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Commento al Vivekacūḍāmaṇi: sūtra 29-31

 

Il commento di Bodhānanda ai sūtra  del Vivekacūḍāmaṇi, il gran gioiello della discriminazione, è parte di un lavoro collettivo di commento di alcuni  sūtra di quel testo svolto dagli allora partecipanti alla mailing list Advaita-Vedanta che si articolò per un buon numero di anni, circa dal 2000 al 2005. Il testo di riferimento è quello dell'edizioni Parmenides (prima Asram Vidya).

Si riportano, per completezza, i sūtra 29 e 30 senza commento, e il sūtra 31 sul quale sono presenti due commenti di Bodhānanda.

Sūtra 29. Śama e le altre qualità hanno vero significato ed effetti positivi solo quando vairāgya e la sete di liberazione (mumukṣutvaṁ) si affermano con vigore.

Sūtra 30. Se invece la rinuncia e l'anelito alla liberazione permangono deboli, anche la calma della mente (śama) e le altre qualità diverranno illusorie, come un miraggio nel deserto.

I sūtra 29 e 30 fanno ancora parte di quelli (18.-30) che riguardano i quattro mezzi cardinali, ossia le qualificazioni per la realizzazione.

Il sūtra 31 apre la sezione del Vivekacūḍāmaṇi dedicata a "sforzo personale e guru" (31- 42) e ci porta nel cuore dell'opera dove ci sono, sia sūtra intensi che parlano diretti all'intimo dell'aspirante che cerca di tenere acceso il suo tiepido anelito all'Oltre, (si veda la meravigliosa invocazione del sūtra 39), sia sūtra che delucidano sul passaggio senza soluzione di continuità dalla parabhakti alla pura Conoscenza, all'esperienza della Verità non duale.

La meta ultima della devozione è la fusione e l'assorbimento nell'oggetto di devozione, e nella fase in cui ci troviamo (aspiranti in cerca) la devozione al Guru può guidarci verso la trascendenza della relazione duale, che è tutta un'opera personale.

Ai piedi di Colui che È.

39. O Signore, dimmi parole preziose come il nettare, sgorganti come una fonte dalle tue labbra, rese più soavi dalla tua esperienza della beatitudine del Brahman; versale su di me rinfrescanti, pure e così gradevoli alle mie orecchie; su me che sono arso dai dolori terreni, come la foresta dalle fiamme di un incendio. Benedetti sono coloro che tu hai illuminato con uno dei tuoi sguardi accogliendoli sotto la tua protezione.

 

 

 

 

Sforzo personale e Guru

Sūtra 31. Fra i mezzi che portano alla liberazione, la devozione (mok.sakāranasamagryāṁ bhakti) occupa un posto elevato. La ricerca costante della propria reale natura si chiama devozione (bhakti).

Commento di Bodhānanda

 Quando un devoto avvicina un Ideale divino (anche incarnato) cosa va cercando?

 Egli va cercando la propria felicità.

 Se non fosse in una situazione di infelicità egli non muoverebbe da dove è.

 Il movimento è teso sempre alla felicità. Cosa è la felicità?

 C'è chi la legge come assenza di sofferenza, ma assenza di sofferenza significa anche assenza di felicità.

  

Non tutti sono pronti a questo, pertanto si cercano determinati oggetti, certi che essi ci daranno la felicità.

Dio, il Padre, il Creatore, considerato la fonte, per il devoto è la fonte della felicità e si dimentica che egli è la fonte di tutto.

 

Ma questo Dio, ci dice la Tradizione, è la nostra reale natura, è la natura dell'Universo.

 

Quindi la via devozionale non è altro che la ricerca della Realtà Assoluta, il Brahman, perchè quando cerchiamo Dio, in realtà stiamo cercando la nostra fonte, la nostra origine, la nostra natura: ciò che siamo.

 (...)

 

L'aspirante advaitin si confronta con l'advaita dal duale, a mezzo di un corpo duale, a mezzo di una mente duale, a mezzo di testi grossolani...

 Ogni tanto con la grazia di un Maestro a cui pone domande dal duale.

 La realizzazione advaita esiste solo nelle parole di chi non l'ha, chi mai dovrebbe realizzare cosa?

 Esiste qualcosa che adesso non è e che poi sarà (la realizzazione)?

 Nell'Advaita non esiste progresso, non esiste tempo, non esiste cammino, non esiste realizzazione, ma tutte queste cose esistono nel dvaita, perchè è lì che l'ente si crede, quando afferma che ha un percorso da fare (di azione, di meditazione, di devozione, yogico, etc.)

Per questo è quasi un paradosso parlare di "meditazione advaita", "percorso advaita", "cammino advaita", etc. etc...

È più corretto parlare di ajātivāda (cammino di non generazione) o asparśavāda (cammino senza sostegno) nel senso che si cercherà di non generare, di non appoggiarsi... ma già questo concetto di proiezione nel dopo implica la dualità.

 Quindi l'aspirante deve essere consapevole che, quale che sia la sua posizione coscienziale, proprio perchè ne detiene una, è comunque soggetto alla limitazione dell'individuazione.

Tale concetto non è dissimile dal peccato originale, ossia la mancanza di perfezione nel relativo, da cui l'immacolata concezione esprime l'avatarietà di Maria.

 La via della devozione del Reale (parabhakti) è quella dell'aspirante che, distaccato dal grossolano, senza predisposizioni per la via dell'azione, senta una fortissima attrazione nel sottile per il Reale che viene percepito attraverso la sete d'amore e lo struggimento.

 È possibile che Egli adori il Reale attraverso la propria possibilità di percipienza o coscienza, ossia Egli, Puro Essere che si crede individuato, ama sè stesso [quale] Puro Essere non individuato attraverso una riflessione che permetta una miglior visione/percezione: il Dio Persona o il Maestro (l'istruttore che viene creduto espressione dell'Assoluto o per Reale identità o per proiezione dell'aspirante).

 

PS. Si chiede indulgenza perchè queste note sono preparate di corsa senza possibilità di rilettura.

 

 

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