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Presenza nell'azione - Adesioni

I brani che seguono sono estratti dalla trascrizione del seminario sul karmayoga tenuto da Bodhananda, nell'ambito del Ramakhrisna Mission, nell' aprile 2007. Il primo brano è stato rivisto e corretto nel 2013, il secondo era già stato pubblicato nel forum pitagorico sotto il titolo di adesioni, strumenti ed una prova pratica.  Fanno parte di un lavoro complessivo di revisione e correzione rimasto incompiuto,non avendo avuto modo Bodhananda di completare il lavoro iniziato. 

PRESENZA NELL'AZIONE - ADESIONI 1 

Ramana Maharshi insegnava attraverso il silenzio. Molti maestri insegnano attraverso il silenzio; quando parlano usano le parole per distrarre la nostra mente affinchè il silenzio possa entrare in noi. E il silenzio è la maniera in cui la vita normalmente insegna, attraverso cui le azioni insegnano.

Quando parliamo di essere presenti nell'azione è perché abbiamo comunque l'esigenza di aderire a qualcosa: alle opinioni, all'ego, ai pensieri, alle paure.

Il manas è la nostra struttura, la nostra mente purtroppo è fatta così, abbiamo un quinto senso (la mente o citta) che è costituito da un organo che viene impresso da qualsiasi cosa avvenga nel circostante.

Non ci sono possibilità che questo non avvenga. Pertanto, quando si parla di controllo della mente, c'è un errore di fondo.

Il controllo della mente ha un senso per lo yogi estremamente avanzato che vive nel silenzio e che, a quel punto, può attuare delle tecniche particolari per evitare che la mente venga impressionata, ma sono ancora delle pratiche parziali, ossia parliamo di un essere che non ha raggiunto quello stato di totale indifferenza al fatto che uno strumento venga più o meno impressionato dal circostante.

In ambito tradizionale non andiamo contro la nostra natura, la natura delle cose, poichè su questo piano esistenziale esiste la legge di causalità.

Noi possiamo ricondurre qualsiasi evento, in termini di "fisica", ad una causa, un effetto, un'energia che si trasforma, che trasla da un piano ad un altro. Quindi ipotizzare di poter intervenire, di bloccare un processo è semplice follia.

Se c’è un'esplosione atomica in atto, non posso mettere una mano per fermarla, se c'è una deflagrazione non posso mettere una mano per fermarla, se c'è una macchina che sta arrivando ad alta velocità, non la posso fermare con una mano, a meno che non abbia altri poteri.

Ovviamente, se fermo quella macchina mettendo davanti uno strumento che faccia da ostacolo, quella macchina si va a sfracellare contro quello strumento, ossia l'energia cinetica che ha quel mezzo in movimento si trasforma immediatamente in deformazione, in calore, sia sulla struttura che viene colpita, sia sulla struttura che colpisce.
Così è qualsiasi evento in questo manifesto, così è la nostra mente.
Quindi come non posso impedire ad un gatto di essere curioso, non posso impedire al legno di essere legno, non posso impedire alla mente di essere impressionata.
Se si parla di controllo della mente non stiamo parlando di snaturare la mente, stiamo semplicemente dicendo che la mente va ricondotta alla sua funzione di strumento.

Questo significa che la mia mente continuerà a venire impressionata. Quindi se dovessi in una qualche maniera ripristinare una condizione naturale in me stesso, dovrò fare qualcosa.

Tanti libri, tante persone, tanti maestri ci hanno detto che esiste il cammino spirituale. Cioè esiste una persona che dice: "Io da oggi, da ieri, da domani, attuo una serie di azioni per andare a cambiare la mia vita e modificarla nel tempo".
Questo implicherebbe che ci sia un movimento che posso fermare, il poter dire "fermi tutti voglio scendere!”, che questa energia, questa manifestazione, questa causalità possa essere fermata: “Fermiamo il mondo, da domani attuo delle cose per cambiare questa causalità e modificarla in meglio".
Ora questo non è materialmente possibile. Se affrontiamo la vita da un punto di vista formale, causale, allora vediamo che non è possibile… non esiste l'ascesi.

Infatti a questo punto normalmente si introduce il concetto di Demiurgo, del Divino: esiste la Grazia del Divino che può intervenire e può modificare la vita.

Un Divino che può essere personale, il Demiurgo; altri che praticano uno yoga di conoscenza parlano, al limite, di Dio Impersonale.
Poi c'è chi si spinge verso la non dualità e addirittura parla di non esistenza del manifesto, di apparenza, e così normalmente incominciamo a costruire interi universi, interi mondi su delle opinioni, su delle concettualizzazioni, su delle credenze, e sfuggiamo dalla nostra realtà.

Ora, ogni scuola di pensiero ha una sua verità e questa verità è un punto di vista, ma non è la Verità: è un punto di vista sulla Verità.

Se volessimo affrontare noi stessi dovremmo entrare in un punto di vista che veda noi stessi e non che veda delle opinioni, delle idee, delle concettualizzazioni.

Credo che molti di voi, se siete qua, abbiate cercato di fare un cammino spirituale. Vi siete confrontati con voi stessi, avete cercato di cambiare e non ci siete riusciti.

Questo è un fatto. Non possiamo essere differenti da ciò che siamo.

Questo significa, ed è forse la cosa più difficile da comprendere e da accettare, che nell'ambito tradizionale non esiste la possibilità di praticare un cammino spirituale.
Questo è un paradosso tremendo, ossia che io non posso fare un cammino spirituale, posso solamente camminare, percorrere la mia vita ed è quella mia vita ad essere il cammino spirituale.

Quindi devo diventare consapevole della mia vita ed è quello il mio cammino spirituale.
Quando io cerco di essere migliore, se non ho in me quella possibilità perché ho ancora dei contenuti da risolvere, potrò provare in tutte la maniere ad essere migliore, non diventerò mai migliore.

Ma se io, invece, accetto che per me “l'essere migliore” significa andare ad integrare ciò che sono ed accettare quelle parti che reputo negative, integrandole dentro di me attraverso strumenti che possono essere l’amore per il prossimo, l'azione distaccata o qualsiasi altra possibilità ci offrano i vari cammini, allora entro nella visione tradizionale della situazione di me stesso.

Ognuno di noi è esattamente quello che è e non può cambiare di nulla.

A questo punto lo yoga introduce il concetto di raja yoga, ossia della volontà, introduce il concetto della Grazia del Divino che attua il cambiamento (bhakti yoga), introduce altri aspetti.

Ma nel karma yoga questi sono aspetti che non sono presenti e quindi viene da chiedersi: "Poichè non è data la possibilità di cambiamento, qual è la mia possibilità? "

La possibilità è il comprendere che ogni passo che sto facendo non sono io che sto scegliendo di farlo, ma che è giunto il momento in cui quel passo andava compiuto.

E' quella che il Buddha chiamava sincronicità, il sincronismo dell'universo che, come dice il Tao, non si può spiegare, ma se non lo cerchi di capire non lo puoi realizzare.

Tutta quella serie di paradossi sorgono dal fatto che abbiamo una realtà assoluta che non ha nessun collegamento con la realtà oggettiva, o il manifesto, o la cosa.

Assolutamente. Per il semplice fatto che tale Realtà assoluta è identica ed essendo identica non è collegata a null’altro.

D. Puoi spiegare meglio questo concetto?

R. Molti ritengono che il Turya, il quarto stadio, o chiamiamolo il Brahman, sia un qualcosa di separato, sia "un quarto", ma in realtà è questa Realtà, non è separata.
Semplicemente accade che in questa realtà io scelgo di vedere, scelgo di aderire, scelgo di percepire.

Quindi "questa" realtà oggettiva non è differente da "quella", è sempre la stessa Realtà, altrimenti non sarebbe possibile assolutamente l'ascesi.
Da un certo punto di vista l'ascesi, l'evoluzione, la realizzazione, il cambiamento, accadono perché nell'ambito di un processo causale per qualsiasi cosa noi possiamo andare a esaminare in noi stessi che c'è una causa, un effetto, una trasformazione energetica (che subiamo) come se fossimo degli automi.

E' quello che spinge i cosiddetti neoadvaitin a dire: "Tutto è assoluto, non c'è niente, tutta apparenza, possiamo stare fermi".

Quella è una concettualizzazione o, se vogliamo, è una realizzazione parziale se non avviene poi la discesa, e quindi stimoliamo la gente ad essere differente da ciò che è.

D. Discesa? Che cosa intendi per discesa? Stai parlando dell'Avatara?

R: Preferirei non riferirmi a specifici maestri. Uno può anche realizzare l'Assoluto, ma se non lo porta nel quotidiano a cosa è servito realizzarlo?
Se tu rimani vivo con un corpo dopo la realizzazione vuol dire che c'è: pertanto o hai un percorso da fare o hai una missione da compiere.
Se ti rimane un corpo formale, c'è un'azione da portare avanti, altrimenti lasci il corpo fisico, mantieni gli altri corpi e rimani su altri piani.
Anche lì ci sono azioni da svolgere, ma se tu mantieni un corpo nel fisico denso, ci sono ancora azioni da svolgere.

Ultimamente va di moda il satsanga, insegnano che non c'è niente da fare, "sei già quello", "non serve il Maestro", la "realizzazione è facile", basta solo capire questo e si è già realizzati. Sembrano parlare di una ben misera realizzazione... la lasciano là, oltre le persone, non riescono a portarla giù: la lasciano là.
Confrontarci con un simile realizzato a che cosa serve?
Si narra di una persona che aveva colto una realizzazione advaita attraverso la musica e si era messa a disposizione; così sono stati organizzati alcuni incontri.
A chiunque andava con dei problemi del piano grossolano, lui rispondeva "Ah! Ma è tutta apparenza! Tutto questo tu non lo vivi, non è reale".
Sembrerebbe il discorso di Ramana, noi pensiamo che Ramana portasse tutti quanti sul discorso del “chi sono io”.
Vero, perché la maggioranza delle opere trascritte che ci arrivano indica tale pratica.
Ma Ramana era un bhakta con i bhakta, era uno jnani con gli jnani, era un karma yogi con gli altri.
In sintesi il discorso è: ognuno di noi ha la sua posizione coscienziale e deve tenere conto di quella nella vita e non può trasformarla per iniziare il cammino spirituale.
E' la sua vita stessa il suo cammino spirituale, è la sua quotidianità il suo cammino spirituale, quindi deve entrare nel meccanismo e comprendere che da un lato non può esserci cambiamento, e dall'altro lato che lui stesso è il cambiamento, e quindi riuscire a vivere la quotidianità.
Qualcuno oggi diceva: da un lato c'è il distacco, ma dall'altro c'è l'adesione. Vero! Potremmo cominciare subito a parlare di distacco, ma se cominciassimo a parlare di distacco qualcuno potrebbe dire: "Ma come faccio ad ottenere il distacco?"
Dunque lasciamo da parte quello che non c'è ancora, parliamo di adesione, di presenza nell'azione, perché quello sappiamo farlo, quella è una cosa che sappiamo fare tutti quanti, tutti quanti sappiamo aderire: ad un gelato, ad una bella donna, ad un quadro, ad un bel libro, ad un bell'albero.

Sappiamo identificarci, sappiamo entrare dentro la cosa, sappiamo concentrarci su quell'azione.
Questa è una cosa che sappiamo fare tutti perché, per altri versi, è la nostra disgrazia.
E’ quello che ci impedisce di evolverci: l'adesione al manifesto.

Ma se c'è questa adesione al manifesto vuol dire che c'è un processo in atto, allora torniamo al concetto di prima: mangiare il pasticcino presente!
Perché se tu vuoi mangiare il pasticcino vuol dire che c'è quell'istanza, quel desiderio: c'è un qualche cosa.

Nel Vedanta vengono indicati i quattro scopi della vita dell’uomo, i purusharta, che parlano di artha (benessere), desiderio (kama), dharma (dovere) e moksa (liberazione).

Cos'è che rende differente una vita tradizionale da una vita non tradizionale?
La vita non tradizionale sviluppa kama (desiderio) per il benessere (artha), poi c'ha moksa e dharma, ossia ci si vuole liberare dal dharma, si vogliono allontanare gli obblighi dell'equanimità, perchè il dharma è l'equanimità.

Una vita tradizionale inverte le cose e sviluppa, da un lato il desiderio per la liberazione (kama moksha) e, dall'altro, il raggiungimento del benessere attraverso il dharma (dharma artha), l’adempimento dei propri obblighi.

D. Com'è la vita non tradizionale?

R. La vita non tradizionale è kama-artha, desiderio di benessere e moksha-dharma, liberazione dal dharma.
Io voglio liberarmi da quello che vedo come dovere, come cose che mi bloccano, mi imprigionano, mi chiudono.

D. Qualcuno come me, ad esempio, che mi vorrei liberare dal peso dei lavori domestici?

R. Ma vedi, e qui apriamo una parentesi, la via tradizionale ti dice che esistono gli ashrama e normalmente viene detto che il capo famiglia può entrare nell'anacoresi o nel sannyasa solo quando il figlio maggiore ha raggiunto la posizione del capo famiglia, non prima.
Infatti il grande scandalo del Buddha fu che lasciò la famiglia quando il figlio era bambino. Lui abbandonò il regno, la moglie e il bambino. E questo da un punto di vista tradizionale indù. Non è considerato un darshana brahmanico; è scomparso dall'India e molti shankaracharya parlano molto duramente del buddhismo perché dal loro punto di vista è come se fosse minato.

Eppure Shankara, pur avendo avuto un comportamento per certi versi contrario alla tradizione samnyasica, viene invece portato in palmo di mano come esempio.
Intanto la vita lo mette in condizione di prendere il samnyasa con l'autorizzazione della madre.
Nel mito abbiamo il coccodrillo che gli afferra il piede per ucciderlo.
Shankara difatti dice: "Visto che tu, madre, mi impedisci di entrare nel samnyasa a questa età (sei, sette anni), e giustamente, perché nei tuoi doveri/compiti di madre puoi impedirmi di diventare monaco errante così giovane, a questo punto però la vita non ha più motivo di tenermi qui, meglio lasciarmi mangiare dal coccodrillo.
Se vuoi che io rimanga mi devi dare il permesso di prendere il sannyasa".

Così la madre accetta che Shankara prenda il samnyasa. Orfano di padre, mancano altri che possano occuparsi di lei (ricordiamo che siamo sempre nell'ambito del mito), così Shankara, nonostante fosse divenuto un sannyasin, torna indietro al momento della morte della madre per officiarne i riti funebri.
Questo perché in India il dharma nei confronti dei genitori è il primo dharma, perché essi sono i primi guru. Come andare contro i genitori? Una modalità spirituale che metta contro la famiglia, contro i doveri familiari, difficilmente può considerarsi tradizionale.

ADESIONI,  STRUMENTI E UNA PROVA PRATICA

Torniamo al concetto di posizione e di cammino.

In occidente, nella società consumistica e cristiana in cui siamo cresciuti, in alcuni c'è una sorta di predisposizione a confrontarsi con mete estreme: parliamo di advaita, di jnana yoga, di samadhi. Tanti concetti che ci sono stati messi a disposizione dai molti libri a cui oggi è facile accedere, dimenticando che questi libri sono stati scritti migliaia e più anni fa ed erano diffusi solo in ambiti ristretti o tradizionali.

Cos'è un ambito tradizionale?
La tradizione da cosa è costituita?

E' costituita dai “piccoli misteri” e dai “grandi misteri”.

I piccoli misteri sono tutto ciò che compete la quotidianità, tutto ciò che compete i primi due ashrama, i primi due varna, cioè le prime due "caste" ossia le predisposizioni individuali: lì abbiamo quello che chiamiamo karma yoga e quello che chiamiamo bhakti yoga.

E' il percorso dei piccoli misteri che prevede la possibilità di un meccanicismo e di un Demiurgo, di un Dio che può intervenire con la Grazia. Quindi chi si confronta con l'operatività e con il rapporto con gli altri è più portato ad improntare la propria vita o al servizio e all'azione o alla devozione del Principio.

Chi invece ha le predisposizioni proprie alle altre due varna (indipendenti dalla nascita, ma proprie del carattere e delle istanze individuali) può essere più portato verso un Dio impersonale in un percorso di conoscenza per poi accedere ad un percorso metafisico non duale.

Questo "sistema" ai giorni nostri sembra essere scomparso, oggi chiunque può andare in libreria e comprare le Upanishad.

Leggiamo l'Avadhutagita e pensiamo che sia un qualcosa concepibile. Non parliamo poi della Mandukya Upanishad!
Per comprendere come in passato fosse preso seriamente il cammino spirituale guardiamo lo Yogasutra di Patanjali: a uno o due sutra fanno risalire l'Hatha yoga!

Guardiamo anche l'Astanga yoga: da un sutra solamente ne sono stati ricavati circa ottanta, cioè da un unico sutra sembra evolversi tutto un sistema di purificazione corporea!

Torniamo a noi stessi: ossia dimentichiamoci di queste cose bellissime.
Dobbiamo concepire noi stessi, il nostro corpo, come un tempio (per corpo intendo chiaramente quanto viene chiamato il corpo fisico, il corpo mentale, il corpo emotivo) e questo corpo dobbiamo ampliarlo fino ad avvolgere la nostra famiglia, le persone che ci stanno intorno e tutto ciò che ci circonda.

Noi non siamo scevri da ciò che ci circonda, quindi il nostro cammino, il nostro percorso, è indissolubilmente legato a chi ci sta intorno.

Dobbiamo ripristinare quelle condizioni in cui prendiamo possesso e coscienza della nostra vita. Per questo viene offerta una serie di strumenti: fra questi, ad esempio, la presenza nell'azione.

Il fatto, considerato negativo, che cadiamo dentro le azioni ed aderiamo ad esse, dev'essere trasformato in una cosa positiva.

Il “gioco” è che l'azione c'è comunque, lo svolgimento dell'evento c'è comunque: nella realtà devo accettare il momento stesso in cui mi confronto con l'azione; non sto ancora pensando che esiste un Dio, sono ancora nell'azione e non mi sto spostando. Devo trasformare quell'azione in una cosa positiva.

Se parlassimo di jnana yoga vi direi: devi essere consapevole di ciò che avviene, distaccato e consapevole. 

Se parlassimo in ambito di bakthi yoga direi che quella è un'azione data dal Divino e di conseguenza tu non ne sei l'artefice: la stai officiando perché l'officiare per il Divino è proprio il sacrificio.

Bene, nel karmayoga noi stiamo officiando l'azione per l'Ordine, l'Rta. 
Esiste un Ordine in questo universo che è dato dalla Legge di Causalità. 
C'è uno svolgimento delle azioni: noi in queste azioni possiamo o esserci o non esserci. 

Poiché tendenzialmente la nostra mente aderisce e viene impressionata da ogni cosa, tendiamo a rimanere attaccati all'azione precedente e ci proiettiamo sull'azione successiva. 

Tutto il lavoro del karma yoga è rimanere presenti nell'azione presente, aderendo al presente si fa una fatica non indifferente, ma non perché serva essere presenti nell'azione, ma perché serve a distaccarci dal passato e dal futuro, concentrandoci solamente sul presente. 

Nel passaggio successivo, appena si riesce a distaccarsi dal passato e dal futuro, si scopre che quel presente in realtà non è un aderire: è stata semplicemente una mossa per distaccarci ed a quel punto si entra in quel famoso distacco che poi servirà per vedere le azioni come azione/volontà del Divino, servirà ad esercitare quella volontà del raja yoga, servirà ad avere quel distacco per applicare la discriminazione.

Perché gli yoga non sono slegati: sono semplicemente i piani di esistenza. 

In questo momento stiamo parlando dell'azione del fisico denso. 


Per essere nel presente dobbiamo incominciare a comprendere come funziona la nostra mente o, meglio, come la nostra mente guarda il nostro corpo. Da questo punto di vista molte persone fanno yoga, altre fanno meditazione, altre ancora fanno concentrazione. 

Per capirci meglio facciamo un esempio pratico ancora col Giappone. Il concetto di marga (parola induista che significa cammino spirituale) in Giappone si chiama Do 道. 

Così c'è il ju-do (la via della cedevolezza), il ken-do (la via della spada), il bushi-do (la via del guerriero), l'aiki-do (la via dello spirito armonioso). 

Esiste un cammino che si chiama cha-do. Sapete cosa è il chado? Il tè! La via del tè! Il tè che, nell'ottica dello zen, diventa un cammino e rappresenta il karma yoga per eccellenza. 

Un'azione perfezionata, completamente distaccata dal resto, un'azione in cui si entra in quel presente, ma in quel presente ci si espande perché un presente non è limitato, non ha limiti. 

Provo a spiegare meglio...
Quelle azioni che vengono chiamate tecniche (e che possono anche essere portate all'eccesso) sono dei semplici artifizi, dei meccanismi che si usano per fare un'esperienza oppure per rettificare qualche cosa. 

Ognuno di noi ha un suo concetto personale di tempo e di spazio. Non possiamo parlare di spazio senza parlare di tempo e viceversa. Il tempo è un principio che l'Essere introduce nella manifestazione per spiegare la simultaneità della presenza, nell'individuazione. 
Poiché io in quanto Essere sono presente in due presenti, mi dò il concetto di tempo perché come manifestazione non concepisco la mia presenza in due presenti, su due differenti spazialità.

Allora...
Proviamo a fare un esercizio. 

Posizione gambe incrociate e chiudiamo gli occhi.

Tutti ora abbiamo gli occhi chiusi... 

Cerchiamo di rilassarci e soffermiamoci con la mente su un punto che abbiamo tutti in comune: le narici... 
inspiriamo proprio leggeri leggeri... 
non concentratevi
non forzate nulla 
semplicemente osservate, percepite l'aria dentro le narici che entra inspirando...

...ed ora espirate... 

Adesso quando inspirate ancora, sentite e seguite quest'aria che entra e immaginate, cercate di percepire, il percorso che fa l'aria attraverso le narici fino in bocca, nel palato... 
e poi discende fino ai polmoni...
sentite quest'aria che gonfia i polmoni... 
respirate fino in fondo ad allargare i polmoni...
cercate proprio di sentire i vari punti dei polmoni che si allargano: sia quelli della parte alta, i cieli, che sono proprio qua sotto le spalle, sia quelli sotto che vanno a spingere sulla pleura e quindi il ventre tende ad allargarsi...

Adesso torniamo sulle narici... 
concentriamoci sulle narici... 
ora se osservate la vostra concentrazione sulle narici vedete che è un'azione che voi state osservando da un altro punto. 
C'è un punto da cui voi vi state concentrando ed è il punto in cui normalmente pensate di essere. 

Normalmente questo punto è dietro gli occhi, nella testa, perché tendenzialmente è da lì che noi vediamo l'esperienza della visione: come se la guardassimo attraverso una finestra.

Andiamo dietro la finestra. 

Andiamo dietro i nostri occhi. 

Da questo punto proviamo ad osservare verso il basso l'aria che entra nelle narici e percepiamo la sensazione di aria nelle narici dal punto dietro gli occhi. 

Adesso questa aria, continuando a respirare, la facciamo arrivare direttamente al punto da cui stiamo osservando... 
Quindi seguiamola in questo percorso immaginario mentre sale dietro agli occhi... poi sale sul naso e vi entra... 
Sempre facendo questo percorso saliamo con l'aria fino sopra e poi la facciamo scendere, ad esempio, fino al nostro ginocchio destro e concentriamo lì la nostra attenzione. Immaginiamo che la respirazione avvenga anche nel ginocchio. 

Quindi noi siamo dietro gli occhi, siamo nelle narici e siamo nel ginocchio destro. 

Adesso portiamo la stessa aria nel cuore cioè risale nelle narici, risale dietro gli occhi, 

la facciamo scendere, 

la portiamo nel cuore e immaginiamo di respirare dal cuore... 

noi siamo nel nostro cuore... 

un cuore che immaginiamo pieno di luce, luminoso, caldo, gioioso, piacevole.

Adesso immaginiamoci di essere fuori dal nostro petto, qua davanti al nostro cuore come se il nostro cuore fosse quel cuore luminoso messo fuori. 

Noi siamo lì. 

Non siamo più nel corpo anche se ancora stiamo osservando sempre da quell'altro punto.

Vi accorgete che non riuscite a distaccarvi da quel punto se lo spostate fuori .. c'è ancora un legame col vostro corpo: è un'adesione molto forte e che permette anche la sopravvivenza del corpo. 

L'altra cosa di cui vi accorgete è che se riuscite a fare questo esercizio di concentrazione voi siete nel vostro presente, ma questo presente quando respiravate attraverso le narici contemplava sia l'essere nelle narici che l'essere nel cuore, che l'essere dietro gli occhi e questo materialmente e logicamente non è possibile. 

Voi non potete essere in tre punti diversi. Quindi se voi fate l'esperienza di essere in tre punti diversi vuol dire che c'è qualcosa che non è chiaro o nel concetto di tempo o nel concetto di presente perché noi individui non possiamo essere presenti in tre posti contemporaneamente oppure non siamo individui.

Riapriamo gli occhi.

Qui ci sono semplici ausili/tecniche che servono a farci distaccare dalle nostre abitudini corporee, mentali e psichiche. Entrare nel presente di un qualcosa significa staccarsi dal resto. Staccarsi dal resto significa risolvere le adesioni. 
Risolvere le adesioni significa diventare consapevoli delle adesioni. Perché il fatto stesso che una persona riesca ad essere, come dicevamo prima, nel passato mentre sei vivo nel presente proiettandosi nel futuro già di per sè dovrebbe far riflettere che una tale possibilità implica che la persona sia presente in tre momenti differenti, contemporaneamente. 

Lo facciamo normalmente: io svolgo un'azione e sto rimpiangendo ad esempio un harmonium che ho visto 10 anni fa in India e sto sperando di comprarne uno nuovo tra cinque anni. 
Nella realtà sto portando, sto degradando una possibilità. 


Io sono realmente, in quanto Essere, presente nel passato, nell'adesso, nel futuro, ma siccome non ne sono consapevole è un'operazione che faccio con la mente, col manas, cioè proietto, vado in apparenza, vado in immaginazione. 

Il processo del karmayoga è: "mi devo liberare da queste cose che non sono possibili per come le sto costituendo".

Quindi mi libero dall'adesione e mi porto nel presente. Siccome nella realtà posso vincolare l'essere che sono nel presente, automaticamente da quel presente poi me ne distaccherò.

Questo è il meccanismo attraverso cui opera il karma yoga.

Quindi l'azione che dobbiamo portare avanti nel karmayoga è essere presenti per poterci distaccare negli altri momenti. 
Perché noi in realtà non operiamo mai solamente col corpo: operiamo anche con l'emotività, operiamo anche con la parte mentale. Noi stiamo parlando del corpo, ma da lì poi ci si sposta sugli altri nostri veicoli. 

Quindi il portare l'azione nella perfezione, nel miglioramento, nella presenza è un discorso di preparazione per tutto il resto. 


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