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Avadhūtagītā sutra 1, 4, 10, Cap.VII

(Tratto da Avadhūtagītā, di Dattātreya, commento di Bodhananda, Ed. I Pitagorici, sutra 1, 4, 10, Cap.VII, pag 245-255)

1. Venendo a Te da pellegrino ho negato la tua pervasività, meditando ho negato il tuo trascendere la mente, cantando le tue lodi ho negato il tuo trascendere la parola. Perdonami sempre questi tre peccati.

Ogni cammino religioso o spirituale propone i propri riti o tecniche, quali strumenti di ascesi per compiacere, raggiungere o [finanche] trascendere il Divino. Dattātreya conferma la necessità finale dell’abbandono di qualsiasi pratica, perché impedisce il compimento ultimo dell’Advaita: realizzare la Realtà assoluta.

Ritenere l’Assoluto più accessibile in certi luoghi piuttosto che altri, quali templi, chiese, monasteri e luoghi di pellegrinaggio, se da un lato nega al Divino l’onnipresenza limitandolo nella spazialità, dall’altro afferma che la facoltà percettiva dei sensi e dell’emotività possano recepirlo; questo implica che l’Assoluto sia non solo percettibile attraverso i sensi ed entro alcune coordinate spaziali, ma anche che l’uomo abbia la possibilità di percepirlo, limitando così il Divino nella sua stessa natura di assolutezza.

«E dice che niente nasce né s’estingue né si muove e che uno è il tutto, estraneo al mutamento.»1

Ugualmente, il meditante che ritiene di contemplare l’ideale divino nella propria mente, lo riduce ad un aspetto mentale, laddove l’ideale divino va oltre la mente, la congettura e l’immaginazione. Così, la definizione degli attributi dell’ideale, attraverso il canto e la preghiera, negano la sua indefinibilità e assolutezza. Come affermare, chiede Dattātreya, che Quello sia all’interno delle possibilità del linguaggio, mentre Egli è oltre? Parimenti errano coloro che affermano l’unicità della Divinità del proprio Maestro, negando quella di altri Maestri o di altre forme del Divino stesso.

«Perché, qual è la mente o il senno loro? Credono ai cantori popolari e si valgono per maestra della folla, non sapendo che cattivi sono i più, pochi i buoni.»2

«I vari riti, sacrifici, adorazione di immagini: proiezioni di una mente infantile, sono mezzi preliminari, appoggi e sostegni, a volte necessari, ma che vanno eliminati quando il discepolo si propone di valicare veramente l’abisso per trovarsi quale Sé di infinita compiutezza.»3

Questo è motivo per cui ogni vera Via di riconoscimento della natura non duale dell’Uomo non ammette possibilità di proselitismo, di convincimento e rifugge dalle forme solite di mortificazione, proprie dei cammini duali.

«Il cammino di coloro la cui mente è protesa verso il Nonmanifesto è più difficile [da seguire] perché il Non-mani-festo è arduo da realizzare fino a quando la coscienza è legata alla forma.»4

Qualcuno potrebbe interrogarsi su quali possano essere le tecniche per giungere al Non-manifesto, dato che per esso viene definito un cammino e pertanto deve necessariamente compendiare dei passi al suo interno. Dattātreya, nella stesura dell’Avadhūtagītā, non prescrive alcun percorso trascendente, mostrando la propria natura al discepolo e ai posteri; egli descrive lo stato immutabile dell’avadhūta, uno stato di suprema immobilità, quali che siano i movimenti dei suoi veicoli corporei e il suo agire nel mondo. L’Avadhūtagītā pertanto non si propone come indirizzo per colui che inizia il cammino di conoscenza, partendo da una posizione di adesione al mondo dei nomi e delle forme; le parole di Dattātreya illustrano il passaggio finale: quel supremo momento di immedesimazione coscienziale, per coloro che hanno realizzato che ogni cammino, ogni tecnica, ogni vita, ogni aspetto e loro stessi, sono già quanto congetturano di raggiungere. Realizzato questo, cadono sia la concezione che la possibilità di cammino.

«Questo Brahman, questo potere, questi mondi, questi Dei, queste creature, tutti questi oggetti, tutto ciò che esiste è ātman5

Sono altri i testi che si possono proporre quale indirizzo per coloro che possiedono i tre requisiti indicati nel Vivekacūḍāmai.

«I più rari presupposti [per la liberazione] sono tre e sono dovuti all’influsso del grande Signore: la nascita in un corpo umano, l’ardente volontà di liberazione, la protezione di un Saggio già realizzato.»6

Sono quei testi che stimolano l’ente all’autoconoscenza, attraverso la discriminazione e il distacco (viveka e vairāgya), e che non cessano mai di richiamarlo alla sua reale natura di assoluto per evitare che l’ente finisca per credere reale lo stato della percezione da cui vorrebbe disancorarsi. Mille di questi testi non saranno pari ad una sola parola diretta di un avadhūta; mille parole dirette di un avadhūta non saranno mai pari alla diretta Realizzazione del Sé.

«Quando si parla di non-evoluzione o liberazione si deve ricordare che questi eventi sono visti dalla prospettiva individuata. Il Sé, eternamente libero, non è soggetto né a schiavitù né a liberazione né a trasmigrazione. Non c’è una entità reale che debba essere liberata, né c’è una forma reale, intrinsecamente autonoma, che sia nata e debba evolvere.»7

4. Il saggio è compassionevole, privo di violenza, paziente con tutti; è l’essenza della verità, è puro di cuore è equanime e munifico con tutti.

«Vi sono anime sante, serene e magnanime che, simili alla primavera, effondono una benefica influenza per il bene dell’umanità. Costoro, avendo trasceso l’oceano delle nascite e delle morti, per un atto di amore aiutano i loro simili a trascenderlo a loro volta.»8

La tradizione non duale, presente e testimoniata nello spazio-tempo attraverso la vita di pochi, non sempre è stata compresa quale pura testimonianza, spesso è stata fraintesa se non travisata. È grazie a quei pochi che la tradizione è detta vivente, perché mai venuta totalmente meno, al più solo nascosta in qualche punto dello spazio-tempo. Oggi appare essere sempre stata presente, grazie a quei pochi Saggi illuminati non sempre riconoscibili o avvicinabili.

Molti si interrogano su come trovare e avvicinare uno di quei pochi, mentre altri si propongono quali surrogati di quei pochi. Né può essere dato un metro per riconoscere un vero Conoscitore, un avadhūta, da un surrogato-filosofo che si proponga in sua vece, perché un avadhūta non è riconoscibile da alcun segno distintivo, ma c’è una affermazione che può essere offerta senza tema di alcuna smentita: se e quando, per l’aspirante, sarà giunto il momento di avere accesso ad un Conoscitore, questo evento si verificherà, così come sempre è stato e sempre sarà.

10. (Questo canto) è stato composto dall’avadhūta Dattātreya nel quale la Beatitudine si è incarnata. Chiunque lo legga o rascolti non dovrà rinascere.

Quello mostrato da Dattātreya nella sua Avadhūtagītā è lo stato di coscienza supremo, a cui indirizza ogni ramo tradizionale del sapere metafisico, nella consapevolezza che tale conoscenza per essere reale deve essere realizzativa, deve cioè avere una valenza di trascendenza testimoniata da coloro che, anche grazie alle sue indicazioni, si sono risvegliati alla propria natura sempre esistente di Realtà assoluta.

La tradizione incarnata da questi Conoscitori, vertendo sulla Realtà assoluta, non è relegabile ad un singolo contesto culturale, sociale, etnico, geografico o storico: è la tradizione metafisica e non duale, dalla cui realizzazione o intuizione parziale discendono ogni filosofia e religione.

Questo è il motivo per cui può essere trasmessa e commentata dalle parole di qualsiasi avadhūta, quale che sia la sua origine filosofica, religiosa o storica.

Dobbiamo gratitudine a questo Maestro per la preziosa testimonianza che ha lasciato di sé e non possiamo che “aprirci alla vita” affinché possano esserci sempre su questo piano di esistenza degli avadhūta perché, se la loro presenza venisse meno, bui sarebbero i secoli a venire mancando agli aspiranti la possibilità di avere accesso alla conoscenza sapienzale più antica, testimoniata da Pitagora, Parmenide, Platone, Marco Aurelio, Plotino, Gauḍapāda, Śaṅkara, Rāmakṛṣṇa, Rāmana Mahàrṣi, Raphael e ogni altro che l’ha incarnata nella pienezza dell’Assoluto.

Affinché ciò possa avvenire occorre che dei veri discepoli siano presenti al mondo. Non mancano i Maestri, quanto manca al pianeta sono quegli aspiranti realmente e intimamente pronti ad essere discepoli, pronti cioè a morire ad ogni convinzione, ogni opinione, ogni aspetto formale pur di essere sé stessi, della stessa natura del Padre.

1Senofane, I presocratici, pag. 179.

2Eraclito, Sulla natura, 104.

3Śaṅkara, Vivekacūḍāmani, dal commento di Raphael al Vl sūtra.

4Bhagavadgītā, XII, 5. Edizioni Āśram Vidyā.

5Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, IV, V, 7.

6Vivekacūḍāmaṇi 3.

7Māṇḍūkya Upanisad, nota di Raphael al IV, 77.

8Vivekacūdāmani, 37.

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