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"Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a Te. " (Salmo 42,2)

La condizione umana ha un potere attrattivo molto intenso sul soggetto di esperienza. Se così non fosse la strada spirituale sarebbe più frequentata e le mete prefisse più facilmente raggiunte. La "naturale" identificazione con il corpo è infatti per la coscienza dell’aspirante alla realizzazione uno scoglio da comprendere e superare per potere realmente perseguire la via della libertà. Tale identificazione, con tutte le conseguenze che comporta, è un dato di per sé evidente che, proprio per la sua "ovvietà", risulta di difficile osservazione: siamo continuamente a contatto col nostro corpo: fin dal mattino ne abbiamo cura, lo nutriamo più volte al giorno, lo laviamo, lo abbelliamo, lo copriamo. Ma non ci sembra quasi mai altro da noi stessi, infatti diciamo: mangio, mi lavo, mi vesto, mi copro, ecc.

Fin da quando eravamo piccoli ce lo portiamo dietro e quando dormiamo, situazione in cui si potrebbe pensare che non siamo più in contatto con esso, siamo per lo più inconsapevoli. Da qui tutta una serie di attività che fanno parte dello svolgersi della vita. Occorre farsi una casa, avere tante comodità, l’automobile, vestiti, oggetti e per questo si deve lavorare e guadagnare del denaro. Se pensassimo per un attimo di non avere il corpo, dovremmo prendere atto che quasi non avremmo più scopo nella nostra vita, tanto radicata è l’idea che noi e il corpo siamo non separabili.

Ecco quindi che l’idea della morte – inevitabile – ci fa paura.

Eppure il mondo in cui esperiamo questo piano di coscienza corporale non ci soddisfa, non può soddisfarci: esso è relativo e, come tutte le cose relative, può solo dare momentanee sensazioni di piacevolezza, anche stordimenti, emozioni di svariati generi – cose anch’esse relative – ma non può darci la compiutezza, per il fatto che un relativo, un "meno", non può portare a un assoluto, un "più".

Il relativo segue le leggi del relativo, mentre l’assoluto, che non ha leggi, non può essere vincolato e sottostare ad alcunché. Cercare nel mondo ciò che non è della natura del mondo, è come chiedere a un muro del pane, significa non avere compreso quale direzione imprimere alle nostre energie, con la conseguenza di rimanere frustrati – perché non otteniamo mai il pane cercato – e alienati – perché il nostro investimento energetico viene disperso all’esterno anziché convogliato all’interno.

La Dottrina e la nostra stessa intuizione ci suggeriscono che la pienezza, la compiutezza, la vera pace del cuore, risiedono all’interno di noi, che noi siamo l’essere imperituro il quale, dimentico di sé, vaga in questo mondo di ombre, per usare l’immagine di Platone. La nostra identificazione al piano di coscienza umano formale costituisce il primo e più radicato velo che impedisce la visione del Sé, dell’essere interno, e non ci consente di spiccare il volo verso quella pienezza che è in noi stessi. D’altra parte non è solo lasciando il mondo (o il corpo fisico) che possiamo risolvere il problema. Ricadremmo ancora una volta nel tranello di credere che un evento esterno possa darci l’interno. Ad essere rigorosi, non c’è nulla da fare in senso stretto; occorre solo ritrovarsi, ricordarsi della propria natura autentica.

Questo significa riorientare le proprie energie, sganciare dai meccanismi automatici di autopreservazione e autoasserzione la nostra coscienza, e permetterle così di guadagnare spazi non più limitati al ristretto mondo dell’io. Eppure ci sembra alle volte che questo processo sia impossibile da realizzare, lontano dalla nostra possibilità di attuazione. Probabilmente ciò che ci manca è la reale aspirazione alla trascendenza, quel desiderio intenso di ritrovare se stessi, quell’anelito che, solo, può accendere la fiamma e risvegliare l’eros filosofico che "impenna le ali". Essa permette di avere quella forza di non girarsi indietro, ed evitare così di rimanere pietrificati nella condizione umana che, di fatto, è l’ostacolo che il discepolo deve superare.

"Si diventa ciò che pensa"
, è il recitato della upanishad.


Se il fatto di essere nel mondo è scaturito dalla nostra volontà di autoappartenenza, dal desiderio di esperire un piano dell’esistenza in cui ci siamo infine smarriti, allora il rientro non potrà avvenire se non è completamente dissolta nella coscienza la tensione che ha innescato a suo tempo il meccanismo della identificazione.

Se la sete di vita formale permane nell’aspirante, essa si opporrà agli sforzi di questi e l’aspirazione alla trascendenza ne sarà indebolita. D’altra parte, se ancora la sete di vita è presente in noi, ciò è perché riteniamo, spesso inconsapevolmente, che il mondo può darci ancora qualcosa; in altri termini non riusciamo a operare quella discriminazione che è assimilazione immediata coscienziale, filosofica, del fatto che il relativo duale non può dare che il conflitto e la separazione, mentre la pienezza risiede nella profondità del proprio Sé.

Sebbene il principio dottrinario ci sia chiaro, il che non è poco, esso non riesce ancora a scendere nel vissuto, "non si fa carne", e ci troviamo intrappolati in un mondo intermedio che non è né cielo, né del tutto terra. In queste condizioni il ricorso a esercizi spirituali, a tecniche di meditazione, a letture di scritti sacri, rimane un indispensabile supporto che impedisce alla coscienza di sprofondare nella cieca identificazione alla forma e un modo per rendere morbido il processo di distacco dal mondo formale, operando una graduale purificazione dei contenuti cristallizzati nella nostra psiche. Non è però possibile guadagnare con essi l’aspirazione alla liberazione. Questa è, per così dire, un requisito a priori, indipendente dalla pratica di un esercizio, anzi ne costituisce il presupposto fondante. Se una tecnica di purificazione può ancora essere fatta con un’azione deliberata dell’io, l’intera soluzione del soggetto formale non può essere fatta dall’io stesso, perché questi non può volere la sua stessa fine. Pertanto l’aspirazione alla liberazione, che consiste nel desiderio di soluzione del mondo individuato, non può avere carattere di decisione deliberata, né può essere sottoposta a una relazione causale che riguarda l’applicazione di tecniche specifiche.

L’ardente aspirazione non è un "dovere" che si impone con la volontà dell’io, è invece un "comprendere", oltre l’io, che il relativo non può darci la pienezza e comporta, di fatto, l’esigenza impellente per la nostra anima di una condizione che non è più quella del mondo, con la conseguente attivazione delle risorse necessarie allo scopo della trascendenza: "come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia [non l’io] anela a Te." Il Te non è qui inteso come qualcosa di esterno a noi, ma come un "Me", o come si usa dire per togliere qualsiasi riferimento all’io del mondo, come Sé, Anima cosmica in noi. L’aspirazione ardente alla liberazione rappresenta, dunque, il presupposto di qualunque pratica ascetica, ricerca filosofica realizzativa o trasporto devozionale verso il divino.

Senza di essa, ogni cammino spirituale perde il suo significato, adagiandosi a consuetudine formale priva di verticalità e slancio. Grazie ad essa, invece, le soglie della conoscenza divengono accessibili, aprendosi a quell’ardito che non ha remore.

Tratto dal Periodico Paideia

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