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Il vegliardo in cima alla montagna

Bodhananda, dialoghi tratti da ml Advaita-Vedanta 5 marzo - 18 marzo 2002.

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D. Hai scritto: “Ieri sera, tornavo in macchina dopo una giornata passata non nel solito ufficio, ma presso uno stabilimento di produzione. Durante i 40 e oltre minuti di viaggio, ci sono state diverse telefonate di lavoro, in diverse lingue e tutte di diverso argomento... ad un certo momento ho fermato la macchina per il troppo ridere che era scoppiato alla considerazione che questa vita sembra chiamare sempre più per un coinvolgimento mondano che per uno spirituale.
A proposito di questo, ho notato che i morti a se stessi - tanto per cambiare il termine "realizzati", che pare abbia saturato molti - sembrano chiamati dalla vita ancor più da un'intensa attività (iti-iti).

R. Non saprei dirti a tal riguardo. Mi piace di più l'idea del vegliardo in cima alla montagna.

D. Questo mi porta a pensare che, svelato un certo stato, non vi sia in realtà alcuna differenza tra mondano e spirituale, l'uno è compenetrato dall'altro.

R. Per il sottoscritto la non differenza è a prescindere da chissà quale stato.
Una volta comprese le verità del Vedanta, cade ogni separazione e distinzione. La vita stessa è il nostro cammino, né potrebbero essercene altri.
Non si può iniziare da altrove. Di solito si inizia da dove si è.

D. Hai scritto: “Durante tutti questi eventi era il corpo ad agire, la mente ad operare... ma tutti questi non sono certo me. E anche quando scrivo ho difficoltà ad usare la prima persona, perchè tutto questo che avviene non è certo causato da un "me" che se ne possa dire artefice.
Eppure l'azione viene svolta e modifica la realtà, su questo piano; che il piano assoluto non ne sia toccato lo comprendo solo in teoria, in questo momento non ho gli strumenti coscienti per poterlo verificare.

R: Non saprei certo dirti del piano assoluto, solo che le azioni si svolgono a prescindere del fatto di essere l'artefice o meno dell'azione. La vita riempie i vuoti, e nel distacco non puoi certo crederti artefice di un’azione.

D. La difficoltà per me è: “Mi manifesto su questo piano con questi occhi, questi sensi, questa benedetta mente, generatrice di tante domande e mi viene detto che è tutto apparente, è Maya!".

R. Apparente? Diciamo che ha una realtà non assoluta, ma è pur sempre una manifestazione dell'essere al pari del soggetto che percepisce.

D. Ma dietro questi occhi che vedono, dicono anche esserci l'Essere, così pure dietro questa mente.
E ciò mi torna, non ho ragione di dubitarne, perché non vedo come la materia inerte possa muoversi da sola, senza essere permeata da un impulso vitale, dalla Coscienza di cui abbiamo parlato . Perché dunque emerge la necessità di negare l'azione che compiamo, di dire non-"io"? Che il "mio" e l'io non sono, ma sono percezioni sottili talmente difficili da realizzare in modo costante che è quasi più "naturale" pensare a qualcuno che muove le fila, anche se è ugualmente terribile.

R. Non sorge la necessità di negare, ma se qualcuno ti interroga presupponendo la tua azione, se sei "distratto" può capitare di avere problemi nella coordinazione del linguaggio.

D. La nostra intima natura, Lei, non è qualcosa o qualcuno, è non-agente, ma irradia l'azione stessa, la manifestazione... La Verità dicono essere questa, il guaio è che essa è tale soltanto per un livello di cui non so nulla, però; assolutamente inconcepibile per la mente ordinaria.

R. Non entro in merito.

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D. Per darmi un po’ di pace, talvolta ho provato a immaginare la risoluzione delle nostre "idee" su questo piano, come se si prendesse un ascensore. Il piano terra esiste nel suo piano-spazio, ma partiti da terra, essendoci semplicemente spostati di sopra, siamo nella condizione di contemplare la visione dell'intero palazzo: il piano terreno e tutti gli altri piani esistono nel loro spazio, l'ultimo piano dà sulla terrazza aperta al cielo. Una volta presa visione, possiamo anche scendere. Può essere così, per analogia povera, povera?

R. Come metafora di quanto chiamano savikalpa samadhi non è male.

D. Hai scritto: “Una volta di fronte ad un opificio, di cui avevo curato la progettazione e la direzione dei lavori, (e dico io, perché la costruzione delle frasi necessita un soggetto, ed evitarlo le articolerebbe fin troppo), mi chiesero se ne fossi orgoglioso. La risposta fu: "No, perché mai dovrei essere orgoglioso di qualcosa che andava fatto?".
Ricollegandomi a ciò che dici riguardo la dicotomia fra bene e male, nobile non nobile, mi sembra tu attribuisca un valore "meno" all'ipotesi d'essere orgoglioso-soddisfatto del lavoro svolto. Davanti a Dio, se tu fossi orgoglioso di quel lavoro, ma con l'attitudine pura del bambino, cosa potrebbe cambiare? La sottile differenza di cui parliamo non è proprio il caricare gli eventi d'immaginario?

R. Può darsi. E sarebbe senz'altro vero se ci fosse una preferenza. Il problema era che a quei tempi si era più giovani e c'era ancora una certa difficoltà nel parametrarsi con questo piano.
A quei tempi era come prendere una bastonata in testa... di colpo venivi messo di fronte a qualcosa che non c'era e lo stupore che sorgeva veniva espresso. Non era l'assenza di orgoglio da rimarcare, ma l'assenza di qualsiasi movimento. In realtà avveniva la stessa cosa anche se qualcuno rimproverava o incensava.
Di colpo si veniva messi di fronte a qualcosa di innaturale, ma che gli altri vedevano perfettamente naturale e si stupivano che questa naturalità non ci fosse.
Vedi cara sorella, si riportano certi aspetti perché ogni tanto leggendo alcune mail, sorge il sospetto che si possa prendere Bodhananda per qualcosa di diverso da ciò che è: un aspirante (non un realizzando come dice un fratello) nella Tradizione non duale.
Dal suo punto di vista (di questo ente), non può essere né un realizzando né un realizzato perché per la stessa Tradizione non esiste un soggetto che debba realizzare altro da sé.
È questo il punto con cui si stanno confrontando alcuni fratelli. Il concetto di realizzazione esiste negli altri cammini, ma una volta vissuta la propria non dualità, mi spiegate chi dovrebbe realizzare cosa?
Sono i vari cammini yoga che si pongono con una meta, un cammino e un mutamento.
Un aspirante advaitin riconosce semplicemente la natura non permanente dell'universo e si contenta di risiedere nella natura permanente, quella dell'essere identica alla Realtà Assoluta. Ma questo è proprio di noi tutti. Siamo tutti così, nessuno escluso. Solo che ci piace giochicchiare con la manifestazione. Tanto poi, comunque, ci pensano i mal di denti a ricordarci che esiste una manifestazione.

D. Riconoscere la vita come parte di Tutto e sciogliere la paranoia della passività tamasica, fortissima per quanto mi riguarda, è una grazia. Inutile forzarsi a fare gli indifferenti e se distacco deve essere, probabilmente si paleserà da solo.

R. Non può non manifestarsi se ci si vive con onestà.

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D. Ad alcuni fratelli della lista ho offerto per le loro sofferenze fisiche o spirituali i simboli di guarigione a distanza a cui sono stata iniziata dal mio precedente Maestro. Non so se questo è lontano dalla via senza sostegni, ma viene spontaneo offrire dal momento che per me stessa è sempre di ottimo aiuto. La tecnica vibra tirando fuori ciò che evidentemente preme per emergere, in quanto purificazione su più piani.
Dal momento che finora ti sei astenuto dal dire qualcosa in merito, sono io che ti prego per un tuo contributo. Ultimamente mi sono chiesta se le cosiddette siddhi sono un altro appoggio da lasciarsi alle spalle.

R. Uno dei libri che abbiamo pubblicato come Pitagorici aveva un capitolo proprio dedicato a questo argomento.
Chiaramente ognuno ha le proprie esperienze, però sia le esperienze di questa vita, sia quanto letto o appreso dalla tradizione mostrano come le siddhi siano una cosa fastidiosa quando si presentano in concomitanza di una individualità ancora potente.
La tentazione di indirizzarle è veramente forte. Da ragazzo si presentarono parecchie siddhi (sembrava di vivere dentro un romanzetto di yogi e affini) e furono decisamente un grosso fastidio, lo furono al punto che si lasciò cadere quel particolare percorso interiore dato che portava solo ad un ulteriore coinvolgimento col fenomenico.
È anche da dire che a quei tempi non c'era nemmeno l'età adeguata per avere almeno una sorta di maturità anagrafica.
Il punto è fra i più delicati. Sono molti a vedere nelle siddhi quasi uno scopo del cammino.
Vedi, le siddhi vanno considerate nè più meno come le altre azioni. A livello personale non le si considera nemmeno. O meglio... il sottoscritto non se ne accorge o vede in certi accadimenti delle semplici coincidenze, da qui a convincere gli altri però ce ne passa.
Ogni tanto salta fuori qualcuno che imputa colpe o meriti al sottoscritto che ovviamente cade dalle nuvole. Diciamo che può capitare che intorno ad un aspirante dedito alla tradizione possano capitare eventi, da taluni visti come improbabili o imprevisti.
Si tratta al più della Tradizione stessa che opera. Per quanto riguarda quelli che taluni vedono come esempi di chiaroveggenza, si tratta di semplice sincronicità della vita.

D. So che sei influenzato, se ritieni che non ci siano "controindicazioni" e nel caso tu lo voglia sarò lieta di essere al servizio.

R. Cara sorella, ti ringrazio dell'offerta, già è difficile convincere il sottoscritto a curare il corpo (che senso ha curare una malattia?) e spesso i medicinali rimangono dimentichi sul comodino, ci mancherebbe che anche altri si debbano dedicare a curare questo corpo. Ci sono già abbastanza persone che si sentono delegate a ciò. Meglio lasciar stare e poi fino ad adesso ho trovato interessanti i vari malanni. Osservare come li si affronta è sempre fonte di nuove apprensioni.
Per quanto riguarda l'uso delle tue siddhi nei confronti di altri, sta a te riuscire a farlo nel distacco.

Un abbraccio.


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