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Avadhūtagītā sutra 32 Cap.V sutra 2, 3, 5, 6, 8, 19, Cap. VI

(Tratto da Avadhūtagītā, di Dattātreya, commento di Bodhananda, Ed. I Pitagorici, sutra 32 Cap.V, pag 209; sutra 2, 3, 5, 6, 8, 19, Cap VI, pag 211- 228)

32) Dove nessuno ha niente da conoscere, non c’è neppure la narrazione in versi. Il supremo, il liberato assorbito nella coscienza dell’Essere omogeneo, puro di pensiero, balbetta la verità.

Quale sia il dire di un avadhūta, di un realizzato, in proposito della Verità suprema, pur essendo una testimonianza, essa è mediata dalle limitazioni del linguaggio. La Verità non può essere espressa; pertanto qualunque cosa viene detta di essa, sarà soggetta non solo alle limitazioni del linguaggio, ma anche alle limitazioni della coscienza individuale che con queste si confronta. Così Dattātreya avverte l’aspirante che si confronta con i suoi versi. E un invito a non confondere queste parole con la Verità stessa, esse possono essere di monito, di indirizzo, ma non certo la Verità in sé. Esse sono il dito che indica la luna, dito da non confondere con la luna stessa.

Qui termina il quinto capitolo dell'Avadhūtagita di Dattātreya intitolato “Lungimiranza Stessa”.

[….]

2. Il Supremo non è divisibile né indivisibile. Il Supremo è privo di attività e mutamento. Se il Supremo è uno, indivisibile e onnicomprensivo, come può esserci adorazione, come può esserci ascesi?

Dattātreya espone un punto cruciale per gli aspiranti nella metafisica tradizionale: nega la possibilità di ascesi, mostrando nei sūtra successivi le ragioni della negazione.

È una negazione che cozza con millenni di affermazioni contrarie, con le aspirazioni di ogni ricercatore spirituale, con le preghiere di ogni devoto. Una negazione che troviamo anche in altri realizzati non duali e che, per molti, rappresenta un ostacolo invalicabile poiché conduce alla definitiva negazione del libero arbitrio. Viene negata la possibilità all’essere individuato di accedere allo stato ultimo attraverso un qualsiasi processo o attraverso l’uso di uno strumento, perché viene negata l’esistenza stessa della individuazione da superare, in quanto, non essendo l’essere individuabile, non esiste alcun essere individuato; quindi, esistendo solo l’essere, non esiste alcun processo per giungere a ciò che già si è.

Negazione dell’ascesi che è conseguenza della negazione del movimento e del libero arbitrio. Negazione metafisica, già testimoniata nella Māṇḍūkyakārikā di Gauḍapāda:

«La suprema verità è questa: non vi è né nascita né dissoluzione, né aspirante alla liberazione né liberato, né alcuno che sia in schiavitù.»1

«Nello stato di veglia, ciò che è immaginato come soggettivo dalla mente è non-reale, e ciò che viene sperimentato come oggettivo è reale. Però, entrambi gli oggetti-eventi percepiti sono non-reali.»2

Comprendere che ogni azione dell’ente non è espressione di una Verità diretta, che non c’è una volontà indipendente che determini il compiersi o meno di determinate azioni, è un’ardua impresa per l’aspirante.

Un concatenamento causale (karma) è costituito da determinati semi causali (saskāra) che nascono e muoiono, esaurendosi nella determinazione di effetti che non sono altro che nuovi saskāra. Qui l’ascesi, intesa come insieme di atti volontari indirizzati al trascendente, viene meno, perché effetto di altro dagli atti stessi.

L’adesione al saṁsāra (continuo divenire) non è consapevole e l’ente si crede l’artefice delle azioni (kartṛtva) disconoscendo la funzione di testimone. Per questo la vita dell’ente, soggetto all’individuazione, appare, allo stesso ente, come l’insieme delle cause e degli effetti (karma) compresi entro la visione che testimonia. Una vita che crede di finire al cessare della visione, quando si esaurisce un ciclo causale o karmico.

All’interno di questa visione, l’aspirante, consapevole dell’assenza del libero arbitrio e della casualità, comprende che l’intero processo vitale è un’ascesi di dissoluzione: un movimento apparente, comunque destinato a finire, perché la sua pura natura di essere (ātman) non può essere raggiunta poiché pienamente presente.

Immaginare l’ātman raggiungibile, significa immaginarlo altro da sé all’interno della visione. E questa l’azione che allontana direttamente ed, insieme, avvicina indirettamente l’ente dalla propria natura. Allontana perché, immaginandolo altro da sé, impedisce la consapevolezza immediata della propria natura. Gauḍapāda e Raphael ci spiegano l’avvicinamento.

«Un individuo non segue altro che l’oggetto di conoscenza presentatogli. Così, la forte aspirazione ad esso crea l’identità.»3

3. La Mente è veramente suprema ed indivisa. Né grande né piccola, tutto pervade. La Mente è così l'Assoluto, indivisibile, onnicomprensivo. Cosa possiamo fare con la mente, cosa possiamo fare con le parole?

Se per il neofita la vita è una catena di cause ed effetti che si svolge volitivamente all’interno del disegno voluto dal Demiurgo, per l’aspirante qualificato giungerà la consapevolezza che tutte le azioni compiute - ogni pratica, ogni mortificazione, ogni meditazione - è come se non avessero influito sulla posizione coscienziale presente. Gli anni di meditazione, di preghiera, di pratiche più o meno estreme, le pratiche del mauna, dei mudrā, delle āsana o il semplice servizio al Maestro hanno determinato un mutamento dello stato psicofisico (cui taluni aspirano), senza determinare la Realizzazione.

Si comprende che il cammino non ha alcun fine e non è in grado di tornare indietro. Si può ripudiare un’opinione, ma come abdicare alla propria consapevolezza? I lunghi anni di pratica hanno eliminato i condizionamenti ed impedito nuove vāsanā. Questo non soddisfa l’aspirante qualificato: di fronte un muro vuoto, dietro non trova più i passi percorsi. Vuole rinnegare ciò che è stato, rischiando un nuovo coinvolgimento nel mondo dei nomi e delle forme, questa volta senza quegli aspetti dell’io che possono fare da filtro. Il mondo viene percepito in maniera intensa e ogni evento, se visto nell’ottica duale, è percepito come orrendo o estremamente sensuale. Avendo compiuto il possibile senza avere raggiunto la meta agognata, comprende che non c’è alcuna possibilità di ascesi. Non esiste un cammino di ascesi che conduce alla Realtà assoluta. Questa è la visione dell’avadhūta, e l’aspirante che si approssimi a tale stato deve applicare il processo di discriminazione e distacco (viveka e vairāgya) anche alla stessa ascesi e alla stessa discriminazione e distacco.

Non esiste ascesi perché l’ente è già e sempre nella natura dell’Assoluta Verità. Pertanto, qualsiasi ascesi si attui, si svolga e si porti a compimento, essa e i suoi risultati appartengono al sensibile. Possiamo credere fino all’estremo di essere nella limitazione (upādhi) di un corpo sensibile, ma questo non lo può certo rendere vero, così come non rende vera l’ascesi.

Alla logica della dialettica si oppone la prova empirica della percezione, propendendo per quest’ultima per negare la prima. Ma questo non sposta di un’oncia la realtà stessa: non sarà alcuna parola (mantra), non sarà alcuna pratica di concentrazione della mente a renderci ciò che già siamo.

Vediamo come Vāsiṣṭha istruisce l’avatāra Rāmacandra.

«Sappi che l’universo è nato da Brahman ed è soltanto Brahman. Nelle sacre Scritture le parole sono state usate per facilitare l’istruzione. Causa ed effetto, il Sé ed il Signore, differenza e non-differenza, conoscenza e ignoranza, piacere e dolore - tutte queste coppie sono state inventate per istruire l’ignorante. Esse non sono reali in se stesse. Finché, si usano le parole per denotare una verità, la dualità è inevitabile; tuttavia, questa dualità non è la verità. Tutte le divisioni sono illusorie.»4

Acquisita questa consapevolezza, non necessariamente si abbandona la pratica indicata dal Maestro. Quando si comprende l’inutilità della sādhanā, si apre la possibilità del passo definitivo, oltrepassare ogni aspetto valutativo della mente rompendo definitivamente ogni legame col formale.

5. La distinzione tra desiderio e non-desiderio, tra azione ed inazione è assente nel Sé. Se c’è un solo Assoluto, indivisibile e onnicomprensivo, come può esserci un pensiero che distingue fra ciò che è esterno e ciò che è interno?

La mortificazione dei desideri, le pratiche di inazione, la meditazione sul mondo interiore, non possono determinare la realizzazione non duale, sono degli ausili che favoriscono la capacità dell’ente di sciogliere i legami che lo relegano nel mondo formale. Anche se le due affermazioni sembrano equivalersi così non è.

L’azione e la volontà appartengono al fenomenico, pertanto il loro effetto si svolge su tale piano e non possono in alcun modo determinare una trascendenza del non-reale in favore del Reale. Ugualmente avviene per la non-azione o la scelta consapevole di non assecondare gli aspetti volitivi, cosa estremamente difficile perché, contrastare un desiderio, significa opporsi ad un effetto e non alla causa che lo determina; pertanto, contrastare un desiderio equivale semplicemente a predisporsi all’insorgenza di altri effetti, non sempre ugualmente ammissibili dalla propria personalità.

Ciò che determina il risveglio alla propria natura di Realtà assoluta è un atto di pura consapevolezza che prescinde da ogni azione e desiderio, e, talvolta, finanche dalla posizione coscienziale. Questo atto di autoconsapevolezza, aparokṣānubhūti, si verifica quando l’ente ha ormai esaurito ogni istanza che lo mantiene aderente al piano fenomenico. Essendo il piano fenomenico regolato dal principio di trasformazione dell’energia, vediamo come sia impossibile opporre l’inazione all’azione o contrastare un desiderio.

Se esiste l’istanza di agire, se esiste il desiderio, significa che esiste un movimento energetico che l’ha determinato; pertanto, opporsi a questo movimento, semplicemente porterà questo plesso energetico ad affiorare in altra maniera, possibilmente in forma ancor più incontrollabile.

Questo non equivale ad affermare che occorre assecondare ogni istinto, ogni desiderio che si manifesta, basterà semplicemente non contrastarlo; infatti esso è il semplice indice di un movimento energetico interiore (potremmo definire l’ente umano come costituito, in prima analisi, proprio di tali movimenti energetici) il quale ha trovato modalità di espressione in quello specifico desiderio o azione.

Una volta compreso che tale movimento deve comunque trovare una risoluzione senza alcuna opposizione, sarà facile per l’aspirante o sādhaka trovare delle vie non costrittive che permetteranno la sua risoluzione senza necessariamente giungere a compiere quella specifica azione verso cui viene mosso. Così, la meditazione non è più un processo di compressione o repressione dei pensieri, ma diviene uno strumento di osservazione e testimonianza del mondo interiore (per taluni anche esteriore) ove assistere al sorgere degli effetti dei movimenti energetici, alla loro identificazione e alla loro dissoluzione; tutto questo senza alcuna partecipazione volitiva dell’ente.

6. Se essenza e non-essenza non esistono nel Sé, se vuoto e assenza di vuoto non esistono nel Sé, se c’è un solo Assoluto, indivisibile e onnicomprensivo, come può esserci un principio, come può esserci una fine?

Nella testimonianza degli avadhūta mancano, insieme, la presenza e l’assenza di una sostanza da cui abbia avuto origine l’universo. Questo perché la realizzazione non duale consiste nella piena e presente coscienza della Realtà assoluta sempre esistente, senza inizio né fine, nonché nell’impossibilità per questa Realtà di essere creatrice di altro da sé.

Rāmana Mahārsi afferma: “Nessuno nasce, nessuno muore”. Effettivamente nessuno può parlare per esperienza della propria nascita o della propria morte. Non esiste sul piano di esistenza fenomenico l’oggettiva esperienza della nascita o della morte. Si può solo parlare della nascita e della morte altrui (non certo della propria), ma parlando di questa si può solo discutere della comparsa e della dissoluzione di un involucro, e della non-percezione di ciò che lo tiene in vita o del complesso energetico che chiamiamo essere individuato.

La realizzazione è la dissoluzione dell’individuazione che vela il puro Essere.

Il concetto di essere individuato o jīvātman necessita di qualche parola: in realtà il puro Essere non può individuarsi, nel senso di una sua parcellizzazione, di una suddivisione; l’Essere puro, infatti, identico alla Realtà assoluta, non è soggetto, secondo la testimonianza di chi lo ha realizzato nella sua pienezza, ad alcuna frammentazione (non esistono più individui) essendo indivisibile. Invero, è il primo sentire di esistere (l’ahavtti) a determinare l’affermazione dell’esistenza individuale. Vediamo come l’intera esistenza fenomenica non è altro che la sovrapposizione di una serie di involucri energetici manifestazione della Realtà assoluta, senza che si determini alcuna variazione o corruzione della Stessa.

8. Ciò che è espresso e ciò che non è espresso non sono la Verità, il conosciuto e il non conosciuto non sono la Verità. Se c ’è un solo Assoluto indivisibile e onnicomprensivo, come ci possono essere oggetti, sensi, mente e intuizione?

Dattātreya continua ad insistere col proprio discepolo sul-rimpermanenza di qualsiasi valutazione, opinione (mata), percezione e inferenza. Occorre ricordare che questo insegnamento non decreta delle regole cui obbedire o credere, l’upadeśa (insegnamento tradizionale) è la semplice esposizione (con tutte le corruzioni conseguenti al linguaggio e all’apprensione) della testimonianza della Realtà assoluta presente in ogni Realizzato non duale. Pertanto non si può considerare tale esposizione come Verità da credere, immaginare o assecondare, quanto semplice indirizzo da realizzare.

È questo il motivo che impedisce ad ogni vero aspirante nella tradizione non duale di contrapporsi o confrontarsi con le scuole di pensiero, quale che sia lo spazio-tempo di riferimento. Altresì, è questo che permette a ogni aderente ad una qualsiasi scuola di pensiero o indirizzo religioso (che siano però derivanti o tendenti a un principio espresso di trascendenza) di indirizzarsi verso la tradizione non duale, ove se ne presentino le istanze, senza alcuna contrapposizione col proprio cammino. L’insegnamento di Dattātreya verte sulla Realtà ultima, quella Realtà assoluta che, pur presente in ogni ente, trascende ogni oggetto, senso, mente e intuizione e che pertanto non può essere né diffusa, né raccomandata, né oggetto di credo.

[….]

19. Non c’è differenza tra il sacrificante ed il sacrificio, né tra il fuoco e gli oggetti sacrificali. Se c’è un solo Assoluto, indivisibile onnicomprensivo, come possono esserci i frutti dell’azione?

Negando la distinzione fra sacrificante, sacrificio e sacrificato, si sottolinea il vero scopo di ogni pratica spirituale: l’annullamento di ogni distinzione e categoria, non esistendo queste nel Reale. Lo stesso sacrificio (preghiera, pratica, etc.) è una espressione vitale di cui l’officiante non è artefice, ma esecutore all’interno di un ordine più vasto, la vita stessa.

La vita non è altro che il vero cammino di trascendenza, infatti, se c’è soltanto un indivisibile, onnicomprensivo Assoluto, la vita stessa è la possibilità di viverlo come manifestazione. Così, il principio espresso nella Bhagavadgītā, lo svolgimento delle azioni senza adesione ai loro frutti, viene contestato per far riflettere l’aspirante: come possono in realtà esistere i frutti delle azioni, se queste stesse non sono reali?

Il sesto capitolo dell’āvadhūtagitā affronta, con la stessa modalità, tutti gli ausili consueti sui vari cammini realizzativi, per mostrare come, alla fine, essi vadano trascesi affinché non costituiscano loro stessi una sorta di prigione da cui è impossibile uscire.

Dattātreya rimarca che, qualsiasi strumento utilizzato appartiene sempre e comunque alla sfera del fenomenico, pertanto non può in alcun modo condurre alla realizzazione della Realtà assoluta: solo l’esaurimento di ogni istanza può mostrarcela come nostra vera natura. Al pari di Śaṅkara, afferma che è proprio l’esistenza di una qualsiasi istanza (anche quella ultima, realizzativa e trascendente) a impedire la piena consapevole identità con la nostra natura di Realtà assoluta.

Nei sūtra seguenti vediamo come Dattātreya sembri negare anche i principi e i capisaldi dello stesso cammino di autoconoscenza o dello jnana yoga. Si evidenzia così il paradosso a cui conducono le parole di Dattātreya, se non comprese all’interno della tradizione non duale che testimonia l’assoluta Realtà attraverso coloro che l’hanno realizzata.

1Gauḍapāda, Māṇḍūkyakārikā II, 32.

2Gauḍapāda, Māṇḍūkyakārikā II, 10.

3Gauḍapāda, Māṇḍūkyakārikā II, 29.

4Yoga Vāsiṣṭha.

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