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Vedanta pratico - Condivisione

Bodhananda - Gretz, 16 agosto 2006

VEDANTA PRATICO

Condivisione

Il confronto intellettuale con gli indirizzi di diretto accesso al Reale è foriero di rischi per quelle menti che non abbiano già risolto le necessità psicologiche di autoaffermazione. Quelle verità metafisiche sulla Realtà ultima - cui un tempo si accedeva attraverso le scuole tradizionali, dopo anni di tirocinio e praticantato, a servizio di un Maestro - oggi, sono concettualmente disponibili attraverso la facile reperibilità di testi tradizionali tradotti in più lingue.
Le Upanishad, il Canone buddista, la Bhagavadgita, i Dialoghi platonici, i Commentari shankariani, il Misticismo sufi, il Sermone della montagna... la Verità ultima è intuibile attraverso le diverse dita che nel tempo l’hanno saputa indicare: parole di quei Conoscitori che della Realtà unica si sono offerti quali testimoni. La loro grandezza è tale che gli aspiranti alla Verità raramente trovano difformità nel loro insegnamento, essendo questo univocamente descrittivo dei tanti passi che indirizzano a quell’unica Realtà, così intima all’Uomo.
Il vero aspirante è pronto a correre in capo al mondo per avere l’accesso diretto, non solo ad uno di costoro, ma anche a chi solo li abbia incontrati. La grandezza di questi esseri è tale da non essere commensurabile, né comprensibile; essi, conoscendo il Reale, lo incarnano totalmente, nella pienezza di tutti i suoi aspetti manifesti. Anche se qualcuno sostiene che è possibile un accesso diretto alla Conoscenza, la tradizione raccomanda la benevolenza di un Maestro, di qualcuno che, avendo avuto l’esperienza diretta, sappia indirizzare l’ente affinché la possa vivere a sua volta. Sicuramente esistono degli esseri il cui anelito per il Divino, per la Conoscenza, è stato sì forte da essersi risvegliati al Reale senza alcun Maestro; costoro però non rappresentano la moltitudine che vaga cercando sentori di verità, fra tanta mercificazione di sapienza e di illuminazione.


Nel Vivekacudamani (attribuito a Shankara), il grande di Kaladi pone fra i primi requisiti necessari all’aspirante alla Conoscenza, la protezione di un Saggio realizzato. L’insegnamento platonico veniva impartito all’interno di un consesso il cui accesso era regolato dal Maestro; nei sodalizi pitagorici una rigida selezione impediva l’accesso al cerchio interno.


Ad Arunachala, la grandezza di Sri Ramana Maharshi fu riconosciuta proprio dagli stessi sadhu che ivi vivevano, e fu il loro indefesso servizio a fondare e avviare quell’istituzione che oggi mantiene fermo nel mondo l’insegnamento di Sri Ramana. Parimenti se oggi abbiamo una sorta di Vedanta pratico, accessibile alle genti di tutto il mondo, lo dobbiamo al servizio svolto dai discepoli di Sri Ramakrishna Paramahansa; un pugno di ragazzi che, riconosciuta la divinità del Maestro, attraverso la volontà e la visione di Swami Vivekananda hanno saputo incidere nell’India moderna e nel mondo, al pari di un Mahatma Ghandi e di una Madre Teresa.

Un gruppo il cui effetto è ancora da essere compreso in tutta la sua ampiezza. Ciò che mantiene nel mondo fenomenico un Conoscitore, dopo la realizzazione del Reale, è l’Amore, un amore che non viene suddiviso fra gli “amati”, quanto moltiplicato... amore per il Maestro, amore per la tradizione, amore per l’umanità, amore per i discepoli. Amore che trova la massima espressione nel realizzare la medesima posizione coscienziale del Maestro (ove questi sia stato presente), ma anche un Amore che si esprime nel servizio, servizio al Principio, ai suoi ideali e alle azioni che da questi emanano.


L’amore non è da confondersi con un’emozione, anche se spesso è il mondo emotivo ad essere sconvolto dall’incontro con un Conoscitore, o con le sue parole. È la prima iniziazione: l’anima riconosce il suo Principio; lo riconosce puro, di una purezza che ancora in sé stessa non riesce a cogliere. Una purezza che non può non amare; una purezza che sconvolge ogni consuetudine.
Quale sia il genere (maschile o femminile) del Maestro, l’animo dell’aspirante si ritrova a convibrare come mai prima, preso da emozioni che salgono dal più profondo, dalla sua stessa sconosciuta natura.
È il Riconoscimento. L’anima ha trovato sé stessa, in altro da sé. Ancora deve imparare che quel Sé è unico in tutti gli esseri, essendo la natura stessa della manifestazione.


Si giunge a vibrare di pura gioia. Si giunge a voler dare via il mondo in cambio di un solo suo sguardo. Mille innamoramenti non saranno mai pari ad uno solo di quegli istanti di gioia.
Non si capisce più niente! Si ama il Maestro come bimbo, come figlio, come amante, come marito, come moglie, come padre, come madre, come tutto! Verranno provate tutte le gradazioni dell’amore, senza limitazioni. Si comprende di essere davanti all’Amore e di amare il puro Amore.


Per un istante, l’anima è a contatto con sé stessa; è questa l’origine della gioia: per quell’attimo, l’anima (jivatman) si è vissuta puro essere (atman). Per mantere e continuare a provare questa gioia, il devoto sentirà di essere disposto a tutto.
Se non avviene la rettificazione di queste emozioni, si rischiano quegli eccessi che talvolta si vedono in alcuni gruppi spirituali. È l’amore entusiasta del devoto che travolge chiunque, pur di affermare al mondo la divinità se non l’unicità del proprio Maestro; un entusiasmo, una passione che provocano uno stato di necessità tale da far camminare sui propri fratelli, pur di “toccare” il Maestro, pur di avere un rapporto di esclusiva.
Tutto questo non è amore. È desiderio della propria gioia. Un gioia che si perderà, come ogni aspirante sa, fin quando non la ritroverà interiormente, da sempre sua, perché sua stessa natura.


L’amore verrà dopo la gioia momentanea. Un amore che potrà anche essere silente, finanche nascosto, oppure lontano. Un amore paziente, maturo, che si lascia compiacere da un sorriso, da una piccola foto non necessariamente esposta.
Un amore che centra l’intero universo nel Maestro (o nel Signore) e che, consapevolmente, lo vede unica origine di ogni bene e di ogni male. Un amore che gli restituisce non solo ogni merito, ma anche tutti i mali; perché sarà un amore capace di andare oltre ogni dualità, e quindi riconoscerLo Principio di ogni cosa; anche di ciò che abitualmente è vissuto e concepito come male, come dolore! Un amore che vede il servizio al Maestro, alla sua missione, come unica e propria via. D’altra parte quale mai sarebbe la molla, la causa che motiva e mantiene esistente la vita di un Maestro? Quindi perché mai meravigliarsi se si afferma l’impossibilità di separazione fra Conoscenza e Amore? E come separare l’Amore dal Servizio? Servizio per il Maestro, per la Conoscenza, per l’Altro, fintanto che c’è la percezione dell’Altro...


Questa modalità, così facilmente comprensibile in molte tradizioni orientali, in occidente crea fosche ombre di settarismo, di plagio, di fondamentalismo. Questo poiché le tradizioni occidentali sono sopite da troppo tempo, affinché se ne abbia memoria, affinché se ne sappiano cogliere i preziosi frutti.
L’idea di un padre o una madre spirituali, che sappiano far sbocciare le giovani anime, mostrando loro le ali nascoste che portano sul dorso, spaventa; perché da un lato se ne è persa la consuetudine e dall’altro si è persa la presenza di queste scuole. Scuole dove il passaggio dell’insegnamento, dell’esperienza, dell’istruzione atta a stimolare la testimonianza del Reale, perché esperito, avveniva e avviene di Maestro in discepolo, in una condivisione continua, totale, permanente.


C’è chi chiama questa Conoscenza “Metafisica tradizionale”, chi la chiama “Filosofia dell’essere”, chi Filosofia realizzativa, chi Philosophia Perennis, chi Sanathana Dharma. Ma se c’è un termine che più l’esprime, questo è condivisione.
Un termine che non evoca il dividire, quanto il fruire. La condivisione evoca l’immagine dell’albero che porge a qualsiasi pellegrino i suoi frutti, solo che li desideri e li colga.
Un albero dagli infiniti frutti che possa offrire ombra e conforto ai viandanti del mondo spirituale. Questo è un Maestro tradizionale e questa è la sua condivisione. Questo è stato Sri Ramana Maharshi, allievo di Arunachala. Questi sono stati i discepoli di Ramakrishna. Questo dovrebbe essere ogni uomo di Dio, ogni istruttore: Maestro di condivisione.


La realizzazione del Sé è un evento interiore così intenso, che molti lasciano i veicoli corporei al suo verificarsi. Dei pochi che li mantengono, taluni non sono in grado nemmeno di portare questa realizzazione nel mondo e, incapaci di percorrere il tragitto dal nirvikalpa samadhi al mondo, rimangono assisi nella loro realizzazione, incapaci di tornare nel mondo degli uomini, incapaci di farsi uomini dopo essere stati oltre gli Dei. Uomo fra gli uomini: il Conoscitore, perfettamente stabilizzato nel Sé, il jivanmuktha o liberato in vita, è in grado di vivere pienamente tutti i livelli di esistenza; è capace di tornare a vestire e vivere la piena umanità; è un evento così raro nella storia del mondo, che quelle poche incarnazioni che a ciò si sono prestate, vengono ancora ricordate con adorazione, tale è la gratitudine che hanno generato.


Questi esseri e i loro discepoli operano nel mondo, secondo la tradizione della condivisione: ogni realizzazione, una volta stabilizzata, viene testimoniata liberamente a chi, qualificato, ne faccia richiesta.
La tradizione vivente è l’insieme di queste testimonianze, continuamente rinnovate nel lignaggio dei Maestri che si susseguono mantenendo vivente la tradizione: fra tutti i rami c’è sempre vivente un Conoscitore che mantenga incarnata la pura Conoscenza del Reale, nel mondo fenomenico.
Qual’è il compito di un aspirante che voglia avvicinarsi a questa tradizione? È il raggiungimento di quello stato ove la condivisione non sia una forzatura, quanto un processo naturale; riconoscere che la condivisione è nella natura dell’uomo, prima intuizione dell’unica Realtà che tutti gli esseri sono.


Questo è lo stato ove avviene il ripristino delle qualifiche dell’ente, il ripristino del massimo livello coscienziale conseguito, il riconoscimento del proprio posto nel manifesto, l’adeguamento dell’azione alla propria natura e stato. Qualche scuola chiama questo momento, attivazione della coscienza equanime o riconoscimento del dharma.
È un momento essenziale, specialmente per il capofamiglia, il laico, colui che, pur percependo l’anelito spirituale, sente ancora forte il bisogno del mondo o vi si trova vincolato da compiti improcrastinabili, quali i figli. Se il fine ultimo, la realizzazione del Sé, non è altro che la gioia pura, priva di ogni ombra, la gioia è lo scopo della vita. Occorre allora che l’aspirante comprenda quale sia il suo dharma e da questo comprendere quali siano gli strumenti migliori per adempierlo e nel contempo raggiungere la gioia. Ascoltando le testimonianze di coloro che hanno raggiunto lo scopo che l’aspirante si è prefissato (la gioia, ai suoi vari livelli), senza per questo venire meno ai compiti oramai intrapresi, vediamo proprio come questi due aspetti siano accomunati. L’equanimità, il non venir meno ai propri compiti, è associato proprio alla gioia. Si afferma che non può essere vera gioia quella che si raggiunge venendo meno all’azione equanime. Un vecchio adagio direbbe: “Chi semina vento, raccoglie tempesta.” Quale gioia sarebbe quella che si basa sul dolore altrui? È il dolore, il risultato di una azione disequanime.
Il venir meno ai compiti filiali, genitoriali, parentali, lavorativi, sociali, umani; il “venir meno”, cioé non usare i “talenti” che ci sono stati affidati;


non fare al meglio ogni azione che ci compete; compierla senza il distacco dai suoi frutti. Lasciare che “altri” paghino, subiscano le conseguenze della nostra sinecura, disattenzione, negligenza, disinteresse, malversazione, mancanza di dignità, mancanza di gratitudine.
L’azione equanime è la modalità del karma yoga, la capacità di rendere ogni azione un vero e proprio rito che raggiunga una tale perfezione di concentrazione, di distacco dai frutti, di presenza e di eccellenza che ci si annulli completamente in essa; l’azione è divenuta sacra, perché l’individualità si è completamente sacrificata in essa. L’azione è sacra perché viene compiuta come un servizio alla famiglia, al lavoro, alla società, all’umanità, alla vita. Il servizio è l’azione che compie ogni singola cellula del corpo umano, ogni forma in questo fenomenico: sacrifica sé stessa per altre forme e in questo sacrificio, ivi trova compimento, metamorfosi evolutiva e nuova vita.


Come ci sono diverse gradazioni nell’Amore, così le troviamo nel servizio; per questo occorre saperlo accettare in tutti i suoi aspetti, nonché prestare secondo la propria nota. Quanto sin qui esposto è già un grande traguardo da raggiungersi, non facile, ma non certo impossibile. Potrebbe anche capitare che ci sia una effettiva difficoltà nel prestare il servizio richiesto, ma la difficoltà non può essere completa; non è possibile vivere nel mondo senza usufruire del servizio altrui; e non è possibile usufruire del servizio altrui senza renderlo. L’apertura necessaria per offrire al mondo il nostro servizio, è la medesima attraverso cui usufruiremo di quanto a noi necessario; se non sapremo aprirla per servire, essa rimarrà serrata dal nostro egoismo.
Per quanto noi possiamo ritenere che un oggetto ci appartenga perché lo abbiamo acquistato e quindi ne abbiamo pagato il valore, quel valore in realtà non paga l’oggetto, quel valore paga il mantenimento di chi ha contribuito affinché l’oggetto ci arrivasse e ne usufruissimo. Paga il percorso dell’oggetto, non certo l’oggetto.

Un oggetto non può essere posseduto da alcuno: può essere usato, può essere consumato, logorato, rotto, riparato e distrutto; ma nessuno lo può possedere, perché nessuno lo può avere per sempre, perché su questo piano manifesto, nulla e nessuno può essere “per sempre”. Quindi, pagando gli oggetti, paghiamo il mantenimento delle capacità di altri esseri (umani per i prodotti degli artigiani, animali per la lana delle pecore o la carne dei vitelli, vegetali per la frutta). Ma queste capacità sono dei talenti, un servizio che essi sono liberi di prestare o non prestare, e noi non possiamo pretenderlo, in quanto anch’esso non ci appartiene; parimenti gli altri non possono imporcelo, perché anche l’acquisto è un servizio.


Il servizio è una qualità che non può essere né pretesa né mercificata, al pari della dignità e della equanimità: tutto questo è la legge del dharma o della condivisione. E questo è un insegnamento che l’Occidente ha imparato dal Mahatma Ghandi, che privò la Gran Bretagna dell’Impero proprio perché l’azione equanime è un servizio che non si può mercificare: essa è come la dignità che la sostiene. Possono esserci gradazioni nel servizio, ma non nell’equanimità: essa o c’è o non c’è. Le gradazioni del servizio sono nel continuo miglioramento, nel rasentare sempre più la perfezione; è una continua implementazione; la perfettibilità diviene la via di minor resistenza.
Per contro, l’eccesso è da evitare; c’è la fase in cui si vive l’istanza salvifica e allora si vorrebbe salvare il mondo e i suoi esseri, c’è anche la fase in cui non ci si sente degni di alcuna azione, tanto meno ci si ritiene in grado di aiutare altri in una qualsivoglia maniera.
Nell’uno e nell’altro caso andrebbe osservato l’altro che chiede, o che si vorrebbe salvare, e l’altro (il nostro io) che vorrebbe o non vorrebbe agire; in questa osservazione, da compiersi nel distacco, dovremmo comprendere chi, di questi “due” altri, è più reale, e seguirne la realtà.
Parimenti, nella medesima situazione, dovremmo saper riconoscere nell’altro (in entrambi questi “altri”) il nostro Ideale e saper incontrare la sua più pressante istanza. L’incontro, la condivisione, consiste nell’offerta disinteressata del servizio. Il servire è il riconoscimento dell’Essere nell’istanza altrui; è il riconoscimento della necessità in quanto tale, non nella sua espressione che può essere più che svariata. La necessità è lo svolgimento di una linea di causalità che si determina nella molteplicità dell’Essere. È quindi la volontà stessa del Sé. Come non servirla, al pari di noi stessi?

 

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Gretz, 16 August 2006
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