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Avadhūtagītā sutra 8, 11, Cap III

(Tratto da Avadhūtagītā, di Dattātreya, commento di Bodhananda, Ed. I Pitagorici, sutra 8, 11, Cap III, pag 130-136)

8. O figlio, io non sono né difficile da comprendere né celato nella conoscenza intuitiva. Figlio, io non sono difficile da percepire né nascosto nel percepibile. Figlio, io non sono nascosto nelle forme a me vicine. Io sono nettare di conoscenza, esistenza omogenea, come il cielo.

La Realizzazione del Sé viene considerata da alcuni come una possibilità lontana, di cui ci giunge solo l’eco attraverso le parole dei Maestri, e c’è chi sostiene che occorrano innumerevoli vite affinché l’ente sia pronto a lasciare l’identificazione col sensibile (dehādhyāsa), affinché sia solidamente pronto a riconoscersi Essere. Di ciò non si curano l’Advaita e gli avadhūta: la metafisica della Non-dualità è realizzativa, non speculativa. Il semplice fatto che un aspirante approcci seriamente l’autoconoscenza fa cadere tutte le possibili obbiezioni o il conteggio di eventuali vite, passate e future. Infatti l’ente che svolge l’indagine di autoconoscenza non si cura né di vite passate, né di vite future; non di qualificazioni, non di titoli: è mosso solo dall’istanza di conoscersi; e questa stessa istanza è l’unica qualificazione necessaria insieme alla consapevolezza umana e l’accesso ad un Realizzato.

Si lascia poi ad altri discutere se sia stato necessario un determinato numero di vite affinché si sia verificata questa posizione coscienziale. Ma d’altra parte perché mai porsi il problema? E solo un quesito teorico che interessa chi vede il cammino come evento culturale o emotivo. Non è un problema per l’avadhūta, lo sthitaprajñā, il Conoscitore perfettamente stabilizzato nella conoscenza o Filosofo realizzato, che non è più soggetto all’indagine, all’interrogazione, al dubbio; lasciata ogni opinione (mata), lasciata anche ogni certezza fideistica, non c’è più adesione al movimento mentale1 (vṛtti-rupa) e ogni azione è spontanea e mossa dalla stessa armonia della manifestazione.

Il Filosofo realizzato non si interroga se l’aspirante che gli si accosta è pronto o meno, è una conoscenza diretta o, se vogliamo, la sua stessa azione è la risposta, se mai ci fosse una domanda. Ugualmente, per l’aspirante alla Non-dualità sono ormai caduti gli ormeggi ed è la corrente a muovere la barca; egli è senza remi, senza vele, senza motore, senza timone; è entrato in una spirale in cui l’individualità, che credeva di indirizzare gli eventi fenomenici (grossolani e sottili), sta svanendo dando gli ultimi dolorosi colpi di coda: un io che muore può anche essere un evento doloroso per sé stesso, non certo per l’Essere che egli realmente è.

In questo ineluttabile movimento, la consapevolezza di essere inizia ad affiorare senza difficoltà; la difficoltà si può invece presentare nell’oscillazione fra stati di individualità e stati sovraindividuali, un continuo passaggio ciclico che può determinare sgomento durante gli stati di individualità. L’ente si rende conto che l’Essere è omogeneo, senza punti di discontinuità, senza interruzioni, senza alcun inizio né fine. La momentanea ripresa dell’individualità, anche se non riesce a negare lo stato non duale (esistente come sostrato sotto il sottile ma doloroso stato di individualità), determina comunque un trauma, avendo perso in ogni passaggio parte di quegli strumenti che permettono all’io di rapportarsi col sensibile. E con il definitivo stabilizzarsi della realizzazione che l’aspirante accede alla sua reale natura non duale. È lì che comprende come la Realtà assoluta non è mai stata difficile da comprendere, non è affatto difficile da percepire (come stato proprio di essere), e non è mai stata celata né all’interno della percezione, né del percepito.

11. Figlio, non sono privo di non esistenza e di esistenza. O figlio non sono privo di unità e di assenza di unità. Figlio, non sono privo di mente e di assenza di mente. Io sono nettare di conoscenza, esistenza omogenea, come il cielo.

Una delle difficoltà insite nell’approccio alla Non-dualità è il ritenerla uno stato definibile e pertanto concepibile, e quindi commensurabile mentre così non è; oppure ritenendola al contrario indefinibile, inconcepibile e incommensurabile, la si rifiuta, ma ancora essa non è così

La Non-dualità è uno stato che non risponde né alla prima descrizione né alla seconda. È non definibile e non indefinibile, e in questa affermazione non c’è contraddizione perché è indefinibile dal punto di vista mentale; essendo uno stato al di là della definizione mentale, non appartiene ad alcuna categoria, né la sua esperienza può essere raffrontata ad altre, perché incomunicabile proprio per mancanza di definizione.

Non è definibile e senza viverla non è possibile concepirla, ma ugualmente, essendo lo stato naturale dell’ente, non è possibile non concepirla, perché in ogni ente troviamo l’intuizione di un ente superiore, assoluto, a cui ognuno si commensura proprio per trovarsi nella contingenza, nel relativo.

«Né sarebbe indefinito né definito, perché indefinito è il non-ente in quanto non ha principio né mezzo né fine, e si può definire (solo) una pluralità nel rapporto reciproco.»2

In base a quanto esposto, la Non-dualità non è commensurabile, ma ugualmente non è incommensurabile perché sul piano dell’essere che, pur se identico, ne rappresenta il limite inferiore, esiste l’esperienza di pienezza, ed è questa pienezza che può essere detta commensurabile in sé stessa. Non essendo un’esperienza esterna, un qualcosa percettibile da un centro sensibile, ma essendo l’esperienza stessa di Sé, non c’è esperienza più piena. È un esperienza che coincide esattamente con il presente dell’Essere; al contrario, essa non coincide con alcun moto mentale, emozione-sentimento, istinto. È lo stato naturale, sempre autoesistente, che si mostra quando cessa la fuga in avanti (inseguendo le aspettative/sovrapposizioni o upādhi) o indietro (aderendo alle aspettative/sovrapposizioni o upādhi precedenti).

«Raccogliti in te stesso. La facoltà razionale e sovrana ha una dote per natura: basta a sé stessa, quando la sua condotta è giusta. E trova pace in questo fatto, appunto. Cancella dal pensiero ogni fantasma; arresta gli impulsi dell’istinto; circoscrivi il presente; comprendi quanto a te accade oppure a un altro; distingui e dividi ogni fatto che ti si presenta, in un elemento dovuto alla causa e uno dovuto alla materia; considera l’ora estrema; lascia che l’errore commesso da quell’uomo rimanga dove l’errore è sorto. Devi fare in modo che la tua intelligenza si rivolga con attenzione a ciò che man mano ti si manifesta. Devi far penetrare la tua mente in ciò che in questo istante avviene e si fa.»3

L’avadhūta, con le parole degli ultimi sūtra, rimarca che per vivere il suo stato, quello del liberato in vita, non occorre una rinuncia a sé stessi, quanto piuttosto la rinuncia a ciò che non si è.

Non servono dinamiche di potenziamento o depotenziamento della personalità, non occorre fiaccare l’equilibrio psicofisico, non occorre abbracciare discipline estreme: basta esplorare il proprio essere, discriminando fra quanto è nostro in quanto “noi” perché nostra essenza, e quanto è invece “nostro” perché acquisito dalla vita. E quel qualcosa di esterno, di acquisito, non va rifiutato come impuro (è anche grazie a quello che oggi siamo messi di fronte alla nostra natura metafisica), ma piuttosto va considerato con la giusta ottica: si tratta di qualcosa che non appartiene alla nostra essenziale natura, qualcosa di sovrapposto ad essa e pertanto non-reale (ma non inesistente), fenomenico e relativo; rappresenta un certo grado di verità, effetto di una conoscenza indiretta. Ovviamente non si stanno trattando i contenuti di ordine psicologico o le patologie; la metafisica è un percorso che mal si adatta all’aspirante o sādhaka che necessiti ancora di conforti psicologici.

La metafisica è adatta a coloro che ne possiedono le qualificazioni, non ultima la continua consapevolezza che la propria vera natura non appartiene alla contingenza del grossolano, né a quella del sottile ed è al di là dallo stesso causale-principiale. Pertanto coloro che temono la sofferenza interiore, la fine del grossolano, coloro che non sanno osare oltre il definito, non sono ancora pronti a questo cammino.

«Tutti coloro che praticano la Filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, e poi, quando arriva la morte, addolorarsi di ciò che da tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura.»4

Per costoro, curarsi dell’essere e del non-essere non ha alcuna rilevanza, perché tali stati vengono definiti dal punto di vista dell’individuazione e, pur appartenendo all’universale, sono ancora degli stati passibili di definizione. Ma il Realizzato-filosofo ha già compreso che il concetto di Non-dualità esiste solo nel relativo, perché il relativo e la molteplicità, per esistere, necessitano dell’esistenza di una unità che non diviene, ma questa non è un qualcosa di concepibile né immaginabile, non è l’uno matematico quanto lo Zero metafisico.

Come potrebbe mai un uomo immaginarsi uno senza un secondo (advaita)?

Non può immaginarsi uno fisicamente, perché vede altri corpi simili al proprio, sa che ogni definizione del corpo e delle sue parti, gli proviene da “altri”, quindi la fisicità dell’uomo non è assimilabile all’unità, sia per resistenza di altre fisicità, sia per la divisibilità in parti.

Non può immaginarsi uno emotivamente, perché vive emozioni e sentimenti per diverse persone, in funzione delle persone stesse; vive contemporaneità e sequenzialità di emozioni e sentimenti per la stessa persona. La Non-dualità non è quindi dell’emozione o del sentimento, a causa della molteplicità stessa del sentimento.

Non può certo immaginarsi uno mentalmente, talmente è soggetto alle opinioni proprie o altrui, al loro mutare e al loro contrastarsi.

Eppure, l’aspirante che, attraverso il processo di autoconoscenza, partecipa proprio alla molteplicità del mondo, intuisce che se esiste il molteplice, esiste anche ciò che permette il suo manifestarsi e questo non può che essere Uno, un Assoluto non soggetto ad alcuna relatività, molteplicità, dualità e perfino unità quale principio del tutto. Esso è indefinibile, ineffabile, inimmaginabile per la mente.

Per questo motivo l’Essere-ātman (o meglio, il Non-Essere in quanto puro e assoluto Essere) e l’Uno-Brahman, sono non percettibili, ma solo intuibili dalla mente. L’Uno non può essere definito, perché l’Uno in sé corrisponde alla Realtà assoluta, non avendo parti che possano concepirla o individuarla.

È a questo che mira il Filosofo che impegna se stesso nella ricerca metafisica.

1Alcuni sostengono che un Avadhūta non è più soggetto al movimento mentale. Questo è vero solo letteralmente e non sostanzialmente. Il movimento mentale (conseguente alla percezione che “impressiona” la mente o citta) non necessariamente cessa del tutto, ciò che cessa è l’adesione ad esso.

2Senofane, I Presocratici, pag. 179. Edizioni Rizzoli.

3Marco Aurelio, Ricordi, VII, 28-30.

4Platone, Fedone, 64 A.

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