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Commento al Vivekacūḍāmaṇi: sūtra 8 - 12

Nel giugno del 2000 inizia, sulla lista Advaita-Vedānta, un lavoro collettivo di commento dei primi sūtra del Vivekacūḍāmaṇi di Śaṅkara, che dura a fasi alterne, fino al 2005.

Non tutti i sūtra riportano il commento di Bodhānanda, mentre alcuni vengono commentati anche da altri partecipanti.

In questo brano sono riportati i sūtra  8-12 con relative note di commento di Bodhānanda e gli interventi di A. e B. sul sūtra 12. 

I sūtra del Vivekacūḍāmaṇi sono tratti dal testo delle edizioni Aśram Vidya, ora Parmenides

 

 

 
 
 
08. "L'intelligente ricercatore, che ha rinunciato al desiderio per gli oggetti sensoriali, deve avvicinare debitamente un buon e generoso Istruttore, concentrandosi sul vero significato delle parole (dell'Istruttore) e sforzandosi di realizzare la propria emancipazione.
 
 
Il rapporto col Maestro sorge quando nell'aspirante si è già manifestata la scomparsa di desideri volti al mondo. L'istruttore servirà a sciogliere le convinzioni residue, una delle ultime sarà l'attaccamento allo stesso Maestro.

09. Raggiunto lo stato di Yogarudha, con l'ininterrotta discriminazione (samyagdarsna), il ricercatore deve strapparsi dall'oceano delle trasmigrazioni nel quale si trova (samsaravaridhau). 
 

La Bhagavadgītā (VI, 4) dice: 
 
“Quando l'uomo non è più vincolato agli oggetti sensoriali nè alle azioni e ha rinunciato ad ogni sua progettazione (istanza subconscia di ideare progetti inerenti all'io), viene detto essere uno Yogi".

Si ritiene talvolta che gli stati descritti nei libri relativamente a certi esseri siano per come li leggiamo. Nonostante essi siano la descrizione di determinate esperienze metafisiche e nonostante gli uomini usino tali termini per definire il Saggio, il Filosofo, il Realizzato, tali termini appartengono comunque al linguaggio di chi non ha realizzato la propria natura di puro essere.  
Tali testi sono un memento e per taluni, solitamente pochi, possono essere un indirizzo realizzativo integrale.  
 
Chi vive lo stato di ininterrotta discriminazione non può essere cosciente di tale stato, non almeno per quello che si intende per cosciente, infatti se dovesse rendersi cosciente, cioè uscire da esso per affermare di essere cosciente, automaticamente interromperebbe la discriminazione, per quanto noi intendiamo con discriminazione. 
 
Se, per l'aspirante discepolo, la discriminazione può essere inizialmente intesa col principio di osservazione dei processi e degli eventi interiori ed esteriori, quindi implica una azione, lo stato ininterrotto non è una azione continuata, quanto una non-azione, ossia lo stato d'essere naturale del jiva, ossia l'atma. 
  
Nè è lo yogi che chiama se stesso yogi, perchè dovrebbe porsi dal suo stato, ossia dovrebbe preoccuparsi di trovare un nome per chiamarsi e definirsi, compito di cui di solito si fanno carico gli aspiranti discepoli e in rari casi il Maestro quando assegna un nome all'aspirante in oggetto.  
 
 
Qualificazioni dell'aspirante
 
10. Il dotto asceta (pandita samnyasya) che vuole realizzare il Sè deve trascendere tutte le azioni (sarvakarmani) e rompere le catene delle nascite e delle morti (bhavabandhavimuktaye).
 
 
Trovo un poco di difficoltà di fronte all'accostamento del termine pandita con samnyasa, infatti il termine samnyasa significa più rinunciante che asceta, [si riferisce] a un aspirante che ha preso i samnyasa e ha rinunciato anche alla sapienza. 
 
Trascendere le azioni... alcuni vi leggono un sospendere l'azione, di fatto in India c'è chi parla di a-karma, la sospensione dell'azione, come se fosse possibile sospenderla. 

La posizione di un ente è in fondo molto semplice: o è chiamato all'azione o non lo è. 
Se lo è, non potrà certo sospenderla, qualunque cosa faccia.
Se non è chiamato all'azione, il punto non è nemmeno da porsi. 
 
Trascendere l'azione... abbiamo le tre classiche vie: 
- azione distaccata dai suoi frutti - karma yoga
- azione dedicata all'Ideale divino e quindi non più propria [bhakti yoga]  
- azione compiuta nella posizione del testimone, cessata la convinzione di esserne l'artefice [jnana yoga]
 

11. Le azioni meritorie servono a purificare la mente (cittasya), non a comprendere la realtà (vastu).
La realizzazione del Sé è sempre frutto di investigazione discriminante (vicarena) e non di azioni meritorie per quanto numerose.
 
 
Qualsiasi buona azione, qualsiasi merito acquisito servendo gli altri, il Maestro, la Divinità, dovessimo [pure] salvare mille mondi, dovessimo convertire a chissà quale grande verità un milione di persone (ahi, che brutto karma!) etc. etc. nessuna di queste azioni potrà mai condurre/favorire la realizzazione del Sé, Realtà Assoluta, Brahman, Uno, etc. etc.
 
Molti aspiranti hanno traslato le abitudini religiose occidentali sul cammino spirituale.
In sostanza, "faccio" il buono e quindi meriterò la ricompensa (paradiso).
 
Nel piano grossolano vige la legge della causalità, pertanto ogni azione "fatta per", determina un effetto, di conseguenza sino a che si "fa il buono" c'è una individualità che agisce rimanendo sul piano grossolano.
 
Intento di una disciplina spirituale tradizionale non è condurre tutti alla santità sentimentale e romantica o al paradiso.
La disciplina serve a provvedere alla rettifica delle qualità, quindi senza “fare i buoni”, ma [per] “essere buoni”.
Un passaggio che talvolta può sembrare portare anche alla cattiveria (secondo la morale vigente).
 
Dal punto di vista dell'aspirante questo significa rettificare i propri guna per andare in una posizione di equilibrio, come? 
Azione nel distacco dai frutti - karma yoga.
Azione donata al divino - bhakti yoga
Discriminazione e distacco - jnana yoga.

Queste tre discipline aiutano la presa di controllo della propria mente.
In realtà nemmeno queste possono condurre alla realizzazione, perchè non c'è un qualcosa da realizzare, né chi la realizzi, né l'atto di realizzazione.
Queste discipline conducono all'asparsa: la via senza sostegno, alla consapevolezza pura.
Questo perchè, se potessero mai condurre direttamente al Sé, implicherebbe che esiste il libero arbitrio e, ovviamente, in un mondo ove vige la causalità questo non può esistere.
 
Esiste invece la facoltà per l'ente di essere o non essere consapevole ed tramite questa possibilità che si può giungere ad esercitare con la disciplina.
Il mondo continuerà ad andare, ma l'ente non ne fa più parte, se non per il corpo fisico.
Qui si è detta e qui la si nega. Non la si firma neppure.
 

12. Solo con la corretta investigazione (Samyagvicaratah) si finisce per comprendere che la corda è stata scambiata per l'illusorio serpente, facendo cessare così ogni timore e sofferenza. (duhkha)
 
Dialogo
 
A. Abbiamo qualche altro strumento oltre ai sensi e la mente per poter investigare?
Io temo che l'investigazione basata sui sensi e la mente non porti a nulla di "spirituale", in altre parole non avremo la possibilità di smettere di vedere il serpente.
 
B. Non porta nulla di spirituale, vero, ma esclude ciò che non lo è!
Non è molto, ma è già qualcosa...  Si potrebbe obiettare che per escludere qualcosa bisogna avere almeno, a  livello latente, un'idea di cosa sia l'originale.
Mi spiego: per escludere che la tal cosa sia un cavallo occorre avere l'idea del cavallo; per escludere  ciò che spirituale non è, occorre avere l'idea (latente) della spiritualità.
Come abbiamo tale idea ? Platone ne diede una spiegazione plausibile, chi se la vuole andare a rivedere libero di farlo... 
 
 
R. L'indagine (vicara) che propose Ramana Maharshi era sull'origine del senso dell'io (ahamvritti). L'indagine che propose Shankara era sulla realtà. L'indagine che propose il Cristo era sull'amore. 
Ma parrebbe essere, come dire... parcellare! 
Qualsiasi indagine può condurre alla realtà purché essa sia onesta e scevra da ciò che non appartiene all'indagine. 
 
Prendiamo come esempio l'indagine sui sensi. 
Dovrei iniziare ad esaminarli con attenzione, sempre.
Esaminarli=indagine= assistere come testimone, senza giudizio. 
Prendiamo il vedere... scoprirei che alle volte gli occhi mostrano cose che non ci sono.
Da ragazzo si guidava un motorino, una notte mentre si vagava in solitaria su una strada di montagna, della carta portata dal vento passò davanti al faro; parve essere un gatto e mentre si stava per sterzare con tutte le possibili conseguenze, la rifocalizzazione dell'oggetto mostrò la sua natura di carta. 
Anni dopo in autostrada, sempre in notturna, ma non in solitaria, si parò davanti ai fari un cane, l'impulso di sterzare fu fermato dalla consapevolezza che più vite sarebbero morte nel tentare di evitare il cane. Si strinse forte lo sterzo e non si cercò di evitarlo.  

Osservando i sensi si vedono gli aspetti istintuali, osservando questi si trova la mente. 
Osservando il tatto si vede che esso è possibile solo quando esiste un contatto, una differenza sulla superficie corporea, senza il quale non ci sarebbe alcuna conoscenza. 
Così potremmo continuare e scopriremmo sempre che la conoscenza attraverso i sensi in realtà non è possibile se non attraverso una dualità.
Troveremmo sempre e comunque questa dualità.  Ora, in questa dualità come è possibile la conoscenza?  Può l'essere conoscere il non essere?
Posso conoscere ciò che è altro da me?  In una indagine "onesta" che tenga conto solo di sé stessa, la risposta è no.
È vero che sembra una risposta assurda, ma osservatevi attentamente e vedrete che non è possibile alcuna conoscenza di ciò che già non conosciamo.
Facciamo risalire ogni conoscenza ad altra conoscenza e così via.
Prova a dimostrazione, è che non potete far comprendere l'odore a chi è privo di olfatto.
Lui non può conoscere, voi non potete trasmettere.
Occorre la percezione, ma nella percezione non c'è conoscenza, c'è semplice percepienza che non è conoscenza.
Perchè, quale che sia l'oggetto dei sensi, esso non è reale in quando non reale in sè, perchè soggetto:
1) al divenire: nasce e muore;
2) scompare durante il sonno: se fosse reale esso sarebbe presente a prescindere dello stato di coscienza del soggetto.
 
La percepienza può però (si salta una serie di passaggi) condurre al fatto che in tutto ciò ci deve essere un centro.
Quel centro che mai muta, che rimane identico a sé stesso, che testimonia al sonno, alla veglia e al sogno (infatti mica diciamo di essere morti quando i sensi e la mente non operano... sappiamo di avere dormito) quel centro, quel cuore, quell'Essere è quanto cui siamo addivenuti partendo dai sensi. 

Però questo centro non lo cogliamo, ne siamo distratti, ci appare mitologico, ci appare meno reale di questo piano di realtà. 
Questo perchè preferiamo credere all'abitudine e alla mente, piuttosto che porre un’effettiva attenzione al nostro esperire la vita. 
Poniamo attenzione a ciò che crediamo piuttosto a ciò che vediamo.
Alle fantasticherie che ci propina chi vuole venderci qualcosa, chi ha una propria idea da farci credere...  
Questo perchè ci hanno convinto che noi siamo qualcosa di diverso da quella sottile nota, quella consapevolezza di essere che abbiamo velato di mille e mille opinioni.
Quello noi siamo, ma ci sembra troppo banale, troppo piccolo, troppo stupido.
È meglio inseguire le proprie proiezioni sul mondo piuttosto che ascoltare/vedere/toccare/udire/gustare ciò che in realtà siamo e che permette/sostiene tutto il mondo che vediamo. 
Se la risposta fosse sì, si andrebbe in un paradosso oppure che l'oggetto sia già contenuto in me e qui si andrebbe su un altro discorso. 
Se poi parlassimo di conoscere ciò che sono, per lo stesso discorso di prima, dovrei escludere sensi e mente perchè sono una percezione seconda rispetto alla percezione prima di essere.
E allora, cessata la mente, dovremmo parlare di una conoscenza diversa, diretta, Suprema.
 
[Ml Advaita_Vedanta 28 ottobre 2000 - 23 dicembre 2000]
 

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