente in una o più città intermedie.
"Questo ritrarsi o quest'abbandono della forma corporea (quale fin qui è stato descritto) è d'altronde comune al popolo ignorante (avidvan) ed al Saggio contemplativo (vidvan), fin dove cominciano, per l'uno e per l'altro, le loro vie rispettive (e d'ora innanzi differenti)".

D. Che cosa sono le qualità di cui abbiamo parlato?

R. Le qualità - sattva, rajas, tamas - sono stati allotropici di prakrti (sostanza-materia). Un istinto, un desiderio, una passione, ecc. sono qualità prakritiche; queste qualità si manifestano con un corpo-veicolo e, se coagulate, sopravvivono allo stesso corpo. Il profumo nell'aria permane anche quando, ad esempio, un fiore è scomparso, o la boccetta del profumo si è rotta. Un piacere-dolore, determinato da un evento, permane anche quando l'evento non c'è più, è svanito.
Mentre il soma-sthula sarira o jivabhuta fornisce lo strumento del piacere-dolore o delle qualità, queste, quando sopravvivono, aderiscono a quel riflesso di coscienza che rappresenta lo sperimentatore. Diremo che: ideali, sentimenti, istinti, ecc. possono sopravvivere alla morte del corpo fisico. E poiché tali qualità appartengono alla dimensione dello psichico, possiamo concludere che lo psichico (che non è il Sé) può sopravvivere al fisico.

D. In termini psicologici come potremmo esprimerci?

R. Un contenuto psichico cristallizzato può sopravvivere allo scioglimento del composto fisico. Il Vedanta parla, infatti, di vasana, di samskara, che rappresentano le "colorazioni", gli odori, le tendenze, le predisposizioni qualitative psichiche. Queste tendenze immagazzinate nella propria spazialità e non risolte sopravvivono alla morte del corpo.

D. Come si costituiscono le vasana?

R. Quando il riflesso coscienziale esperisce e aderisce alla qualità crea una vasana, o un contenuto; diremo che l'energia si solidifica e diventa massa.
E' ovvio che in questa condizione lo sperimentatore diviene necessitato dal contenuto che, sempre più alimentato, diviene potente fino a dominare lo stesso sperimentatore. La potenza energetica del sogno domina il sognatore.

D. Allora perché si trasmigra?

R. Si trasmigra perché i contenuti-massa qualitativi non risolti nell'energia inqualificata chiedono espressione su quel piano esistenziale in cui possono trovare maturazione e sgravio.

D. Ma è lo stesso individuo che trasmigra?

R. Quell'individuo, con un nome e una forma, non può trasmigrare perché esso non sussiste più alla morta dei veicoli. L'io empirico è il risultato della combinazione ahamkara-veicolo; quando il veicolo sparisce l'ahamkara ritorna allo stato potenziale. E quando spariscono entrambi non c'è più individualità, c'è la persona nel suo stato sovraindividuale.
Le qualità in sé non hanno nome, né il "riflesso di consapevolezza" ha nome. Le qualità si individualizzano mediante i veicoli e il "senso dell'io" (ahamkara). Un nome è l'indicazione di un complesso energetico che si è individuato, che si è determinato, che si è imposto una circonferenza.
Diremo che nella maggior parte dei casi gli individui sono solo medium passivi nelle mani di "enti-qualità" (guna) che cercano espressione o maturazione.

D. L'incarnazione è una scuola per avanzare ed evolvere verso l'atman?

R. La Tradizione unica non ha mai insegnato il concetto evoluzionistico.
Potremmo porre il problema in termini metafisici: l'atman, o l'Essere, per il fatto che è e non diviene, non può evolvere.
Le qualità non evolvono ma mutano semplicemente aspetto, il caldo e il freddo non evolvono, come non evolve l'odio o l'amore.
L'individualità, con un nome e una forma, non evolve (può trovare un eventuale adattamento), perché essa è la sintesi di un composto energetico che si esprime nei vari aspetti qualitativi (guna); essa nasce e muore.

D. E' esatto parlare di reincarnazione?

R. Dipende dall'accezione che si vuole dare a tale parola. Diremo che il problema potrebbe essere posto in termini diversi.
Se consideriamo che l'universo, o la manifestazione, è composto di tre stati o livelli vibratori, formanti comunque un'unità, allora possiamo notare che il jivatman si trova ora su uno ora su un altro livello esistenziale; i suoi sono, così, "passaggi di stato", di condizione, e questi passaggi - possiamo chiamarli col termine trasmigrazione - sono determinati dai guna e dalle vasana individuate e cristallizzate.
Si può ancora dire che come un individuo, sospinto da certe istanze-qualità, trasmigra, ad esempio, dell'Europa in America, cambiando quindi condizione di vita, così il "riflesso coscienziale", sospinto da certe qualità, trasmigra da uno stato ad un altro, o da un mondo (loka) ad un altro.
In tutto questo non vi è niente di drammatico e tragico; è un evento che si svolge automaticamente (nella maggior parte degli enti), innocentemente e naturalmente.

Se l'evento è ritenuto drammatico, spesso tragico, è perché l'ente non ha la consapevolezza del processo di trasmigrazione, oppure è prigioniero del semplice timore del "cambiamento".

D. Dunque, non è l'io dell'oggi, l'io di questo tempo-spazio che trasmigra?

R. L'io empirico è un semplice fenomeno correlato al tempo-spazio. L'io empirico di un determinato momento non è l'io empirico di un altro momento.
In un tempo-spazio possiamo dirci: io sono felice, in un altro tempo-spazio, che può essere susseguente a quello, possiamo dirci: io sono in conflitto. I due io non sono gli stessi, perché s'annullano nella loro contraddizione. L'io empirico è un contingente, un momento espressivo di qualità (guna).

D. Così è l'Anima che si reincarna o trasmigra?

R. Secondo la Tradizione, l'Anima stessa è un semplice riflesso dello Spirito puro o atman, la quale è pur sempre un non-assoluto; essa dimora su una dimensione (taijasa superiore) che non è quella fisica densa (visva); da quella dimensione, come prima si accennava, mediante un suo raggio di Coscienza, si esteriorizza sul piano di taijasa inferiore (il piano astrale dell'Occultismo occidentale) e su quello di visva (fisico denso).
Il suo movimento (trasmigratorio) produce espressioni di qualità, cause ed effetti, se l'io empirico - correlato al fisico denso, al corpo vitale (prana) e a quello mentale - è un semplice contingente, il jivatman è relativamente persistente, si da apparire come eterno all'io empirico.

Ma la trasmigrazione-movimento di una qualità avviene anche nella stessa incarnazione.

D. E come è possibile?

R. Per esempio, un desiderio nasce (inizio del movimento), tende verso un particolare oggetto (traiettoria del moto) e muore con la sua soddisfazione e maturazione. Se presupponiamo che il seme-germe (vasana-samskara) del desiderio non sia risolto, avviene gradatamente che un nuovo desiderio nasce e trasmigra verso un altro oggetto per morire in esso.
Fino a quando sussiste la radice, o il germe, del desiderio, la qualità (guna) trasmigra da un oggetto ad un altro, da uno spazio ad un altro. E ovviamente l'io-desiderio di un momento non è l'io desiderio di un altro momento, perché l'io empirico, essendo divenire-movimento, non è una costante, in altri termini non è l'Essere, come non è l'Essere lo stesso jivatman.

D. Questi enti-qualità devono trasmigrare necessariamente sul piano fisico-denso?

R. Questi enti-qualità cristallizzati trasmigrano là dove possono esprimersi, manifestarsi, seguendo la legge dell'attrazione-repulsione, o della sintonizzazione.
Negli stati molteplici dell'Essere vi è posto per le espressioni di tutte le possibili qualità prakritiche.

D. Per il Liberato esiste la reincarnazione?

R. Se è Liberato non può più trasmigrare; per lui ogni movimento-divenire è cessato; il Liberato è tornato nella sua vera Patria ("Il mio Regno non è di questo mondo"), e non vuole andare da nessuna parte; non avendo vasana, né qualità individuate da esprimere, non ha desiderio, non ha passato né futuro.

La trasmigrazione implica qualcosa di non compiuto, di non-pienezza, ma per chi sta fermo, come il mozzo di una ruota, non v'è più un andare e un venire, un nascere e un morire perché tali eventi appartengono ad una coscienza che non ha compreso la sua stessa essenza.

 

Tratto da "Il sentiero della non-dualità", Raphael, Edizioni Asram Vidya, pag 93

Bhagavadgita

Il canto del beato


Raphael - Prefazione, pagg. 13-17 (ed. Parmenides, già Asram Vidya)

Scopo del libro

1) Comprensione tradizionale del concetto del Divino

In un passaggio dello Yogavasistha, composto di 27.000 versi, Sri Rama chiede ad Hanuman, il grande devoto, il dio scimmia: "In quale modo tu mi adori?". Con questa domanda Sri Rama fa esprimere ad Hanuman il concetto del Divino, secondo la dottrina tradizionale. Hanuman così risponde: "Finchè conservo il sentimento di avere un corpo fisico, finchè non mi è possibile liberarmi dall'idea della forma fisica, io sono vostro servitore, io non sono che un misero organismo (prani) e un abisso insormontabile mi separa da Voi. Se, al contrario, perdendo la nozione del corpo grossolano mi ritrovo jiva con una coscienza individuata, parlo, utilizzo la mia mente e commetto errori. In questo stadio io mi rendo conto che faccio parte del Vostro corpo superiore, ho il sentimento della vostra immanenza. Se mi elevo ancora di un gradino e domino completamente la mia mente, scopro in me un Centro Spirituale che nè il pensiero nè il linguaggio possono cogliere; questo Centro Superiore, che si pone al di là del mondo empirico, è l'atman: tra me e Voi non c'è più alcuna differenza, alcuna distinzione, esiste solo Brahman e nient'altro che Brahman".
Se ci si vuole spogliare dell'idea del corpo e operare sul piano dell'intelletto superiore, ci s'incammina progressivamente verso l'Identità; si può passare, così, dal Dualismo al Monismo fino all'Advaita: Uno-senza- secondo. Se si desidera conservare l'idea del corpo, di fronte a Dio si sostiene un ruolo di servitore, adoratore, devoto, ma questa posizione dualista consente, tuttavia, la purificazione dell'io.
Esistono, dunque, molteplici aspetti del Divino che, dal punto di vista metafisico, vanno dalla concezione più "tangibile" e "concreta" a quella più "sottile" e "noumenica". Quest'insegnamento del differente accostamento alla realtà è sintetizzato nella Gita. Non si deve, però pensare che ciò significhi confusione o disordine sul piano spirituale. L'idea di una religione o fede dogmatica uguale per tutti è assolutamente estranea allo spirito indiano.
Ogni individuo differisce dal suo simile per la sua struttura mentale, le sue aspirazioni o per la gradazione dei suoi bisogni (da questa esigenza sono nati gli ordini sociali). Occorre, dunque, che egli trovi la formula ottimale inerente alla sua particolare esigenza spirituale. Il suo karma è, quindi, di scoprire la verità relativa al suo stato e di esprimerla perchè ciò costituisce il suo dharma (dovere).
Si potrà anche notare in seguito come Krsna gradatamente fa riconoscere ad Arjuna la sua vera condizione coscienziale, che è quella del guerriero, e l'imprescindibile dovere (dharma) di assecondarla e svelarla nell'azione.
Il pensiero tradizionale indù abbraccia così tutte le possibili condizioni coscienziali dell'uomo e usa distinguere quattro aspetti del Divino che possono essere appunto adeguati ai differenti livelli di comprensione umana:

a) L'aspetto dell'Assoluto, Brahman nirguna senza attributi, l'uno senza secondo. Sentiero metafisico puro. L'Asparsavada, (il sentiero del senza sostegno, del non-contatto) di Gaudapada e il Vedanta Advaita di Sankara portano a questo ardito volo.

b) L'aspetto del Dio impersonale, Nirakara, senza rappresentazione mentale di nessuna natura. "Dio è spirito e verità".

c) L'aspetto del Dio personale, Akara, sotto forma di simbolo. E' seguito dalle menti più accese, immaginative e devozionali.

d) L'aspetto del Dio incarnato, Avatara, che assume una configurazione umana per indicare il cammino agli uomini.


Aspetto dell'Assoluto

Brahman non è ciò che si indica con la parola Dio. Egli è al di là del linguaggio e dello stesso pensiero: è l'assoluto nella sua incondizionatezza, inalterabilità, incausalità. Realizzarlo comporta la scomparsa dell'intero mondo dei nomi e delle forme. Solo il nirvikalpa samadhi raggiunge Quello. Tale samadhi non è nè una comunione nè un'unione; è anche impropria la parola Identità perchè questa espressione indica ancora due termini mentre nel nirvikalpa, Brahman rimane l'Uno-senza-secondo, quale Essenza pura. Egli è il sostrato di ogni noumeno e fenomeno, dell'immanifesto e del manifesto, è la base di ogni possibile polarità, compresa quella del finito e dell'infinito.
Brahman non ha termini di paragone o di opposizione, ma è l'abisso ove si annullano e si risolvono tutte le coppie di opposti.
Speculare sul Brahman è impossibile, solo l'intuizione superconscia può coglierne il riflesso.


Aspetto del Dio impersonale

Per la seconda concezione il Divino può considerarsi la causa prima, la sorgente e il principio di ogni cosa manifesta, l'Essenza e la Sostanza universali, l'Uno matematico, mentre Brahman corrisponde allo Zero metafisico.
Si può accostare questo concetto a quello occidentale di Dio. La teologia cristiana ammette la Trinità: Dio Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Lo stesso avviene per gli Indù con l'aspetto Impersonale, Personale e dell'Avatara, incarnazione divina o Dio fatto carne.
Così l'aspetto Nirakara è quello impersonale. Dio è spirito e non può essere raffigurato da alcuna rappresentazione umana. Corrisponde al Brahman saguna con attributi o a Isvara, sorgente del mondo dei nomi e delle forme. Essendo la causa del Tutto, contiene il "Germe d'oro" da cui emerge l'intera manifestazione. In Isvara ogni cosa è già compiuta; Esso è, e la successiva fase manifestante non rappresenta altro che il dispiegamento delle potenzialità latenti della causa prima.
L'Uno è l'inizio di tutti i numeri e non c'è numero che non abbia come base l'uno. Un milione è formato da tanti uno. La causa prima è il sostegno e il sottofondo di tutte le illimitate forme planetarie e cosmiche. Con Brahman saguna, il numero e la geometria sono all'opera, gli archetipi sono potenzialmente pronti. Molti sentieri yoga portano al contatto con la causa prima, con l'Unità. Afferrare i principi primi, il mondo del significato, vuol dire penetrare l'essenza della grande causa. Espandere la coscienza nell'Uno-tutto è la conclusione di molti samadhi. Afferrare le leggi dell'Essere significa comprenderne il meccanismo evolutivo, o meglio, svelante.


Aspetto del Dio personale

L'aspetto di Akara è quello personale del Divino. In tale condizione Dio prende una forma: Siva, Kali, ecc. Non sono figure storiche queste, ma simboliche. Con tali simboli inizia il devozionalismo e il culto; il rapporto tra la Divinità e il fedele è già personale. Queste figure variano con il variare della mentalità dei fedeli, ma, più che altro, e ciò è importante, esse costituiscono veri simboli ideali che aiutano in modo considerevole l'ascesi e la trasmutazione delle potenze interne.


Aspetto del Dio incarnato

Dal Dio simbolo passiamo al Dio carne, all'Avatara o Messia, secondo le terminologie in uso. La Divinità, o meglio, il Principio divino, si esprime mediante un corpo umano abbastanza perfetto. A questo livello gli individui, finalmente, vedono e toccano la Divinità. Dio cammina in mezzo agli uomini svelando un suo particolare attributo: l'Amore, la Sapienza o la Volontà divina. Il più delle volte, però, i fedeli e gli stessi discepoli di quell'Incarnazione non s'innalzano al Principio, ma si fermano all'individualità del semplice mediatore.
In tal modo nasce il culto e l'idolatria dell'individualità.

 

 

 

CHE COSA È UN ISTRUTTORE

(Tratto da Vidya, Ottobre 1975)

11. Dobbiamo riconoscere che tutti siamo maestri di qualcuno. Un padre è il maestro del proprio figlio, un insegnante è maestro dei suoi alunni, un chirurgo è maestro del suo allievo; un ladrone può essere maestro di molti... allievi. Fino a quando esistono l’ignoranza (avidyā) e la conoscenza (vidyā) ci sono maestri conoscitori e alunni che cercano la conoscenza perché, appunto, ignorano qualcosa.

Così, la figura del guru non ò tipica dell’insegnamento spirituale o yoga; spesso, però, questa verità viene dimenticata.

Il guru, dunque, è necessario? Per colui che ignora qualche cosa è indispensabile. La figura del guru nasce dall'esigenza stessa della coscienza condizionata dell'uomo. Uno studente può fare a meno del suo insegnante? Qualcuno potrà dire che può esserci un autodidatta. È vero, e il maestro dell'autodidatta è appunto il libro, è la parola diretta di un «guru», è l'esperienza di un insegnante o di un istruttore; può essere la Vita stessa impersonata da amici, nemici, dal dolore, ecc. Più che mettere in discussione la figura del maestro in quanto tale, potremmo mettere in discussione il suo insegnamento, la sua condotta operativa, la sua modalità didattica, il suo rapporto con gli allievi, ecc.

Ci sono Istruttori a differenti livelli coscienziali, quelli che possono dare solo un aiuto sentimentale o intellettivo, altri che possono dare un aiuto psicologico, e altri ancora che non danno alcun aiuto se non a se stessi, in varie maniere. Ci sono anche i falsi istruttori e i falsi profeti, e non sono pochi, ma di questi non vogliamo occuparci.

Ma, nel campo iniziatico, che cosa è un Istruttore o un Maestro? È vero Istruttore colui che può trasmettere un «influsso spirituale». Egli, con il solo influsso, può far crescere i discepoli: ciò può avvenire in un àsram quando essi hanno modo di condividere l'«aura» dell'Istruttore.

Ricordiamo che il Maestro dovrebbe essere un trasmettitore di energie, uno stimolatore di «semi» che giacciono nel cuore del discepolo, non un insegnante di nozioni ne una persona che cerca di aiutare esclusivamente nell ambito dell’infraumano e per cose profane. Se ci si chiede chi possa chiamarsi Maestro, nell’accezione più pura, si può rispondere che può chiamarsi Maestro solo il Realizzato, il Liberato, colui che ha trasceso il mondo della māyā, colui che di umano non ha più niente, colui il cui regno non è di questo mondo, colui che, essendo libero, può liberare; essendo amore, può amare; essendo conoscenza, può illuminare; essendo beatitudine, può rendere beati. Più ci si avvicina a questa condizione elevata, più il numero dei Maestri si restringe.

Un autentico Maestro è tanto più Maestro quanto meno è maestro. Non è Maestro colui che vuole per forza essere Maestro, non è Maestro colui che vive solo la pulsione di qualità infraumane, non è Maestro chi vende la Dottrina al migliore offerente, non è Maestro chi vuole fare di tale stato una «professione», non è Maestro chi sostiene di possedere in esclusiva la Verità o di avere una sua Verità. La Verità esiste già, com’è sempre esistita, e l'Istruttore non ne è che il trasmettitore. Ogni Istruttore, comunque, può avere metodi particolari per stimolare altri alla Verità. Il più grande dei Maestri è Iśvara, il Signore della vita, e questo Maestro sommo è invisibile, per quanto si trovi nella profondità del nostro cuore. Più il Maestro microcosmico si avvicina a quello Macrocosmico, più la sua azione si esercita tramite «l’invisibile e ineffabile radiazione armonica del cuore», l’inaudibile e molcente ultrasuono che stimola e fa germogliare.

Nell’āśram, l’Istruttore è un Magnete risonante e non un «capo», nel senso che si dà a questa parola né un presidente di organizzazioni né un consolatore di anime afflitte da problemi psicologici e profani. Se si ha, infatti, la capacità di vivere gradualmente la Visione del «Magnete», molti problemi dell'infraumano vengono automaticamente risolti, anche perché vengono a cadere quelle cause che li hanno determinati.

Quando un Maestro si erge o si trincera dietro il velo-mayahico del potere-autorità egoico non può essere Maestro, tutt’al più un precettore, istitutore, comandante, pedagogo. Nella sfera dell’infraumano si opera tramite l’energia dell’autoaffermazione, del potere, del comando volitivo, dell’unilateralità; ma sul piano del Principio - che rimane fuori da ogni azione individuale - non è più il potere esclusivo e condizionante a determinarsi, bensì il donarsi innocentemente, l’offrirsi come il profumo di una rosa, senza chiedere, senza desiderare alcuna cosa, neanche il consenso e la sottomissione dello stesso discepolo.

Chi è, si svela e basta, senza aggiungere altro.

L’ Istruttore, se veramente è tale, Incarna un Principio, o se, ancora, non ha raggiunto la maturità spirituale (trascendenza dell'individualità), ma si trova, comunque, nella giusta «posizione coscienziale», riceve l’influsso non direttamente, ma tramite qualche āśram o Maestro a livello del sottile. (Si parla di influsso non di telepatia, medianità o altro che sono condizioni passive dell’infrasensoriale. L’influsso deriva da un Principio che è di ordine impersonale).

L’Istruttore che abbia trasceso l'individualità non può più essere impulsato da qualificazioni riferentisi ad essa; rimane compiuto in se stesso ed è al di là di ogni desiderio, sia esso di potere, di denaro, di onori, di fama, ecc.; diremo che è al dì là dello stesso desiderio di insegnare e avere discepoli.

I grandi Istruttori del passato e del presente rinunciarono e rinunciano a tutto ciò che l’individualità generalmente esige, quindi, a tutto ciò che il mondo profano può dare. Per sé, un Istruttore cerca di sopperire ai più elementari bisogni del corpo, per quanto possa accettare delle modeste donazioni, anche in denaro, soprattutto se non ha proventi personali.

Un Istruttore che ricerca la fama, la ricchezza, l’autorità egoica, i discepoli, la quantità più che la qualità, ecc. non è un Istruttore: è un discepolo con la conoscenza teorica della Dottrina, ma con la coscienza ancora oberata da condizionamenti dell’individualità.

12. L’Istruttore non cerca il consenso dei discepoli, la devozione passiva, le lodi o altro, ma la crescita spirituale. L’Istruttore ha solo un intento, se intento si può chiamare: quello di far crescere, quello di portare il discepolo dalle tenebre alla luce, dal conflitto alla pace profonda, dall’individualità alla Personalità (intesa in senso tradizionale) o dal particolare all’Universale. L'Istruttore mira a realizzare nel discepolo la «morte iniziatica».

Chi incarna un Principio tende, ovviamente, a svelare il Principio acciocché i componenti dell’āśram possano gradatamente essere il Principio. Se un Istruttore brama di essere perennemente l’Istruttore e il capo dei suoi discepoli sì da tenerli sempre in uno stato di inferiorità, non è un Istruttore.

Il più grande dono che il discepolo possa offrire ad un vero ed autentico Maestro è quello di diventare, a sua volta, Maestro-Principio.

Il più grande omaggio o inchino che il discepolo possa fare ad un Istruttore è quello di trovare la Beatitudine nel proprio cuore, la Liberazione, la Gioia di Essere. Il più grande favore che il discepolo possa fare all’Istruttore è quello di creare uno sforzo costante di essere ciò che è la coscienza del Magnete. Non c’è amore che si possa portare all’Istruttore se non quello che sospinge verso la Liberazione.

L’unico modo di «ricompensare» un Maestro è quello di dare ad altri, che sono pronti, ciò che gli è stato dato.

13. La posizione di un Maestro in seno all’āśram è simile a quella del sole con i pianeti: la sua stessa silenziosa presenza stimola, illumina e fa crescere; questa dev’essere ritmata e accordata allo stadio di coscienza dei discepoli. Troppo fuoco può bruciare; a volte, incenerire; troppo freddo può allontanare e disperdere. Se ricordiamo che l’Istruttore è trasmettitore d’influsso, riconosciamo che questo dev’essere irradiato con intelligenza e conformemente alla necessità del caso, non alla richiesta indiscriminata ed emotiva del discepolo.

14. La crescita dei discepoli nell’āśram si misura dallo sviluppo del loro senso di responsabilità; il buon andamento di un āśram dipende, non solo dall'Istruttore, ma soprattutto dalla responsabilità dei componenti asramici, dalla capacità dei discepoli i apprendere, assimilare e mettere in pratica la Dottrina, di portare nell’oggettiva espressione la verità del piano intellettivo. Può capitare che alcuni allievi non reggano la vibrazione impersonale e sovraindividuale dell’Istruttore: la loro coscienza è troppo orientata al piano dell’io, per cui sono condizionati dal rapporto individuale. L’io esige, vuole, pretende; l’io cerca di adattare la Verità alle sue convinzioni, l’io chiede esclusivismo e conforto psicologico, ma l’Istruttore non lì per appagare l’io, è lì per farlo morire; eppure molti discepoli non comprendono questo rapporto impersonale. D’altra parte, dobbiamo riconoscere che ci sono individualità che si accostano alla Realizzazione senza avere le minime qualificazioni di base.

15. Che cosa è un discepolo del cuore del Maestro? È un discepolo che si trova molto vicino all’incarnazione del Principio-Istruttore. È il più bel rapporto si possa stabilire tra Istruttore-discepolo. Tra i due c’è commensura, concordanza, affinità, c’è unione. I due stanno realizzandosi come unità. Non è un rapporto basato sull'autorità, sulla devozione, sull'Istanza di ricerca intellettiva, ma sulla «simpatia» spirituale, sull'Accordo coscienziale, sulla sintesi delle due note, e, a certi livelli, sul l'identità principiale. Sul piano del manifesto, non c’è cosa più bella che l'Intonarsi, l’Incontrarsi; non c’è dono più gradito alla Vita che realizzare l’Armonia la quale risolve l'incompiutezza e fa sbocciare il fiore dell'Amore.

La posizione coscienziale più giusta del discepolo verso la conquista di tale Unione è quella del «silenzio» ad ogni livello e l'aspirazione profonda alla captazione del Principio da esprimere. Può costituire, questa, una linea di approccio alla Verità universale. In questo modo la realizzazione del discepolo avviene sviluppando l'udito interno, la musicalità della nota, e captando — tramite la sensibilità della sua corda vibrante — la Bellezza geometrica della Vita-principio dell'Istruttore.

Con tale rapporto non occorrono libri perché il discepolo si accosta direttamente alla Vita, intonandovisi.

È una via diretta di Accordo; in altri termini, tra l'ente-discepolo e la Vita non ci sono intermediari. È simile alla condizione di due corde di strumenti musicali che al risonare dell'una l'altra risponde per induzione, per risonanza, per disponibilità ricettiva. È un rapporto basato sull'Amore-Accordo, che non è di ordine del sentimento; l'Amore-Accordo accorcia le distanze, annulla lo spazio, fonde e armonizza. È degno di nota che tale Accordo-Amore, appartenendo ad un certo ordine vitale, si esprime nella libertà, quindi, non è amore imprigionante, esclusivo e appropriatore.

«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno» (*)

A prima vista questo sutra potrebbe apparire sconcertante perché propone il disconoscimento delle necessità altrui per concentrare l’attenzione su di sé. Potrebbe sembrare un incitamento all’egoismo.

Prima di tutto cerchiamo di capire ciò che significa la parola dharma. In termini generali, designa un “modo di essere”, la natura propria dell’operare conforme allo stato coscienziale; sotto altre prospettive il dharma è quella legge che la Divinità impone a se stessa. Anche per Platone l’Essere-Uno si manifesta nel mondo come “norma” e “misura”. L’Unità nel suo rapporto col mondo è suprema misura di essere.

Nel nostro caso specifico è il dovere-legge che l’individuo deve adempiere per essere in armonia con lo scopo della propria incarnazione e in armonia con il contesto in cui la sua azione deve espletarsi.

Si può tener presente che il jīva-anima prima di incarnarsi ha già prescelto le linee generali di attuazione, pressato naturalmente dai guna. Così, il sūtra raccomanda di assolvere precipuamente il proprio dharma per evitare di venir meno agli impegni assunti a suo tempo. Ma ciò implica che non dovremo interessarci degli altri? Non proprio. Il sūtra è diretto principalmente a quei discepoli estrovertiti e condizionati dall’attivismo che sogliono persino sostituirsi all’agire degli altri.

Ogni ente incarnato ha un suo karma e un suo dharma; vale a dire, ha il dovere di assolvere il suo karma, e nessuno dovrebbe distoglierlo dalla sua responsabilità perché ne va di mezzo la sua stessa crescita. L’aiuto che si può dare è quello di favorire lo sviluppo della persona; se invece non si opera conformemente al giusto rapporto e intelligentemente si può persino arrecare danno al risveglio dell’altrui coscienza.

Il dharma di uno studente, per esempio, è quello di studiare, essere diligente nelle frequenze scolastiche, sviluppare la mente, l’intuizione, la volontà, ecc.; ora, se una persona si sostituisce allo studente nello svolgimento del suo operare otterremo:

1. L’abbandono del nostro dharma.

2. La non crescita dello studente.

3. Un non giusto rapporto con la società perché un domani le offriremo un individuo impreparato.

Una cosa è aiutare una persona a svolgere il proprio dharma, soprattutto se ha un karma pesante, e una cosa è sottrargli non solo la responsabilità, ma persino l’azione stessa del suo karma-dharma.

È inevitabile che la risoluzione di tale condizione presuppone due cose:

1. Dominio delle proprie energie qualificate dal rajas che tendono a sopraffare.

2. Controllo del sentimento per evitare che sfoci nel sentimentalismo, e quindi nella debolezza.

Aiutare gli altri è imperativo del nostro stesso dharma, ma la misura che dobbiamo avere nel compiere l’azione dev’essere valutata e sottoposta alla facoltà dell’intelligenza. Aiutare gli altri è molto difficile, più di quanto si possa pensare, e spesso operiamo con leggerezza; noi generalmente offriamo risposte già confezionate per cui, senza volerlo, imponiamo le nostre convinzioni e la nostra modalità operativa.

Comprendere la maieutica socratica e poterla applicare sarebbe una cosa ottimale, ma purtroppo siamo sempre impulsati a elargire consigli anche quando non sono richiesti. Il sutra ci suggerisce che l’azione potrebbe produrre del danno persino a noi stessi che ci siamo messi in condizione di voler per forza assolvere il dharma di un’altra persona, anziché semplicemente favorirla e agevolarla, liberi totalmente dal giuoco attrattivo-repulsivo.

Meglio dunque compiere il nostro dharma, anche se con errori, piuttosto che quello di altri, anche se in modo esemplare.

(*) Bhagavadgitā: III, 35. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.

Articolo tratto da "Fuoco di Ascesi" Raphael, per le Edizioni Asram Vidya (ora Parmenides), pag 47-49

 

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