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Diario di uno jnani

Bodhananda, dialogo tratto dalla mailing list Vedanta Sai Baba 4-11 febbraio 2007

 

R. Torniamo a te, che lavori sull'esperienza...

D. Esperienza, esperire, un soggetto che esperisce.
Il soggetto un giorno, e viene sempre quel giorno, si interroga sulle classiche domande esistenziali: chi sono, dove sono, donde vengo, dove vado etc.
Tra le tante altre possibilità di apprendimento legge e scopre che altri, prima di lui, se le sono parimenti poste, additando in risposta percorsi diversi.
Tra questi percorsi, vuoi per carattere, temperamento, qualifiche o quant'altro, uno viene sentito particolarmente vicino, per me è il "conosci te stesso".
Il soggetto ha uno smisurato amore per il vero, vuole conoscere, conoscere se stesso e facendo ciò intuisce che conoscerà l'universo intero, come del resto è attestato sulla porta di Delfi. L'intuizione ha però vita breve, viene subito bruciata dall'evidente constatazione che quel "te stesso" è quanto di più incostante e aleatorio ci sia. Scopre altresì quasi subito, con altrettanta amarezza, che la massima: "Si diventa ciò che si pensa" è persino più attuale e peggiore; si è ciò che si pensa (essere). A questo punto il cammino sembra assumere tutte le sembianze di un vicolo cieco. Se ciò che penso sono, come posso conoscermi visto che lo strumento usato è lo stesso pensiero-conoscitivo? Come può l'occhio vedere se stesso? Aristotele sosteneva che conoscere è essere; poneva quindi un'identità, un'esseità tra il conoscere e l'essere. La filosofia greca in relazione al conoscere, parla di due tipi di conoscenza: la dianoia ed il nous.  La prima, la dianoia è conoscere mediato, siamo quindi nella sfera del percepire-esperire, mediato dalla logica, dalla razionalità, dal pensiero stesso sia pure nelle sue forme più elevate, il secondo invece, il nous, è conoscere immediato, diretto, un atto di identità-esseità, quindi il conoscere per come lo definiva Aristotele. Tornando a noi, al nostro soggetto iniziale, fermo restando l'apporto occasionale dell'intuizione noetica, sempre benvenuta, ma difficilmente gestibile, al pensiero\pensare, esperienza\esperire cosa resta se la via diretta di conoscenza è impraticabile ? Ovviamente quella indiretta!               Anche qui naturalmente fu la scoperta dell'acqua calda. Ben prima di lui e delle sue domande altri (vogliamo cominciare a chiamarla Tradizione?) si erano parimenti posti le stesse domande ed avevano additato delle direzioni-vie. Avevano quindi scoperto che si può non avere accesso a conoscere "cosa si è" (via diretta), ma è data la possibilità di conoscere "cosa non si è" (via indiretta). Le letture di Nisargadatta e più tradizionalmente il neti-neti jnani affermano questa possibilità. L'jnana e con esso tutta la tradizione vedanta sostiene che è dato all'interrogante conoscere cosa non è (reale), neti-neti, non questo-non questo. Non puoi conoscere cosa sei, ma puoi conoscere cosa non sei. Questa è la via jnana, conoscere ciò che non sei per essere ciò che sei. Le indicazioni di cui sopra portano necessariamente il soggetto ad una seconda serie di domande importanti: “Posso percepire\esperire ciò che non-sono, ma ciò che sono potrò mai percepirlo\esperirlo? Ossia il "ciò che sono" è forse un quid esperibile\percepibile ? E da chi poi? Quando Aristotele afferma che conoscere è essere, intende forse che l'esseità, l'identità è un atto di percezione\esperienza? Insomma l'essere è esperienza\percezione oppure no? A mio vedere ad oggi la risposta è no.

R. Invece è sì.
Nell'esistenza, nel sentirsi esistenti, sia come jiva che come atman (attenzione andiamo sempre in una testimonianza border line) c'è comunque una definizione/esistenza noetica/universale.
L'esperienza dell'essere è distinta dall'esperienza dell'esistere, nonostante siano i due stati identici.
Ci si vive jiva nell’individuazione. Ci si vive atman e lo crediamo essere perché siamo essere. In realtà nell'essere c'è ancora una dualità, perché è l'esistenza che noi sentiamo e ci fa dire che siamo. E’ quell'esistere che chiamiamo erroneamente essere.

D. Comprendo questa erroneità, questo confondere l'esistere con l'essere.
Di questa latente dualità e della relativa paura di risolverla e con essa risolvere anche colui che esiste se ne era parlato tempo addietro...

R. Quanto chiamiamo "essere", non è in realtà l'Essere.
Quanto chiamiamo essere è l'atman che, nell'ambito del nostro essere/esistere, è esistenza.
Tranne pochi sthitaprajna, pochi lo hanno espresso, ma solo in ambito puramente non duale.
Tutti solitamente indicano l'Atman come satcitananda, lo stato finale, e concettualizzano uno stato quarto: il Brahman definendolo identico.
Nella realtà il passaggio è lungo, leggendo la vita di Ramana vediamo come per lui siano occorsi molti anni.
Leggendo Ramakrishna vediamo come gli sia stato chiesto da Isvara di rinunciare a questo stato per ridiscendere nella bhakti, per amore del mondo.
Altri si chiamano fuori ed entrano in altri stati, in cui si rinuncia al corpo fisico e si rimane negli altri corpi... non ci sono molte testimonianze su questo perché è raro che se ne parli, che se ne testimoni.

D. Eppure mi pare passo obbligato, anzi direi "il passo"; non è forse questo il varco tra i piccoli e grandi misteri ?
Tra l'universale e l'assoluto ?

R. La realizzazione dell’Atman, dell'essere, è ancora una dualità, perché si realizza l'Uno aritmetico.
Io/Sé mi trovo esistente in ciò che sono.
Ma questa esistenza la "vivo" perché avverto l'esistenza della non esistenza... Sono perché sono.
In questo essere quasi definisco il "non essere", che in realtà non esiste.
Quindi potremmo dirla una sorta di percezione, di auto percezione.
E' solo dopo... esaurito quest'ultimo velo, che l'esistenza diviene "Essere in sé", il Brahman, a quel punto si realizza l'identità fra Atman e Brahman. Ed è quello il momento in cui si coglie l'Essere come essere e non più come essenza.

D. Capisco bene cosa vuoi dire con quel: "Sono perché sono".
Ne abbiamo parlato a volte del non-essere, poi sempre tralasciato. Meritava più attenzione, ma forse questa sorge solo al momento giusto, come tutto il resto.
L'esistere richiede il non-esistere per sussistere. La vita, la morte..
Se non vi fosse morte come potremmo dire di vivere? Ciò che nasce...muore...ciò che muore...nasce. Ciò che viene in esistenza è destinato a venir poi meno all'esistenza, si può definire un'esistere in funzione di un non-esistere, o un'essere in funzione di un non-essere.
Si parlava in un altro dialogo di Dio e assenza di Dio, stesso discorso. Si può sostenere l'esistere di un Dio se parimenti ne ipotizzi la sua possibile assenza. Un po' come quel vecchio discorso dell'ateo che, proprio per il fatto che nega (dio), in un certo senso ne sostiene parimenti l'esistere o la possibilità di esistere.
Negazione ed affermazione sono relazionali e non assolute...intrinsecamente relative.
Il limite intrinseco del percepire\esperire è dato proprio dalla coesistenza\correlazione del soggetto e dell'oggetto.
L'identità\esseità di cui si parla è fusione\sintesi del soggetto-oggetto in unità, l'uno-essere.
Quindi si dirà: "Ma allora a che pro il neti neti, a che pro il conoscere ciò che non si è, se ciò che si è lo si è per tutt'altra strada del conoscere\percepire\esperire?
Perché mai uno dovrebbe percorrere l'jnana se poi l'identità è per tutt'altra strada? Domande lecite quanto cruciali...

R. Perché l'adesione ai veicoli va esaurita su tutti i veicoli.
Quando Gaudapada, Shankara, Raphael, Ramakrishna testimoniano nella Tradizione, essi testimoniano nella non dualità, tutti i piani di manifestazione dell'essere, dalla via dell'azione, a quella del cuore, a quella della conoscenza.
Ramakrishna, dopo essersi prestato alla via bhakti e alla via tantrica, si presta, per qualche giorno, a quella jnana. Chiaramente, parlando di questi esseri, cade ogni possibilità di confronto, ma non del tutto.
Costoro li possiamo considerare Avatara perché il loro discendere è una discesa a nostro uso e consumo e quello che vediamo come sadhana, come percorso, è un semplice ripristino della loro posizione coscienziale, pura, eterna, totale.
E' commovente come si prestino a farsi istruire, a rendersi discepoli, pur nella loro totalità. Per amore si prestano ad essere uomini. Perché se non lo fossero, noi non sapremmo che farcene, non ci sarebbero porta, accesso, via, canale.
Se il Divino/Conoscenza non si facesse testimonianza/logos/uomo, l'umanità non potrebbe accedervi.

D. Il vedanta, oltre al neti-neti, indica anche l'iti-iti.
Iti-iti vuol dire è questo - è questo.
Chiariamo subito che l'iti-iti non è un cammino, nel senso che non si esplica, a differenza del neti-neti, nel divenire. L'iti-iti è quell'esseità-identità-ipseità di cui si parlava prima, quindi un atto immediato, seppur parziale e oscillatorio. Non dipende da nulla se non da se stesso, anche se, e qui sembra esserci contraddizione, è esplicitato dal neti neti.
Ovvero, e qui comincio a navigare a vista, il neti-neti esplica, pone in evidenza, manifesta l'iti-iti; togliendo e scartando ciò che non è non può che restare ciò che è.
Quando dico che esplica, pone in evidenza, manifesta, in effetti uso termini impropri, non ne trovo di migliori, cerco di spiegarmi con questo non-esempio.
Se vado cercando una pallina (rossa) tra mille blu a forza di scartare le blu, non può che rimanere la rossa, seppure io ne sconosca il colore. So solo che le blu non sono ciò che cerco...ciò che rimane altro dalle blu deve essere ciò che cerco.

R. Anche. Come hai esperito, il neti neti man mano si esplica su tutto. Lo stesso per l'iti iti. Ed è qui il terribile paradosso. Non solo l'iti iti può aiutarti a riconoscere la pallina rossa, ma serve pure a ripristinare alla coscienza empirica, al manas, tutte le palline blu che sono state scartate. E' la ridiscesa, il tornar giù, quello che completa la realizzazione, quello che veramente mostra al mondo lo sthitaprajna quale Ramakrishna, Shankara, Caitanya... Altrimenti, assiso là sulla pallina rossa, non sarai di aiuto a tutti coloro che vagheranno nel mondo con la loro pallina blu che non sanno risolvere; e tu, tu che le hai già conosciute con il neti neti, e reintegrate con l'iti iti, solo tu potrai aiutarli. O pensi veramente che ti sei incarnato per realizzarti?
Dovresti aver già visto che non esiste alcuna realizzazione possibile, allora? Che ci stai a fare qui, su questo piano? A goderti la vita? Non mi sembra che tu l'abbia fatto, anzi... Ti sei predisposto fior fior di esperienze, sei sceso nell'umano, nei panni di un capofamiglia, hai esplorato l'essere figlio, genitore e marito... Ti sei fatto carico di tante esperienze... per te, solo per te?

D. Per battuta vorrei rispondere che ne facevo volentieri a meno, ma è ovviamente una battuta egoica.
L'esempio della pallina seppur logico, non è calzante all'iti-iti. Ciò che vado cercando, ciò che sono, non è una pallina (oggetto) rossa o meno che sia  equilvalente alle altre palline blu che scarto. Se  fosse così, ciò che sono sarebbe pari a ciò che non sono (oggetti-palline). Una semplice negazione, relazionale quanto duale.Evidentemente non è così...e allora com'è ? Diciamo che solo recentemente ho cominciato a dare un nome ed un volto a quell'iti-iti; amore. Vogliamo chiamarla via del cuore, la via del cuore per uno jnani incallito! Iti-iti, è questo, è questo! Giunti a questo punto siamo all'insegna dei "lavori in corso ". Vorrei solo aggiungere una postilla a questo breve diario, la seguente: come tutti i farmaci, anche il neti - neti, ha un bugiardino in cui sono descritti alcuni effetti collaterali, uno dei quali è il seguente (ne parlo per chiedere se altri si riconoscono in tale descrizione...): applicando tale metodo, sostanzialmente si fa pulizia del "credo".Il credersi, il credere, viene messo a nudo, quasi sempre bruciato-estinto o comunque fortemente ridimensionato. L'effetto collaterale è che ci si ritrova senza schermi protettivi di sorta. Uso il termine “schermi” per indicare tutte le protezioni psicologiche che costruiamo nella nostra vita a supporto di ciò che crediamo di essere. Finché queste stanno in piedi, l'io è in qualche modo difeso dagli attacchi esterni, se queste vengono meno o calano di molto, l'io subisce, indifeso, ogni possibile attacco esterno senza poter arginare nulla. Parlo di tutto e di nulla, parlo per esempio anche di un semplice film violento in televisione. Non riesco più a guardare un film violento, mi dà fastidio, oltre il razionale senso comune di fastidio. C'è stato un momento in cui guardavo solo cartoni animati e documentari naturalistici, stop! Per non dire tutto il resto. La sensibilità si acuisce enormemente, tutto è nervo scoperto, ma non solo in negativo, parlo anche del positivo. Venendo meno un credersi, si è permeabili ad ogni onda, o meglio ogni cosa, dalle più negative alle più positive sono parimenti viste come possibili, praticabili, scusabili direi. Anche il giudizio è diverso, viene meno anche quello, si fatica a darne uno, chi è senza peccato scagli la prima pietra...Il problema è che vivendo in una società e non in un eremo protetto dal mondo, quest'esposizione a tutto e tutti, ai sentimenti-emozioni-credo di tutto e tutti diventa alquanto difficile da sostenere.

R. Pensa che alcuni chiamano questa sensibilità: "siddhi" e sono così matti da fare pratiche e pratiche per ottenerla. E' anche la difficoltà nello scrivere... ogni parola viene letta/sentita in tutte le sue infinite variabili per ogni mente che le leggerà, ogni frase viene ponderata per tutte le coscienze che mai la leggeranno.
E' un ampliamento della coscienza che necessita tempo per essere stabilizzato... ogni singolo chiodo diviene montagna...
E’ la metafora del letto del fachiro: a questo punto ogni parola, ogni evento viene visto come occasione per divenire chiodo.
Diviene una crocifissione continua, ogni minima traccia di polvere di contenuti, ogni minima impurità della corda bruciata deve essere vagliata, purificata; diviene difficile rapportarsi...
Osserva questa persona che tu conosci, al di là dei comportamenti, tu sai che questa persona ha una discreta intelligenza, e sai anche che questa intelligenza se avesse voluto, avrebbe potuto celare, nascondere, certi comportamenti e invece sai che c'è sempre stato "pane al pane e vino al vino", sino all'essere sgradevole.
Anche per te pare che sia così. A volte la mente trattiene ancora una macula, una diffidenza ed è difficile accettare certe cose, sia in sé stessi che in chi ci sta vicino.
Ci si domanda: “Perché io? Perché proprio io?"
Domande che alcuni si sono posti. Con dolore, con sofferenza... è così bello fare i seguaci, nel duale, amare, vivendosi in unico e diretto flusso.

D. Il perché io, perché proprio io, ogni tanto sorge. Per fortuna non spesso, anzi di rado direi.
Per altrettanta fortuna non essendo nemmeno un cieco seguace, ma di quelli invece con la riserva sospensoria del giudizio (ovvero quando non comprendo qualcosa, specialmente se la fonte è "attendibile" pongo in sospeso ogni giudizio in attesa di mie ulteriori e più ampie comprensioni...) riesco il più delle volte, evidentemente non sempre però, a non crocifiggere, come del resto nemmeno osannare, niente e nessuno.
Dove arrivo, arrivo e dove non arrivo, arriverò ( se e forse ...)
Nel senso che comunque mi posso solo occupare\attenzionare\interessare di ciò che, in questo momento e non in proiezioni future che non mi appartengono, è sotto i riflettori della mia coscienza attuale.
Il solito vecchio e caro: "Si comincia sempre e comunque da dove si è..."
Qualsiasi "comincio", fosse anche dopo cent'anni di sadhana, sempre si comincia da dove si è, per ogni mattina che sorge il sole, si comincia da dove si è.
Quello mi è dato attenzionare, quello mi è dato risolvere, quello mi è dato comprendere, se riesco, se posso, se....

R. Passerà anche questo tuo stato. Adesso hai le spalle, la maturità e l'esperienza anagrafica per reggerlo.
Sono stati che si sono vissuti da ragazzo, nell'adolescenza, furono proprio queste sensibilità che spinsero all'introspezione, perché non si era in grado di gestire tutta quella mole di informazioni che arrivavano ai veicoli non appena c'era troppa gente.
Adesso dovresti essere preparato, non sarà facile, ma non sarà così doloroso come sarebbe potuto essere.
Come informazione aggiuntiva, considera anche che il tuo percorso si è reso necessario, altrimenti questa fase percettiva sarebbe terribile (come lo sarebbe senza amore) perché avere di fronte un ente, sentire i suoi piani, tutti, compresi quelli più profondi e oscuri, è terribile se tu per primo non li hai già esplorati, svuotati, rettificati.

D. In un certo senso c'è una giustizia divina in tutto ciò o come diceva quel tale: “Ad ogni giorno la sua pena”; e cioè che questa sensibilità, empatia o come la si voglia chiamare è direttamente proporzionale a ciò che, come tu stesso dicevi, ognuno ha eventualmente esplorato, risolto, integrato etc. Ovvero ciò che ancora non è stato esplorato, risolto, integrato per fortuna resta fuori ed è ancora tanto....

 


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