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Tempo-spazio e conoscenza

V’è lo Spazio supremo e v’è lo spazio relativo. Possiamo anche dire Spazio infinito e spazio finito.

Lo Spazio supremo è uno, omogeneo, indiviso; lo spazio relativo, invece, è parte, divisione, scissione, relazione.

Lo Spazio supremo, o infinito, rappresenta una proprietà-condizione dell’Essere, dell’Uno principiale, nella sua totalità e integralità; è il punto senza dimensioni; lo spazio relativo, o finito, rappresenta una singola forma-corpo, è il volume racchiuso da una circonferenza. Ogni corpo-forma occupa uno “spazio”, anzi è quello spazio, per cui più corpi-forme occupano differenti spazi, distinti volumi spaziali.

Lo Spazio supremo contiene in sé tutti i possibili punti oggettivati, le linee e i volumi, o piani circoscritti; così su uno dei tanti sistemi di coordinate, quello fisico-grossolano, la particella elementare contiene in sé lo sviluppo di tutti i possibili nuclei atomici, atomi e molecole.

La conoscenza dello spazio relativo, o finito, è opera soprattutto della nostra scienza accademica: la conoscenza dello Spazio supremo è opera della metafisica o della scienza iniziatica.

Lo spazio relativo è sempre in relazione con un altro spazio relativo, per cui si potrebbe parlare di spazio di relazione o relazionato, e la lunghezza tra due spazi-corpi rappresenta la “distanza” relativa; però non si può attribuire il “concetto” di distanza allo Spazio supremo perché gli spazi relativi, con le loro distanze, vengono in Esso a sparire e risolversi. Le distanze relative sono convenzioni della mente empirica sensoriale per meglio “localizzarsi” e concepirsi nel suo vivere relativo. Così, i punti cardinali, il sopra e il sotto, ecc., sono categorie inventate dall’uomo per meglio definirsi.

Lo spazio-corpo relativo è caratterizzato dal movimento, movimento relativo, ovviamente, a quel determinato spazio-corpo. Anzi, si può dire che il movimento determina lo spazio-corpo relativo, come lo stesso movimento lo fa scomparire. Se lo spazio-forma intraplanetario supera la velocità della luce, esso scompare nel non-spazio-corpo; lo spazio-corpo, cioè, svanisce, si risolve. La massa si risolve in energia. Il movimento è lo strumento mediante cui si possono “condensare” oppure “risolvere” gli spazi-corpi relativi. Ma il movimento, a sua volta, è l’effetto del calore-fuoco, per cui si può concludere che il Fuoco è causa di movimento-spazio-corpo.

Il Fuoco “condensa” oppure produce “rarefazione”. Occorre però distinguere il calore che promana dalla resistenza che oppongono tra loro gli spazi-corpi, che potremmo chiamare fuoco-calore per attrito, dal Fuoco cui abbiamo accennato che, certo, non nasce dall’attrito degli spazi-corpi perché a questi esso preesiste. Comunque, vi è anche un fuoco per combustione degli spazi-corpi.

Lo spazio relativo ha nascita, crescita e morte o soluzione, e in questa espressione si può cogliere il “concetto di tempo”. La “durata” di uno spazio-corpo rappresenta il tempo di quel particolare spazio finito. Così una nuvola (spazio-corpo) nasce, cresce e svanisce, e il periodo di tempo che intercorre tra il suo nascere e svanire lo concepiamo come “tempo relativo” o “tempo finito”.

Il tempo è sempre tempo di relazione, relativo cioè a quel peculiare sistema di coordinate in cui si colloca lo spazio-corpo. Non c’è spazio relativo senza tempo relativo e viceversa. I due dati nascono simultaneamente. Voler astrarre il tempo relativo dallo spazio relativo è impossibile, sarebbe come voler astrarre l’umidità dall’acqua. L’uno trascina l’altro, come il soggetto trascina l’oggetto e viceversa.

Come nello Spazio supremo non può trovare posto lo spazio relativo, o il finito non può essere infinito, così non può trovarvi posto il tempo relativo o il tempo finito. Nello Spazio supremo avremo invece il Tempo supremo, avremo l’eternità indivisa, omogenea; avremo l’eterno presente. Il tempo relativo è un “dato sensoriale” nell’ambito dell’Eternità. Secondo Platone il tempo è l’immagine mobile dell’Eternità. Credere di poter rendere assoluto il tempo relativo è pura follia, significa voler assolutizzare il finito. Per quanto, per esempio, possiamo allungare o dilatare il tempo, relazionato allo spazio-corpo dell’individuo, non potremo mai renderlo assoluto, cioè immortale. La nascita-morte è connaturata allo spazio-tempo relativo. Potremo dilatare il tempo del corpo-spazio fisico dell’individuo quanto quello del sole, ma anche il sole ha i suoi giorni contati, essendo appunto uno spazio-tempo relativo che viaggia negli abissi dello Spazio-tempo supremo o infinito.

La conoscenza dell’uomo è sempre “conoscenza di relazione” (aparavidyā), conoscenza cioè che si riferisce agli spazi-tempi relativi o finiti. La conoscenza scientifica, come oggi la si concepisce, è conoscenza di relazione perché tende a conoscere gli illimitati spazi-tempi relativi con le loro reciproche correlazioni.

Un elettrone è un particolare spazio-tempo, il corpo umano è un altro spazio-tempo, un pianeta e una stella sono spazi-tempi relativi; ma per quanto si possano conoscere tutti gli spazi-tempi relativi, con le loro interrelazioni e le loro leggi, non si arriverà mai a captare la Conoscenza suprema (paravidyā) che verte non più sugli spazi-tempi relativi, ma sullo Spazio-tempo supremo.

La “conoscenza di relazione” propende sempre a cristallizzare la Realtà in “conoscibili spazi-tempi finiti”, e più si ostina a rendere il Reale semplice finito, più rende l’individuo alienato, impedendogli di realizzare il contatto con altri “conoscibili” o, in ultimo, con lo Spazio-tempo supremo.

Non v’è peggiore conoscenza di quella che non si apre verso l’Infinito. Ma, purtroppo, vi è una tendenza, nella sfera dell’umanoide, che vuole imprigionare o mettere al bando coloro che sostengono un tipo di conoscenza che si apre verso categorie polidimensionali e polidirezionali.

Se gli spazi-tempi relativi hanno la loro parabola di nascita, crescita e morte, allora anche la “conoscenza di relazione” non è imperitura, ma contingente e soggetta a modificazione, perché è anch’essa spazio-tempo finito.

La conoscenza di cui sopra è la caratteristica di un particolare piano esistenziale o sistema di coordinate dell’ente umano. Se questi non avesse in sé altre aperture, o sistemi di coordinate, non potrebbe mai pervenire alla Conoscenza suprema, quindi alla Realtà suprema o allo Spazio-tempo infinito.

Vi sono alcuni, è meglio dire i molti, che aprioristicamente non credono alle altre aperture o finestre conoscitive dell’uomo, e quindi sono costretti a riconoscere, come unica esistenza, la “conoscenza di relazione”, e ad ammettere perciò l’esistenza dei soli spazi-tempi relativi e finiti.

La “conoscenza di relazione” è una conoscenza riduttiva che restringe l’ente umano, e non umano, alla sola presenza dello spazio-tempo-volume finito; e siccome lo spazio-tempo relativo, in ultima analisi, non è che “apparenza” (esso appare e scompare), si può concludere che la “conoscenza di relazione” riduce l’ente a semplice “apparenza”, a mero “fenomeno”. La più grande tragedia dell’individuo è stata, ed è ancora, quella di credersi ciò che in realtà non è, o di “pensarsi” un semplice spazio-tempo-volume relativo e finito.

Possiamo ancora dire che la “conoscenza di relazione” è una conoscenza dei “particolari”, del singolo, dello specifico, della parte; ma l’ente (sia esso superumano, umano o subumano) è universale, e l’universale è qualcosa di più del concetto di generalità.

Qualcuno può chiederci: che connessione esiste tra questa “conoscenza di relazione” e la Conoscenza suprema? Che rapporto esiste tra l’ente spazio-tempo relativo e lo Spazio-tempo supremo o principiale?

Chi si pone queste domande è, senz’altro, intrappolato dalla dinamica operativa della “conoscenza di relazione” per la quale, appunto, ogni cosa, ente, ecc., può esistere solo se vista in relazione ad altre cose, enti, ecc. Quando questo tipo di conoscenza solleva il problema dello Spazio-tempo supremo, ed è già una concessione per essa proporre il problema, lo pone in termini di relazione, di distanze da relazionare. E allora come potremo conoscere il Supremo se la “conoscenza di relazione” non ci consente di apprendere lo Spazio-tempo universale?

Se volessimo conoscere il pianeta Giove, che cosa occorrerebbe fare? Se vogliamo conoscere, e non immaginare o intuire, ciò che è Giove dovremo abbandonare il pianeta Terra, attraversare una condizione di imponderabilità in cui i sostegni fisici e cognitivi ordinari, o i quadri di riferimento terrestri, vengono a cessare, e portarci sul pianeta Giove. È solo un esempio tratto dal finito.

Così, per conoscere il Supremo occorre abbandonare questo sistema di coordinate (conoscenza di relazione) e saper volare nell’imponderabile.

Quando la coscienza, che è di là dal pensiero, tende a carpire una dimensione, deve abbandonare quella precedente su cui operava con tutti i quadri di riferimento, anche cognitivi, ad essa inerenti. Qui l’azione è di salita perché occorre seguire una linea verticale, mentre quando ci si vuole estendere su un determinato piano esistenziale basta sviluppare una linea orizzontale di penetrazione cognitiva, usando così i soliti strumenti operativi. Ma nel salire in linea verticale occorre mettere da parte un potente mezzo di sostegno dell’individualità umana, strumento su cui e con cui essa si regge e si perpetua nell’ambito del suo piano esistenziale. Levare però il sostegno-appoggio al “bambino” significa mettergli paura, significa portarlo alla frustrazione angosciosa. Pur di non abbandonare il sostegno-appoggio del “conoscere relazionato”, l’individuo bambino è disposto a tutto, anche a disconoscere non diciamo la realtà di altre dimensioni, ma persino l’ipotesi di altre possibilità.

Dunque, lo Spazio-tempo supremo (siamo nel dominio dell’Essere) può essere conosciuto; anzi è più esatto dire realizzato. Vi sono dati che stanno di fronte a noi (dualità) e possono essere appresi con la “conoscenza di relazione”, ma v’è il Dato che non ha secondo o relazione, e quindi non può essere oggetto di apprendimento sensoriale. Qui la “conoscenza di relazione” o mediata deve cedere il posto all’attuazione dell’identità coscienziale-esistenziale o, se si vuole, alla Conoscenza d’identità.

Dovremo riconoscere che gli spazi-corpi relativi sono semplici effetti, e l’effetto presuppone sempre una causa. La nostra “conoscenza di relazione” ci offre l’apprendimento di un mondo effettuale. Ogni fenomeno non è altro che effetto, e per quanto a volte si parli di scoperta della causa di un determinato effetto, si può dire che quella causa è, a sua volta, effetto di un’altra causa preesistente. L’universo di relazione non è altro che causa-effetto-causa-effetto, e così via; ma la Causa delle cause è di là dall’universo di relazione, oltre il mondo dei nomi e delle forme, oltre il mondo degli effetti.

Di là dalle “apparenze” spazio-tempo esiste l’universale Essere che non diviene, che non appare e scompare, come di là dalle singole “leggi generali” esiste la Legge universale che rappresenta la Costante assoluta di tutte le leggi generali o relative.

Lo spazio-tempo-corpo relativo, per quanto “apparenza”, può considerarsi una semplice illusione o allucinazione onirica? Può essere esso un “niente”, un “nulla”, un non-esistente?

Nessun autentico conoscitore potrebbe attestare questa tesi nichilista. Qualcuno, poco informato, potrebbe dire, per esempio, che Samkara, il codificatore del Vedànta advaita, ha sostenuto che lo spazio-tempo relativo è semplice illusione, nell’accezione che tale termine ha in Occidente.

Samkara, invece, non ha mai affermato ciò; neanche Parmenide l’ha sostenuto. Samkara, dice esplicitamente: «L’universo dei nomi e delle forme non è come il figlio di una donna sterile, o le corna di una lepre» (si veda il suo commento alla Māṇḍūkya Upaniad1). Il che significa che lo spazio-tempo relativo non è un niente, un nulla, un’illusione. Egli rileva che lo spazio-tempo-māyā è solo uno degli aspetti della Realtà totale, in altri termini, rappresenta un semplice grado di verità.

Quindi, con la terminologia odierna, possiamo dire che lo spazio-tempo finito, di cui facciamo attualmente esperienza, è solo uno degli illimitati sistemi di coordinate. Ciò implica ridimensionare la “concezione” del nostro reale, del nostro concepirci; significa non pensare più che il nostro tempo-spazio relativo debba essere unico e assoluto o, all’opposto, che l’individuo debba annichilirsi qualora voglia trascenderlo. E Samkara cerca di mettere in evidenza queste errate concezioni quando obietta che spesso “sovrapponiamo” la nuvola opaca ed evanescente al risplendente sole.

Uno spazio-tempo-corpo che si “creda” assoluto diventa alienato; come, d’altra parte, lo è uno spazio-tempo-corpo che si “creda” semplicemente un relativo (reale relativistico). Così l’essere umano si concepisce o come “individuo assoluto”, o come semplice “corpo-molecola” il cui destino è l’annichilimento, l’annientamento; e questo tipo di “concezione” o “credenza” egli la traspone ovviamente nel campo sociale, politico, morale e persino religioso, con conseguenze che tutti possiamo vedere e sperimentare.

1 Māṇḍūkya Upaniad, con le kārikā di Gaudapāda e il commento di Śaṁkara. Traduzione dal sanscrito e note di Raphael. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.

 

Articolo tratto da "Fuoco dei Filosofi" Raphael, per le Edizioni Asram Vidya (ora Parmenides) pag 78-85

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