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"Qual è la differenza tra 'consapevolezza' e 'coscienza', ammesso che ci sia?" - chiese il saggio a due suoi interlocutori; e così poi rispose: la consapevolezza è dell'Assoluto e perciò al di là dei tre guna (differenziazioni fenomeniche); laddove la coscienza è una cosa nutrita e limitata dal corpo-cibo. Quando il corpo-cibo viene distrutto, anche la coscienza scompare. Ma attenzione, nessuno muore: il corpo, fatto dei cinque elementi, quando è senza vita si mischia con gli elementi e la coscienza che è soggetta ai tre guna, ne diventa libera. La consapevolezza è lo stato originale primordiale, prima del concetto spazio-tempo, senza bisogno di causa, né sostegno. Semplicemente è. Comunque, nel momento in cui il concetto della coscienza sorge su questo originale stato di unicità, sorge il senso "Io sono", causando una condizione di dualità. La coscienza è accompagnata da una forma. È un riflesso della consapevolezza contro la superficie della materia. Uno non può pensare alla coscienza come separata dalla consapevolezza; non ci può essere un riflesso del sole senza sole. Ma ci può essere la consapevolezza senza coscienza."

(Nessuno nasce, nessuno muore - Insegnamenti di Nisargadatta Maharaj, a cura di Ramesh Balsekar, Ed. Il Punto d'Incontro, pp. 27-28).

Inviato da Satsang su ML AV

nisargadattaL'"Io sono" stesso è Dio. La ricerca stessa è Dio. Mentre cerchi scopri che non sei nè il corpo nè la mente, ma l'amore del sè in te per il sè in tutto.
Le due cose sono una sola. La coscienza in te e la coscienza in me, apparentemente due, sono in realtà una sola, cercano l'unità e questo è amore.
 

Nisargadatta, è una figura particolare il cui insegnamento sta conoscendo ultimamente una seconda giovinezza dopo il successo degli anni ottanta quando venne pubblicato il libro "Io sono quello", scomparso dalle librerie per oltre un ventennio e ultimamente ripubblicato. Attraverso una serie di dialoghi conduce il lettore ad interrogarsi sulla propria Realtà ultima e risponde alle domande più svariate sempre con dolcezza e pazienza.
In queste pagine riportiamo la presentazione che fece Grazia Marchianò alla prima edizione di "Io sono quello", unitamente ad alcuni brani tratti dallo stesso libro, ove il Maestro tratta specificatamente del Vedanta, anche se è difficile trovare in quel testo qualcosa che non sia solo puro Vedanta.

Presentazione di "Io sono quello"
Nisargadatta Maharaj, al secolo Maruti Kampli, appartiene a una linea di trasmissione marathi del Vedanta monistico, che si fa risalire al Mahatma Dattatreya. Tra i veggenti di epoca vedica, Datta avrebbe istituito il primo lignaggio spirituale (parampara), che nel Maharastra è noto come navnath sampradaya, la "scuola dei nove", cui fu affiliato il maestro di Maharaj e, alla sua morte, lui stesso.
A Dattatreya sono attribuiti l'omonima innodia Datta o Daksinamurti Samhita, di cui una versione ridotta è nel Tripura Rahasya , e la citata Avadhuta Gita, il "Canto del Rinunciante".
Una tardiva upanisad si potrebbe definire Io sono Quello, e quasi un'ininterrotta continuazione della parola di Ramana Maharshi, cui Nisargadatta da più segni appare afratellato.
Entrambi di origine umile e campagnola, illetterati e padroni di un sola lingua: il tamili per Ramana, e il marathi per Nisargadatta. Entrambi "scoperti" da due europei: Paul Brunton, che divulgò il pensiero di Ramana, e Maurice Frydman che, a Bombay, negli ultimi anni di una vita segnata da numerose conversioni - da ebreo polacco a monaco cristiano a swami indù - divenne discepolo e l'interprete di Nisargadatta, promuovendo la prima edizione in inglese di Io sono Quello .
A differenza di Nisargadatta, Ramana non ebbe maestri, non lavorò, non si sposò. Ragazzino, dopo una tremenda esperienza di alterazione della coscienza fino alle soglie della morte, abbandonò il villaggio natale e un richiamo incoercibile lo trasse a un colle, nei pressi di Tiruvannamalai, celebrato in inni bellissimi, Arunacala, dove visse in solitaria meditazione e dove in seguito sorse l'asram che prese il suo nome.
Maruti invece crebbe in città, e a Khetwadi, nella suburra di Bombay dove ancor oggi abita, avviò giovanissimo, insieme al fratello, un piccolo commercio di tabacchi, dando via via il benvenuto a molti figli. Quando aveva da poco varcato i trent'anni, un avventore, Yashwantrao Baagkar, lo conduce da Sri Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, e Maruti sotto la sua guida intraprende una disciplina presto costellata di esperienze mistiche. L'"esplosione" interiore avviene dopo tre anni, poco prima della morte del maestro, di cui Maruti assumerà il cognome. Dopo un periodo di solitario vagabondaggio, il ritorno a Bombay, l'abbandono definitivo del commercio, e l'inizio dell'ultima fase, durante la quale lo conobbe Frydman.
Sono trascorsi trent'anni dalla morte di Ramana, ed ora, anche la vecchia bocca di Maharaj, a 85 anni, in un corpo assalito dallo stesso male del Maharshi, si avvia al silenzio.
Forse il modo meno impervio di accostare Io sono Quello è ripercorrere lo stesso tragitto del giovane Maruti alle prese con la sua realizzazione accanto al maestro.
Intontito dalle pratiche yoga che da qualche tempo gli procurano estasi sporadiche, visioni e abbagli subitanei, Maruti un giorno si reca da Maharaj, gli si accoccola ai piedi, e attende. Non sa che quella volta sarà l'ultima, non solo perché il maestro di lì a poco cesserà di vivere, ma anche perché ciò che sta per dirgli è la massima condensazione dell'Advaita Vedanta, e insieme la via diretta all'esperienza metafisica: "Tu sei il Supremo... agisci in conformità". E aggiunge: "Credilo con fermezza, non dubitarne mai, ricordalo senza intermissione". A Maruti non restò che obbedire. "Continuai la mia solita vita, ma ogni momento libero lo passavo a ricordare il maestro e le sue parole. Poiché non le ho dimenticate, mi sono realizzato". Così dice oggi Nisargadatta, a chi lo interroga sulla sua iniziazione. E scende nella stanza, mentr'egli parla con sconcertante umiltà del "grande passo", un silenzio profondo, come quando in un crocchio all'improvviso si scatena un epilettico e gli astanti, raggelati, si fanno muti. Quando il vecchio dichiara: "Sono il Supremo", è fatale che qualcuno, tra gli astanti, lo sogguardi con un'ombra di malcelata ironia, e il vecchio, sollecito, gli si volge sorridendo: "Lo so, è difficile crederlo. Ma se ti dico: metti a fuoco l'"io sono", non puoi esimerti. L'"io sono" è la tua prima percezione al risveglio. Domandati da dove viene o osservalo quieto. Immancabilmente scoprirai tutto ciò che non sei: il corpo, i sentimenti, i pensieri, le idee, le proprietà esterne e interne. Sono tutte auto-identificazioni infedeli. Per causa loro, ti prendi per ciò che non sei".

"Ma io, chi sono?".
Per spiegare l'inspiegabile Maharaj finge di narrare una fiaba: "Nell'immensità della coscienza appare una luce, un puntolino veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e concetti, come la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti ricrei ogni volta il mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va' dentro, e vedrai che quel punto luminoso è l'"io sono", come il riflesso nel corpo dell'immensità della luce. Solo la luce è, tutto il resto appare".
"Durante la veglia, la coscienza si sposta di continuo da una sensazione all'altra, di percezione in percezione, da un'idea all'altra, senza fine. La consapevolezza è dell'interezza e della totalità della mente penetrate direttamente. La mente è come un fiume che scorre nel letto del corpo, per un momento t'identifichi con un'onda e la chiami "il mio pensiero". Tutti i tuoi oggetti di coscienza fanno la mente; la consapevolezza è lo stato in cui la coscienza è colta nella sua interezza".
L'interrogante vive, mentre ascolta, una strana esperienza: le parole sono semplici, non c'è quasi ridondanza nel fraseggiare di Maharaj. Scarse le consuete metafore vedantine, mute le belle storie della letteratura ascetica. Campito nella nudità del sistema, il solo apologo di Janaka, alle prese col suo sogno di mendicante:
- Quando si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io un re che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere re?". E il maestro: " Né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro. Voi siete e insieme non siete ciò che pensate di essere! Lo siete perché agite in conformità. Non lo siete perché non dura. Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto muta. Ma voi siete ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse Janaka: "Sì, non sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato" -.
L'ascolto ininterrotto e quieto scava, tra il senso delle parole e il loro riverbero nella coscienza, un varco impercettibile, una cesura sottolineata appena, come le linee di biancore sotto gli occhi dei santi imbambolati, in certe icone bizantine, scatenano la contemplazione del vuoto nella forma.
Così s'innescano nell'ascolto la ribellione della mente ghermita dal silenzio nella parola e il tumulto del cuore, perché tra la parola e il silenzio c'è di mezzo la tempesta della vita, l'abiezione della malinconia, l'impotenza di raggiungere la quiete costante. E l'innocua triade: mente, coscienza, consapevolezza; il positivo memento: "Sono"; il saggio consiglio: "Se vuoi vivere una vita felice, cerca ciò che sei", si convertono, al mero ascoltare, in puntute saette che trapassano il comune buon senso. L'"io sono" assume le sembianze di un drago apocalittico che ingoia il tempo risputando la persona a pezzetti; il cosmico metronomo: mondo fisico, mentale, supremo, in andata e ritorno, con forma e senza-forma, diviene il sordo rimbombo dei colpi di martello in un'officina metallica dove un mitico Fabbro, adirato e ossesso, grida Sono Quello!
Smarrito, sconvolto, lacerate le sue credenze più salde, "Sono nato e morirò", l'interrogante ricorre all'estremo tentativo di contestare una parola che l'ha morso e lo attanaglia alla gola: "Perché parlate?".
Maharaj, a quel punto, convoca il Buddha - ed è una delle rarissime volte in cui cita qualcuno, a parte il maestro -. Chiama in causa l'Illuminato per spiegare: l'annuncio è la grande arma. Propagare che possiamo raggiungere, che siamo già pronti per il salto oltre il nome e la forma, la nascita e la morte, il pensiero di essere e l'assillo del non-essere, rende automaticamente immortali; ed è l'unico esperienza d'immortalità consentita nella condizione umana. Ora l'interrogante è placato. Ha vissuto nell'ascolto il supplizio del bardo, la vicenda dell'anima catapultata nello stato intermedio dopo la morte. Quanto tempo è trascorso? Attimi, minuti, ore? "Com'ero stamattina, prima di ascoltare? E ciò che ho appreso finirà nel mucchio tra le altre nozioni, o lo dimenticherò? E che cosa ricordare prima: "Sono", "Non sono la persona", "Sono Quello"?". Al valico della domanda "Chi sono?" si affaccia Quello. L'universo (paramakasa) è la sua sterminata espansione oltre l'essere e il non-essere; l'interno testimone (avyakta) è la sua infinitesima concentrazione oltre il corpo e l'io-persona; il quarto stato (turiya) è la sua indenne dimora, oltre la veglia, il sogno e il sonno profondo. Come sostanza realissima è essere (sat); come consapevolezza autofondata è coscienza (cit); come gioia della completezza è beatitudine (ànanda). Il vero maestro (sadguru) è la scoperta dell'"Io sono Lui", mentre il molteplice, fuori e dentro di me, è solo apparenza. L'unica efficace disciplina (sadhana) è l'imperterrita contemplazione di Lui; qualsiasi altro sforzo gioverà solo per raggiungere lo sfinimento oltre il quale è il non-fare, il non-attendere i frutti dell'azione, il non-desiderare quello che già si ha essendo Lui, il non-dipendere dagli schiavi del tempo: il piacere come attesa e il dolore come ricordo.
Alla domanda: quando s'intona un mantra, che cosa realmente accade, Maharaj risponde: "Il suono crea la forma per accogliere il Sé".
Avvezzo come ogni indù a convertire le più vertiginose astrazioni in materia palpitante e concreta, ai suoi occhi il Sé è letteralmente più vicino del respiro, è il battito stesso del cuore - atman su, atman giù - ma sempre e solo qui-ora.
Che cos'è questo Arcano che lampeggia nei Veda, riemerge nel Vedanta, ritma gli inni, i dialoghi, i canti, gli introiti alla sapienza?
Il punto al centro del mandala, la "cella" ombelicale nel tempio, il battito del piede segnatempo, il ritmo ininterrotto del tamburo, la pupilla saettante e il dito puntato sul cuore della danzatrice irrigidita, tutti questi mezzi efficaci dell'arte rituale accennano all'Arcano Maggiore, mortificato dal nome che riceve in traduzione - trascritto minuscolo o maiuscolo -: sé, Sé, o nei linguaggi buddhisti: non-sé (anatman).
Da quali sconfinati abissi della memoria emerge nella sapienza indiana l'Arcano del Sé?
In un libro di grande valore, ingiustamente ignorato, Maryla Falk tentò lo scandaglio del mito psicologico nell'India antica, e quasi ne fu sopraffatta. Stasi dell'estasi osò definire la Falk il vertiginoso indiamento che largisce al meditante l'esperienza del Sé. Un'esperienza in cui "domina la coscienza dell'infinità, ... della cosmicità, e allo stesso tempo la coscienza dell'io, ma con un carattere di vastità smisurata che non conosce i limiti della coscienza quotidiana dell'"io" ".
Ed è lì, sullo scrimolo che distingue nella veglia la prima dalla terza persona, e nel sogno l'identità del sognatore rispetto al sognato, e nel sonno profondo, invece, li rimescola nella placenta dell'oblio, su quel lembo sottile di coscienza calcata dall'orma della persona, è il confine insidioso tra follia e sapienza, il discrimine che sconcerta i "sani" e trascina il folle nei suoi intontimenti orgiastici, nei cupi deliri, nelle malinconie di pietra. La fredda, pallida conversione dell'oniromante nel moderno analista è l'unico tentativo di ripristinare l'antica sequenza: l'io incatenato, il Sé rispecchiante, l'analista-specchio.
L'ultimo Jung, sfiorando il pensiero di Ramana Maharshi, fu conquistato da questa quarta dimensione dell'indiamento, pur riscontrandovi una sorta d'impareggiabile contraddizione: "... L'India è pre-psicologica. Quando cioè parla del "Sé", pone un "Sé". La psicologia non fa così. Non che neghi l'esistenza del conflitto drammatico, ma si riserva la povertà, o la ricchezza, d'ignorare il Sé. Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Sé; ma siamo consci del fatto che percepiamo, con mezzi limitati, qualcosa di sconosciuto e lo esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui ignoriamo se siano o no conformi alla natura di ciò che dev'essere conosciuto ".
Jung non ha incontrato Maharaj. Se si fossero parlati, è quasi certo che il vecchio gli avrebbe chiesto: "Chi formula la domanda? E chi c'è dietro la persona che la formula?".
"In realtà non ci sono persone, ma fasci di memorie e abitudini...";
"Il Supremo è un unico blocco compatto di realtà";
"La condizione indisturbata dell'essere è la beatitudine. La condizione disturbata è ciò che appare come mondo. Nella non-dualità c'è la beatitudine; nella dualità, l'esperienza...";
"La realtà è oltre la descrizione. La conosci solo se sei essa";
"...Il mio silenzio canta, la mia pienezza è colma, non mi manca niente. Non puoi conoscere la mia terra finché non ci sei dentro".
E in quel dire il vecchio aduna una forza di gigante, come se dal piccolo corpo, accartocciato e corroso dagli anni, si levasse una lingua di fiamma o un brivido di energia che gli elettrizza lo sguardo.
"Non avete paura di morire?".
"Ti racconterò com'è morto il mio maestro. Dopo aver annunciato che la sua fine era prossima, smise di mangiare, senza modificare il ritmo della vita quotidiana. All'undicesimo giorno, nell'ora della preghiera, stava cantando e batteva vigorosamente le mani, all'improvviso morì, tra un battere e un levare, come una candela subito spenta".
                                                                                Grazia Marchianò
(Io sono Quello - Rizzoli Editore )

Conversazione 72 del 25 Settembre 1971 (pag 63, Vol II)


M.: Eccoti di ritorno! Dove sei stato, che cosa hai visto?
I.: Vengo dalla Svizzera, dove ho incontrato un uomo non comune che afferma di essersi realizzato. A suo tempo ha praticato molti yoga e attraversato molteplici esperienze. Oggi non vanta alcuna particolare abilità o conoscenza; la sola cosa insolita in lui sono le sensazioni; è incapace di separare l'osservatore dall'osservato. Per esempio, vede un'automobile piombare su di lui e non sa se è la vettura che travolge l'uomo, o l'uomo che cade sotto la vettura. Gli sembra di essere i due allo stesso tempo. L'osservatore e l'osservato coincidono. Qualunque cosa veda, vede se stesso. Quando gli ho posto alcune domande sul Vedanta mi ha detto: "Non posso risponderti. Non so. Conosco solo questa strana identità con le percezioni. Sai, mi aspettavo tutto tranne questo".
Nell'insieme è un uomo umile; non crea un discepolato e non si mette sul piedistallo. Parla volentieri della sua strana condizione, tutto qui.
M.: Ora sa ciò che sa. Il resto è svanito. È già molto che parli ancora. Presto potrà smettere.
I.: E che farà?
M.: L'immobilità e il silenzio non sono inattivi. Il fiore colma lo spazio di profumo; la candela, di luce. Non fanno nulla; eppure, con la loro sola presenza, tutto cambia. Puoi fotografare la candela, non la sua luce. Puoi conoscere l'uomo, il suo nome e l'aspetto, non la sua influenza. La sua stessa presenza è azione.
I.: Non è naturale essere attivi?
M.: Ognuno vuole esserlo, ma da dove sgorga l'azione? Non c'è un centro, ogni azione ne genera un'altra, all'infinito, senza motivo e con dolore. L'altalena di azione e inazione, evidentemente, non è li. Perciò anzitutto trova il centro immoto da cui origina il movimento. Come una ruota s'impernia su un mozzo cavo, così tu sta' fisso nel centro, non ruotare ai margini.
I.: In pratica come si fa?
M.: Ogni volta che un pensiero, un fremito di desiderio o di paura sopraggiungono, distoglitene.
I.: Se sopprimo i pensieri e i sentimenti provocherò una reazione.
M.: Non dico di sopprimerli. Stacca l'attenzione.
I.: Arrestare i movimenti mentali non implica uno sforzo?
M.: Lo sforzo non c'entra. Devi solo distogliere l'attenzione. Invece di badare ai pensieri, concèntrati sullo spazio fra un pensiero e l'altro. Quando cammini in una folla, non ti azzuffi con ogni persona che incontri: semplicemente ti fai strada in mezzo a loro.
I.: Se uso la volontà per controllare la mente, non farò che rafforzare l'io.
M.: Naturalmente. Quando combatti, inviti alla lotta. Ma quando non resisti, non incontri alcuna resistenza. Se ti rifiuti di giocare, sei fuori del gioco.
I.: Quanto mi ci vorrà per liberarmi della mente?
M.: Diciamo un migliaio d'anni; di fatto non occorre tempo, solo una serietà assoluta. Qui la volontà diventa azione. Se sei sincero, è tua. Dopotutto è una questione di atteggiamento. Nulla t'impedisce di essere un realizzato qui-ora, tranne la paura. Temi di essere impersonale, e temi l'impersonalità dell'essere. È tutto molto semplice. Distogliti dai desideri, dalle paure e dai pensieri che esse fomentano, e sarai subito nel tuo stato naturale.
I.: Non si tratta di ricondizionare, cambiare o sopprimere la mente?
M.: Niente affatto. Basta lasciarla sola. Dopotutto la mente non è qualcosa di separato dai pensieri che fluttuano secondo leggi che sono loro, non tue. Ti dominano solo perché ti interessano. Come disse il Cristo, "Non resistere al male". Resistendogli non fai che rafforzarlo.
I.: Capisco. Basta che neghi esistenza al male e svanirà da sé. Ma non è una forma di autosuggestione?
M.: L'autosuggestione ti fa credere di essere una persona divisa tra bene e male. Ti chiedo di abbandonarla, di aprire gli occhi e vedere le cose come sono.
Ma torniamo alla Svizzera e al soggiorno con quel tuo strano amico; che cosa hai tratto dalla sua compagnia?
I.: Proprio niente. La sua esperienza non mi ha influenzato. Ho capito una cosa: che non c'è nulla da cercare. Ovunque vada, niente mi attende al termine del viaggio. La scoperta non è il risultato di uno spostamento.
M.: Sì, si diventa estranei al guadagno e alla perdita.
I.: Voi lo chiamate vairagya, abbandono o rinuncia?
M.: Non c'è nulla a cui rinunciare. Basta smettere di acquistare. Per dare devi avere, e per avere devi prendere. Meglio non prendere. È più semplice che praticare la rinuncia, che alimenta una forma pericolosa di orgoglio " spirituale ".
Tutto questo soppesare, selezionare, scegliere e barattare, appartiene a un giro di attività da mercato dello spirito, con cui mi domando che rapporti hai. E se non hai affari in corso, perché incentivare questa scelta senza fine? L'irrequietezza non ti porta da nessuna parte. Talvolta t'impedisce di vedere che non ti occorre nulla. Scova la smania e vedi quanto è falsa. È come aver ingerito del veleno e soffrire di una sete incoercibile. Invece di bere all'impazzata, perché non eliminare il veleno?
I.: Dovrò sopprimere l'io?
M.: L'"io sono", il senso di essere una persona delimitata nel tempo e nello spazio, è il veleno. In un certo senso il tempo stesso è veleno. Tutte le cose vi finiscono e nuove nascono, che saranno a loro volta divorate. Non identificarti col tempo, non incalzare: "e poi, e poi?". Balza fuori e vedi come il tempo divora il mondo. Riconosci: "È nella natura del tempo porre fine a tutto. Così sia. Ma non mi riguarda. Non sono infiammabile, né ho bisogno di raccogliere il combustibile ".
I.: Può esserci il testimone senza l'oggetto?
M.: C'è sempre qualcosa da testimoniare. Se no, è testimoniata la sua assenza. Testimoniare va da sé. Ciò che non va è la cura eccessìva, che porta all'autoidentificazione. Qualunque cosa che ti assorba, la prendi per vera.
I.: L'"io sono", è reale o no? È il testimone? E questi è reale o no?
M.: Ciò che è puro, non amalgamato, distaccato, è reale. Ciò che è inquinato, mescolato, dipendente e transitorio è irreale. Non farti sviare dalle parole: una parola può trasmettere parecchi significati anche contraddittòri. L'"io sono" che cerca il piacevole ed evita il dolore, è falso. Vede giusto l'"io sono" che riconosce l'inseparabilità di piacere e dolore. Il testimone coinvolto nella percezione è la persona; colui che sta in disparte, imperturbato, è il guardiano del reale, il punto in cui la consapevolezza del non manifestato incontra il manifestato. Il testimone e l'universo non possono esistere l'uno senza l'altro.
I.: Il tempo consuma il mondo. Chi è il testimone del tempo?
M.: Colui che è al di là del tempo: il Senza-Nome. Un tizzone incandescente, fatto turbinare, sembra un cerchio. Cessato il movimento, ritorna tizzone. Così, l'"io sono" in movimento crea il mondo. L'"io sono" immobile diventa l'assoluto. Sei come un uomo con una torcia elettrica che percorra una galleria. Puoi vedere solo ciò che è all'interno del raggio. Il resto è nel buio.
I.: Se sono io che proietto il mondo, dovrei poterlo cambiare.
M.: Certo. Ma devi cessare di identificartici, e oltrepassarlo. Allora avrai il potere di distruggere e ricreare.
I.: Voglio solo essere libero.
M.: Devi sapere due cose: da che cosa ti vuoi liberare e che cosa ti rende schiavo.
I.: Perché volete annientare l'universo?
M.: Non mi interessa l'universo. Lascia che sia o non sia. Mi basta conoscere me stesso.
I.: Se siete oltre, il mondo non sa che farsene di voi.
M.: Abbi compassione del sé che è, non del mondo che non è. Assorto in un sogno, hai dimenticato te stesso.
I.: Senza il mondo non c'è un posto per l'amore.
M.: È vero. Tutti questi attributi: essere, coscienza, amore e bellezza, sono riflessi del reale nel mondo. Senza reale non c'è il riflesso.
I.: Il mondo è pieno di cose e persone desiderabili. Come posso immaginare che non esista?
M.: Lascia le cose desiderabili a coloro che desiderano. Inverti il corso del desiderio dal prendere al dare. La passione per il dono e la partecipazione, eliminerà naturalmente dalla mente l'idea di un mondo esterno, e del dare. Rimarrà solo l'irradiazione dell'amore, al di là del dare e del ricevere.
I.: Perché ci sia l'amore bisogna essere in due.
M.: Ma se non c'è nemmeno uno, come potrebbero esserci due? L'amore è il rifiuto di separare, di distinguere. Prima che tu possa pensare all'unità, devi creare la dualità. Quando ami davvero non dici: "Ti amo"; dove c'è il pensiero c'è la dualità.
I.: Che cosa mi spinge a ritornare in India? Non credo sia solo la vita a buon mercato o il colore locale. Dev'esserci un motivo più importante.
M.: C'è l'aspetto spirituale. La minore distanza in India fra l'esterno e l'interiore. La maggiore facilità con cui qui nell'esterno si esprime l'interiore. Anche l'integrazione è più facile. La società non è oppressiva come in Occidente.
I.: È vero. In Occidente prevalgono il tamas e il rajas. In India, il sattva, che è armonia ed equilibrio.
M.: Perché ti fissi sulle tre qualità (guna), e trascegli il sattva? Sii ciò che sei ovunque tu viva, e lascia perdere i Guna.
I.: Non ne ho la forza.
M.: In tal caso l'India ti ha giovato ben poco. Ciò che possiedi veramente, non puoi perderlo. Se tu fossi ben radicato nel tuo essere, i cambiamenti di luogo non lo influenzerebbero.
I.: In India la vita spirituale è molto più facile che in Occidente, dove il peso dell'ambiente è maggiore.
M.: E perché non ti crei l'ambiente che ti è più congeniale? Il potere che il mondo ha su di te è commisurato a quello che tu gli attribuisci. Ribèllati. Va' oltre la dualità, non teorizzare una differenza tra Oriente e Occidente.
I.: Che si può fare quando si vive in un ambiente molto ostile alla spiritualità?
M.: Niente. Sii te stesso. Stanne fuori. Guarda oltre.
I.: In famiglia possono esserci grosse divergenze. È raro che i genitori capiscano i figli.
M.: Se conosci il tuo vero essere, non hai problemi. Che tu compiaccia i genitori o no, che ti sposi o no, che guadagni molto o no, per te dev'essere lo stesso. Lìmitati ad agire secondo le circostanze, in stretta adesione ai fatti.
I.: Non è uno stato molto alto da raggiungere?
M.: Oh no, è lo stato normale. Ti sembra elevato perché lo temi. Prima liberati dalla paura. Persuaditi che non c'è nulla da temere. L'impavidità è la porta che conduce al Supremo.
I.: Non c'è sforzo che potrebbe rendermi impavido.
M.: L'assenza di paura viene da sé quando t'avvedi che non c'è nulla da temere. Camminando in una strada affollata, ti limiti a scansare la gente. Qualcuno lo guardi in faccia, a qualcun altro dai solo un'occhiata, senza fermarti. È l'arresto che crea gli ingorghi. Continua a camminare! Non attaccarti ai nomi e alle forme, ignorali; la tua schiavitù è l'attaccamento.
I.: Che cosa devo fare se ricevo uno schiaffo?
M.: Reagirai a seconda del temperamento e dell'educazione.
I.: Io e il mondo, siamo condannati a rimanere quali siamo?
M.: Un orafo che volesse rammodernare un gioiello, prima rifonde l'oro riducendolo a una massa informe. Allo stesso modo, devi recuperare il tuo stato originale prima che possano emergere un nuovo nome e una nuova forma. La morte è essenziale al rinnovamento.
I.: Insistete sul bisogno di andare oltre, di stare in disparte, in solitudine. Non vi sento mai dire "giusto", "sbagliato". Come mai?
M.: È giusto essere se stessi, è sbagliato non esserlo. Tutto il resto è relativo. Ci tieni a distinguere il giusto dall'ingiusto perché ti occorre una morale per agire. L'azione è il tuo forte. Ma l'azione volontaria, fondata su una certa scala di valori, diretta a un certo risultato, è peggiore dell'inazione, perché i suoi frutti sono sempre amari.
I.: La consapevolezza e l'amore sono la stessa cosa?
M.: Naturalmente. La consapevolezza è azione, l'amore è essere. La consapevolezza è amore in azione. Di per sé la mente può attuare un gran numero di possibilità; ma se non sono suggerite dall'amore, non hanno valore. L'amore precede la creazione. Senza di esso c'è solo il caos.
I.: Come si manifesta l'azione nella consapevolezza?
M.: Il dinamismo davvero ti soggioga! Se non c'è movimento, inquietudine, agitazione, per te non è azione. Il caos è movimento fine a se stesso. La vera azione non sposta, trasforma. Un cambiamento di luogo, è un mero spostamento; un cambiamento di cuore, è azione. Ricorda, nulla che sia percepibile è reale. L'attività non è azione. L'azione è nascosta, sconosciuta, inconoscibile. Puoi solo conoscerne i frutti.
I.: Dio non è forse l'attuatore per eccellenza?
M.: Perché introduci un agente esterno? Il mondo si ricrea da se stesso. È un processo senza fine, il transitorio che genera il transitorio. È il tuo io che ti fa pensare che debba esserci un agente. Crei un Dio a tua immagine, anche se è squallida. Con il film della tua mente proietti un mondo e anche un Dio per dare al mondo una causa e uno scopo. È tutta immaginazione. Bàlzane fuori.
I.: È difficile vedere il mondo come una creazione mentale! La realtà tangibile sembra così convincente.
M.: Questo è il mistero dell'immaginazione, fino a che punto appaia reale. Puoi essere sposato o no, monaco o padre di famiglia: non è questo il punto. Sei o no schiavo della tua immaginazione? Qualunque tua decisione o attività, saranno invariabilmente basate sull'immaginazione, su ipotesi che si spacciano per fatti.
I.: Son seduto qui, di fronte a voi. Quanto c'è d'immaginario in ciò?
M.: Tutto. Anche lo spazio e il tempo sono immaginari.
I.: Significa che non esisto?
M.: Anch'io non esisto. L'esistenza è completamente immaginaria.
I.: Anche l'essere è immaginario?
M.: Il puro essere che tutto colma e trascende, non è l'esistenza, che è limitata. Ogni limitazione è immaginaria, solo l'illimitato è reale.
I.: Quando mi guardate, chi vedete?
M.: Vedo te che t'immagini di essere.
I.: Molti sono come me. Tuttavia ciascuno è diverso.
M.: La totalità di tutte le proiezioni è ciò che viene chiamato Maha-Maya, la Grande Illusione.
I.: Ma quando siete voi che vi guardate, che cosa vedete?
M.: Dipende. Quando guardo attraverso la mente, vedo il testimone. Al di là del testimone c'è l'infinita intensità del vuoto e del silenzio.
I.: Come comportarsi con la gente?
M.: Quesiti del genere mostrano che sei ansioso. Il rapporto è una cosa viva. Sta' in pace col tuo essere interno, e sarai in pace con tutti.
Renditi conto che non sei il padrone di ciò che accade, e non puoi controllare il futuro se non per questioni tecniche. I rapporti umani non si possono pianificare. Sono troppo ricchi e vari. Sii semplicemente comprensivo e compassionevole, libero dall'egoismo.
I.: Certo che non sono il padrone di ciò che accade, semmai il suo schiavo.
M.: Né padrone né schiavo. Sta' in disparte.
I.: Ossia, lontano dall'azione?
M.: Quella, non la eviti. Accade, come ogni altra cosa.
I.: Ma almeno le mie azioni, posso controllarle!
M.: Provaci! Presto vedrai che fai ciò che devi.
I.: Posso agire in accordo con la mia volontà.
M.: Conosci la tua volontà solo dopo aver agito.
I.: Conosco i miei desideri, le scelte fatte, le decisioni prese, e agisco concordemente.
M.: Allora decide la tua memoria, non tu.
I.: Dove entro in scena io?
M.: Tu rendi la cosa possibile dandole attenzione.
I.: Non esiste il libero arbitrio? Non sono libero di desiderare?
M.: Oh no, sei costretto a desiderare. In India l'idea stessa di libero arbitrio appare così ridicola che non c'è una parola per definirlo. La volontà è prigione, fissazione, schiavitù.
I.: Sono libero di scegliere i miei limiti.
M.: Prima devi esser libero. E per essere libero nel mondo devi essere libero dal mondo. Altrimenti il tuo passato decide per te, e per il tuo futuro. Sei imprigionato tra ciò che è avvenuto e ciò che deve avvenire. Chiamalo destino o karma; ma mai: libertà. Torna prima al tuo vero essere, e poi agisci dal centro dell'amore.
I.: Nell'ambito del manifestato, qual è l'impronta del non manifestato?
M.: Non c'è impronta. Appena cominci a cercare l'impronta del non manifestato, il manifestato si dissolve. Se cerchi di capire il non manifestato con la mente, improvvisamente la oltrepassi, come quando attizzi il fuoco con un bastoncino di legno e perciò lo bruci. Usa la mente per esaminare il manifestato. Sii come il pulcino che becca il guscio. Speculare sulla vita al di fuori del guscio sarebbe di scarsa utilità, ma beccare il guscio lo infrange dall'interno e libera il pulcino. Così tu rompi la mente dall'interno, e metti a nudo le sue contraddizioni e assurdità.
I.: Da dove viene il desiderio di rompere il guscio?
M.: Dal non manifestato.

Tratto da Io sono Quello
Rizzoli Editore - Milano 1981, 82
Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò

Conversazione 68 del 7 Settembre 1971 (pag 49, Vol II)

I.: L'altro giorno esaminavamo la mentalità occidentale moderna e la sua difficoltà ad accettare la disciplina morale e intellettuale del Vedanta. Uno degli ostacoli sta nell'atteggiamento di profonda inquietudine dei giovani in Europa e in America per la condizione disastrosa del mondo e la pretesa di un'immediata ed estrinseca soluzione.
Non tollerano chi predica come voi il perfezionamento personale come presupposto per quello del mondo. Dicono che è inattuabile e anche superfluo. L'umanità è pronta per un rinnovamento sociale, economico e politico dei sistemi. Un governo, una polizia, una pianificazione mondiali, e l'abolizione di ogni barriera fisica ed ideologica, è ciò che serve, e non una trasformazione della persona. Senza dubbio, gli individui modellano la società, ma anche la società modella gli individui. In una società umana la gente sarà umana; inoltre, la scienza dà la risposta a molte domande che prima erano monopolio della religione.


M.: Senza dubbio, darsi da fare per il miglioramento del mondo è molto lodevole. Attuato senza egoismo, rischiara la mente e purifica il cuore. Ma presto l'uomo s'accorgerà d'inseguire un miraggio. Il miglioramento locale e temporaneo è sempre possibile, e la storia ne offre svariati esempi quando si sia imposta l'influenza di un grande sovrano o di un illuminato, ma presto si esaurisce, abbandonando l'umanità a un nuovo ciclo di sofferenze. È nella natura della manifestazione che il bene e il male si avvicendino in pari misura. L'unico vero rifugio è nel non-manifestato.


I.: State consigliando la fuga?


M.: Al contrario. La sola via al rinnovamento passa attraverso la distruzione. Si devono rifondere i vecchi gioielli prima di modellarne uno nuovo. Solo chi ha superato il mondo può cambiarlo. Non è mai accaduto diversamente. I pochi uomini che hanno lasciato dietro di sé una traccia forte e durevole erano tutti conoscitori della realtà. Raggiungi il loro livello e solo allora potrai parlare di sollevare il mondo.


I.: Non sono i fiumi e i monti che vogliamo aiutare, ma la gente.


M.: Non c'è nulla di sbagliato nel mondo, a parte le persone che lo rendono cattivo. Va', e chiedi loro di comportarsi bene.


I.: Il desiderio e la paura li spingono a comportarsi come fanno.


M.: Esattamente. Finché il comportamento umano è dominato dal desiderio e dalla paura, non c'è molta speranza. E per sapere come accostare efficacemente la gente, devi tu stesso essere libero da ogni desiderio e paura.


I.: Certi desideri e paure biologiche sono inevitabili, come quelli connessi con il cibo, il sesso e la morte.


M.: Questi sono bisogni, perciò sono facili da soddisfare.


I.: Anche la morte è un bisogno?


M.: Dopo aver vissuto una vita lunga e fruttuosa, si sente il bisogno di morire. Il desiderio e la paura sono distruttivi solo quando malamente applicati. Desidera con forza ciò che è giusto e temi il suo contrario. Ma quando desideri l'ingiusto, il risultato è il caos e la disperazione.


I.: Che cosa è giusto e che cosa non lo è?


M.: In senso relativo, ciò che causa sofferenza è sbagliato, ciò che la allevia è giusto. In senso assoluto, ciò che ti riporta alla realtà è giusto e ciò che la oscura è sbagliato.


I.: Aiutare l'umanità significa lottare contro il disordine e la sofferenza.


M.: Ti limiti a parlare di aiuto. Hai mai aiutato, realmente, un singolo uomo? Lo hai mai messo in condizione di non averne più bisogno? Sai dare a un uomo il carattere, basato sul pieno adempimento dei doveri e delle possibilità, e sull'intuizione del suo vero essere? Quando non sai che cosa è bene per te, come puoi saperlo per gli altri?


I.: L'adeguata provvista dei mezzi di sopravvivenza è un bene per tutti. Potete essere Dio in persona, ma vi occorre un corpo ben nutrito per parlare con noi.


M.: Sei tu che hai bisogno che il mio corpo ti parli. Io non sono il mio corpo e neppure ne ho bisogno. Sono il testimone, senza forma.
Siete così avvezzi a pensarvi come corpi dotati di coscienza, che proprio non potete immaginare una coscienza dotata di corpo. Quando avrai compreso che l'esistenza fisica non è che uno stato della mente, un movimento della coscienza, che l'oceano della coscienza è eterno e infinito, e che, quando aderisci alla coscienza, diventi il testimone, saprai ritrarti interamente al di là.


I.: Ci è stato detto che l'esistenza si svolge su molti livelli. Voi esistete e funzionate su tutti? Siete sulla terra e contemporaneamente anche in cielo (swarga)?


M.: Non c'è un luogo in cui mi si possa trovare1! Non sono una cosa cui assegnare un posto tra le altre. Tutte le cose sono in me, ma io non sono tra le cose. Mi parli delle sovrastrutture, mentre io mi occupo delle fondamenta. Le sovrastrutture sorgono e crollano, ma le fondamenta durano. Il transitorio non m'interessa, e tu non parli d'altro.


I.: Perdonate una strana domanda. Se qualcuno, con una spada affilatissima, vi tagliasse improvvisamente la testa, che differenza farebbe per voi?


M.: Nessuna. Il corpo perderebbe la testa, certe linee di comunicazione verrebbero interrotte, questo è tutto. Due si parlano al telefono e il filo è reciso. Non è successo loro nulla, devono solo cercare un altro mezzo di comunicazione. Dice la Bhagavad Gita: "La spada non lo taglia". È letteralmente così. La coscienza per sua natura sopravvive ai suoi veicoli. È come il fuoco. Brucia il combustibile, ma non se stesso. Come il fuoco dura più di una montagna di combustibile, così la coscienza sopravvive a innumerevoli corpi.


I.: Il combustibile alimenta la fiamma.


M.: Finché dura. Cambia la natura del combustibile e cambieranno il colore e la consistenza del fuoco.
Per stare insieme e parlare, è necessario che siamo presenti. Ma la presenza, da sola, non basta. Deve esserci anche il desiderio di parlare. Il nostro massimo desiderio è di conservarci coscienti. In cambio, siamo disposti a qualsiasi disagio e umiliazione. Finché non ci ribelleremo a questa sete di esperienza, e non volteremo le spalle al manifestato, non ci sarà sollievo. Resteremo invischiati.


I.: Dite di essere il testimone silenzioso, ma che il vostro stato è al di là della coscienza. Non c'è una contraddizione? Se siete oltre la coscienza, di che siete testimone?


M.: Sono conscio e inconscio, tanto conscio quanto inconscio, e né l'uno né l'altro: di tutto sono il testimone; ma in realtà non c'è nessuno, perché non c'è niente da testimoniare. Sono svuotato di materia mentale, la mia testa è vuota ma la consapevolezza straripa. Quando dico che sono al di là della mente, intendo questo.


I.: Se è così, come posso raggiungervi?


M.: Sii consapevole della coscienza e cercane la fonte. Tutto qui. A parole si può comunicare ben poco. È il fare come ti dico, che illumina, non il fatto che te lo dico. I mezzi non contano granché, ma il desiderio, la spinta, il fervore sono essenziali.


Tratto da Io sono Quello

Rizzoli Editore - Milano 1981, 82

Introdotto, curato e tradotto da Grazia Marchianò

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