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Vie, mete e aspiranti

Bodhananda - Vie, mete e aspiranti

L'attrazione per l'esclusivo (voler differenziarsi anche apparentemente) è una necessità sviluppatasi nell'evoluzione umana che trae origine dalla necessità dell'evidenza che ritroviamo negli animali (ad esempio: il pavone e la sua ruota).

Aspettarsi che l'approccio spirituale si differenzi per le persone che lo perseguono non avrebbe senso, così come non si differenziano le persone che seguono la religione o la filosofia o la scienza.

In ogni campione esaminato troveremo le stesse caratteristiche medie che troviamo nella società da cui provengono le persone. Forse troveremo delle preferenze di predisposizione: gli umanisti per le discipline umane ed i tecnici per le scientifiche; di certo non troveremo distinzioni morali rimarcate come i buoni tutti da una parte e i cattivi dall'altra!

Il cammino spirituale in occidente trae forza da tre correnti culturalmente separate: mondo religioso, mondo filosofico e mondo scientifico; stranamente è il terzo canale a dare meno risorse, proprio perché si ritiene che la spiritualità sia una questione di credenza, fede, opinione.

In un oriente antico, ma anche in un occidente antico e classico, era più difficile distinguere chi, dai tre mondi, accedeva alla spiritualità, perché questa non poggiava sull'inferenza, quanto sulla conoscenza diretta, quell'esperienza cognitiva che troviamo descritta nelle upaniśad e nei pre-socratici.

La religione tradizionale è esperienza: il Divino o le sue volontà sono un'esperienza dell'uomo. Lo stesso per la filosofia e la scienza, quindi quelle tracce che chiamiamo sacre scritture, in ambito tradizionale, sono le trascrizioni delle testimonianze di coloro che hanno esperito il Divino, l'Assoluto, la Conoscenza.

Costoro ci hanno lasciato la testimonianza di quanto sia difficile raggiungere queste esperienze e di come solo pochi vi giungano; non perché occorrano chissà quali poteri o caratteristiche, ma solo perché sono pochi coloro che sono veramente interessati a queste esperienze al punto da metterle al primo posto dei conseguimenti desiderati, per poi eliminare ogni altro desiderio o interesse in favore del più importante: la Conoscenza-Dio-Essere-Assoluto o satcitananda o sanathanadharma.

È l'esperienza più grande cui un essere individuato possa accedere: la dissoluzione dell'individuazione che permette all'essere, riconosciutosi pura Realtà, di riconoscersi identico alla Realtà assoluta.

Quei pochi che decidono che non esiste altra Realtà da conseguire se non quella pura o assoluta, vengono indicati con vari nomi: asceti, ierofanti, aspiranti, etc. Coloro che raggiungono il Reale sono stati indicati come jñāni-conoscitori, bodhisattva, illuminati, realizzati, unti, jivanmukta, etc.

Non necessariamente gli aspiranti sanno di esserlo; qui in occidente, a meno che facciano parte di un Ordine, al più sono soli, vagando alla ricerca di una fonte, di un punto luce, di quel centro che Shankara indica nel saggio realizzato, quel conoscitore che, giunto il momento, possa accompagnarne gli ultimi passi.

Non cercano plauso, pubblico e men che meno discepoli.

"Essere un Maestro? Non si è maestri. Un Maestro è semplicemente la persona a cui si rivolge il discepolo.

È il discepolo a rendere tale il Maestro." (tratto da Dialogo dIstruzione).

I Maestri sono pochi, pochissimi, e ancor meno sono gli aspiranti discepoli qualificati che riescono ad arrivare ai piedi di un Maestro. Sono invece tanti coloro che sono pronti, più o meno consapevolmente, ad indossare i loro panni per l'attrazione, per l'esclusivo (il sentirsi diversi) e per la necessità dell'evidenza (l'apparire diversi). Perché meravigliarsi? Fra coloro che indossano fraudolentemente i panni di Maestro e coloro che non li vorrebbero mai indossare, c'è l'intera umanità.

Solo che è difficile da accettare la necessità di una disciplina del sacro. In Occidente le scuole tradizionali sono scomparse da secoli. Manca addirittura l'idea di cosa sia una disciplina del sacro. Una disciplina che insegni a centrare l'attenzione sulla percezione presente, scremandola sempre più della soggettività, arrivando così a sciogliere l'individuazione dell'essere, affinché questi sia la presenza costante, l'essenza che è e non diviene.

A questa disciplina poi si è costretti ad arrivare, qui la chiamiamo Vedanta, perché all'Advaita (non dualità) non si arriva. Non si arriva con l'erudizione, non si arriva con l'emotività, non si arriva con l'emulazione: tutte pratiche degli imitatori, dei millantatori, ma anche di chi, erroneamente, ha approcciato qualcosa cui non era pronto.

Una disciplina che non dimentica le fasi della vita (asrama), che non dimentica gli scopi della vita (artha), che non dimentica l'uomo per porsi all'inseguimento della mente. Ci si ostina a non voler comprendere la differenza fra Vedanta e Advaita, il primo con i suoi ausili, i suoi yoga per tutti, il secondo "senza secondo", per quei pochissimi realmente predisposti.

L'incomprensione è nata perché qualcuno nonostante le difficoltà è "riuscito" a realizzarsi. Da qui il pensiero che fosse comunque possibile, senza nemmeno per un attimo soffermarsi a pensare che, forse, si era di fronte ad una eccezione.

È mancato quell'insegnamento tradizionale che afferma sì l'uguaglianza fra tutti gli esseri, ma la nega fra gli individui che esistono proprio in ragione delle priorità, fra aspirazioni e desideri.

Se ci facciamo caso, ci è facile distinguere fra chi le pratica e chi le utilizza per altro. Forse è meno facile comprenderlo in prima persona, quando giungiamo a confondere le nostre opinioni con la tradizione stessa.

Eppure è facile comprendere, basta fare una lista delle cose che si vorrebbero (per sé o per altri). Fino a che ci saranno altri desideri oltre all'unico (Dio-Essere-Reale-Conoscenza), occorrerà prima risolverli, quindi inutile immaginare di praticare l'Advaita degli asceti, dei pochi, quella via che gli stessi yogi temono, se si ambisce ad altro.

Questo non significa che bisogna nascondere la meta, anzi, nonostante siano pochi coloro in grado di aspirarvi, è opportuno che tutti l'abbiano chiara. È quello che vediamo nel sanathana dharma, dove sono presenti diversi culti, non in opposizione, dove l'ordine contempla al suo interno l'intera molteplicità.

La vera via non è certo l'Advaita che, non essendo percorribile, non è una via. La via è il Vedanta, per mezzo dei suoi yoga, le sue vie, che poi sono le stesse in ogni dove. L'unico vero problema è che occorre averne le chiavi, occorre avere accesso a queste vie e l'accesso è possibile se e solo se (a parte le solite eccezioni) si ha a che fare con chi le abbia già percorse o si trovi fermamente stabilizzato nella meta finale.

Quale è il compito di un aspirante, vero o presunto, che sia?
Testimoniare la propria esperienza, rendendola sempre più libera da ogni opinare, da ogni inferenza. Una testimonianza sincera, che sappia mostrare il periglio, le difficoltà, gli abissi interiori in cui occorre discendere, senza certo usare quest'esperienza come il ragno usa la sua ragnatela. Occorre mostrare le difficoltà per dissuadere chi non è adatto, nonostante le sue idee. Una dissuasione schietta che mostri le vie a chi necessiti di calpestare un terreno sotto i piedi.

Questo è sempre avvenuto nelle scuole tradizionali, a partire da Pitagora. Dove tutto avveniva per gradi e aveva il suo tempo.

[brano tratto da Ml Vedanta - Sai Baba 29 gennaio 2006]

 

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