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Sull'abbandono

D. A me hanno detto di essere passivo, di abbandonarmi al guru. Mi sto ponendo in una situazione sbagliata?

R. Bisogna dire sinceramente che non c'è cosa peggiore dell'abbandono prematuro. Spesso si vuole attuare una condizione che è molto avanzata. Si vuole abbracciare il Divino, abbandonandosi prima di partire.

Un'ascesi è divisa in due fasi, l'una è di ordine attivo e l'altra più che passiva è, diremo, di ricettività, di attesa cosciente, di disponibilità.

L'opera di trasformazione, di conquista, di controllo, ecc., è di ordine attivo, solare; quando l'io viene posto nel silenzio, allora l'individuo, come tale, non può fare più niente; è l'universale che assorbe il particolare, è la luce suprema che è posta in condizione di riassorbire il riflesso, è l'Essere in sé che risolve completamente il suo raggio diffusore.

La ragione umana, la razionalità empirica può avere una sua relativa validità solo nell'ordine individuato, per cui non può afferrare l'Essere.

Se incominciamo ad abbandonarci prima di aver compiuto l'opera di soluzione dell'io, non facciamo altro che abbandonarci al mondo intermedio, quello psichico, delle ombre, dei fantasmi, della stessa medianità. Sotto questa prospettiva si diventa oggetti passivi di qualche entità, di qualche idolo, di qualche potere psichico.

L'abbandono non è una cosa facile, per quanto possa sembrarlo; anzi, è l'ultimo passo che una coscienza - maturata al fuoco della purificazione - possa fare.

Quando la mente ha raggiunto il suo estremo limite di “impossibilità” a cercare, desiderare e possedere, quando ogni sforzo è cessato, allora, come frutto maturo, essa si abbandona senza alcuna resistenza, senza tergiversazioni, senza rimpianti. In questo abbandono c'è “isolamento” (kaivalya) da ciò che precede e da ciò che segue; ciò implica che la coscienza, essendosi ripiegata su se stessa, ha cessato di avere prospettive, ha cessato di muoversi.

Molti sono attaccati allo stesso Insegnamento, ai concetti metafisici, all'elaborazione della Dottrina; curano meticolosamente di essere attenti alle idee che devono esprimere, e così via. Ma viene un giorno - se sono arrivati veramente a maturità - in cui devono abbandonare tutta la terminologia dottrinaria e cercare di capire, per via diretta, la verità che l'idea incorpora. Quando si passa dal concetto alla sperimentazione, le formule non servono più e se non si è pronti a eliminare questi sostegni, la mente vi si aggrappa disperatamente, procrastinando quell'indispensabile abbandono che deve verificarsi quando si vuole praticamente, e non teoricamente, valicare l'abisso.

In verità se molti guru, soprattutto orientali, insistono nel dire di non usare la mente, di uccidere la mente, fino a portare alcuni discepoli all'idiozia, è perché avvertono il pericolo della mente la quale può operare nel campo dell'ascesi come opera nel campo mondano. Da qui il cambiamento radicale di rotta. Bisogna fare comunque attenzione: ogni cosa deve trovare il suo giusto posto; la via di mezzo è quella della saggezza.

Occorre riconoscere che la mente può crearsi il suo idolo-divinità, il suo idolo-qualità di bontà, di fratellanza, ecc., mentre la coscienza rimane immutata. Ci sono persone che adorano la proiezione dell'Amore, della Conoscenza, della Volontà mentre la loro coscienza non è né amorevole, né assetata di conoscenza, né volitiva.

Fino a quando creiamo l'altro, creiamo l'idolo e l'alienazione. Solo nell'Uno-senza-secondo vi è realtà ed espressione di realtà. Tu sei Quello, tu sei l'Essere, ma, finché non si realizza questo stato, bisogna fare molta attenzione perché si possono creare dei sostituti, dei surrogati che, senza dubbio, ritardano la presa di consapevolezza di sé in quanto puro Essere.

L'erudizione è un altro grande idolo che ha molti adoratori e fedeli. L'erudito pensa di essere mentre non è; ed è difficile farglielo comprendere perché generalmente è orgoglioso, critico, con la mente spesso iperstimolata; ha in mano un potere oggettivo psichico a cui non vuole rinunciare. L'erudizione dà sicurezza all'io relativo e limitato.

D. Mi chiedo: in che modo l'abbandono ad Isvara può rappresentare una via di ritorno se viene a mancare la consapevolezza del conoscere?

R. Forse lei era assente; abbiamo già risposto a questa domanda. Cercheremo comunque di completare il quadro che abbiamo dato precedentemente. L'abbandono è duplice; ci si può abbandonare al mondo del divenire e a quello dell'Essere.

Se ci si abbandona al mondo del divenire, si segue la linea di minor resistenza, non si devono avere inibizioni psicologiche, ci si tuffa nella vita formale (da qui le diverse psicologie che cercano di liberare i vari processi istintuali); si nasce, si cresce, si ama, si odia, ci si accoppia, si fa dello sport, della politica, della beneficenza, ecc.; in altri termini, ci si abbandona al mondo dell'istinto, del sentimento e dell'immaginazione. Più che vivere, ci si lascia vivere; più che pensare e programmare, si è pensati. La filosofia esistenzialista, se non erro, mira a questo; ha un tale atteggiamento. Se il divenire fosse la realtà assoluta, questo atteggiamento sarebbe il più saggio, oltre ad essere la fonte della beatitudine. Ma poiché il divenire formale non è la realtà assoluta, allora donarsi ad esso significa vivere sotto l'imperio della relatività, significa abbandonarsi al mondo della necessità, e la necessità è costrizione, è conflitto, prima o poi. Diremo che il divenire non porta all'Essere. La realizzazione non è questione di evoluzione temporale.

Se invece l'abbandono è nei riguardi dell'Essere, allora le cose cambiano. Alla linea di minor resistenza si sostituisce quella di maggior resistenza, all'abbandono al desiderio-istinto, ecc., si sostituisce l'abbandono all'assenza di desiderio.

D. Questa però è una via di sacrificio, non di abbandono gioioso. L'abbandono ad Iśvara o a Śiva è invece motivato da letizia.

R. Allora dobbiamo dire che c'è gioia e letizia laddove c'è amore. Se si ama Śiva più di se stessi (come individualità), l'io muore dolcemente. Un cuore ardente e appassionato, un cuore traboccante d'amore è là dove sta l'Amato. Se riuscite ad amare l'Essere più di voi stessi, con Esso vi unirete fino ad essere Unità.

Sotto la legge dell'amore ogni morte è vita, ogni olocausto è conquista, ogni atto o gesto è donazione. Quando ci si unisce all'Amato, che è di là dal contingente, il divenire sparisce completamente, perde consistenza, valore, significato, diremo che non lo si vede neanche. Questo è il vero concetto di “Sacrificio”. Il Cantico dei Cantici può insegnare qualcosa.

Certo, parliamo di amore consapevole, intelligente, comprensivo, non di amore cieco, sordo, che ottunde anziché aprire la mente e lo stesso cuore. Nella maggior parte dei casi l'amore è ottuso, inintelligente perché è amore di sé.

L'individualità ama se stessa e negli altri vede solo l'oggetto del suo comportamento, della sua compensazione, del suo godimento; da qui l'asservimento dell'oggetto, la proprietà dell'oggetto. L'io è un mostro di avidità, e a volte si presenta col volto di angelo per attrarre la vittima con maggior facilità.

Dunque, rispondendo alla domanda del nostro amico, diremo che se nell'abbandono non ci sono né amore né giusta conoscenza dell'Amato, l'abbandono può essere pericoloso. Sul piano dell'Amore occorre purificare il sentimento; sul piano della Conoscenza occorre purificare la mente; sul piano della Volontà occorre purificare il desiderio.

Se non ci sono un'adeguata purificazione e un'intelligente sadhana, nella sfera della mente si possono avere giuoco concettuale e sofismo filosofico; in quella del sentimento, misticismo visionario e fanatismo emotivo, e in quella della volontà, atteggiamento autoaffermativo, esclusivista e distruttore.

D. Dal momento che l'individualità si esprime in modo triplice, non può usare tutti e tre i suoi aspetti espressivi?

R. Sì, certo. Diremo che non si è mai su una sola linea. Ma può avvenire che l'istanza originaria che determina l'evento parta da uno dei tre aspetti: l'amore coinvolge la conoscenza e la volontà, oppure la conoscenza coinvolge l'amore e la volontà, e così via. I tre aspetti non sono scissi, la stessa individualità non è a scompartimenti stagni; anzi, possiamo affermare che una conoscenza che non porti in sé l'amore difetta di qualcosa. La conoscenza più l'amore danno la saggezza; e la saggezza, caratterizzata dalla volontà, passa dall'astrattezza alla concretezza, dalla potenza all'atto.

Tratto da La Filosofia dell’Essere, Raphael, Ed Asram Vidya pag 176-179 , 196-199

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