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Brahmacārin: lo stadio dell'apprendimento

La prima fase di una azione equanime è dedito allo studio degli strumenti e delle modalità di svolgimento dell'azione stessa.

Nel caso dell'azione vitale, della vita dell'essere individuato, avviene la medesima cosa: è lo stadio dell'apprendimento. Questa modalità è in uso in tutte le culture, a prescindere delle coordinate spaziotemporali in cui si trova allocato l'ente, ma vediamo come diversi siano gli intedimenti fra un ambito tradizionale e uno non tradizionale.

Nel secondo caso l'apprendimento è dedito a soddisfare i bisogni dell'ecosistema senza tenere conto delle caratteristiche precipue dell'individuo che non riceve alcuna disciplina ed educazione. In questo ambito si impartiscono una serie di nozioni, senza alcuno strumento che misuri sia la necessità di quelle informazioni sia la trasformazione che quelle nozioni determinano nell'individuo; contemporaneamente non operando sui reali bisogni dell'ente secondo le sue potenzialità, non è possibile forgiare l'ente secondo le sue necessità. Questa situazione è diffusa a livello mondiale, mancando oramai quegli istruttori in grado di procedere secondo un metodo che attenzioni lo sviluppo invece della nozione, dovendosi procedere a soddisfare il bisogno urgente delle società che richiedono sempre più operatori abili al mantenimento e ampliamento dei processi produttivi.

Questo comporta che il giovane che si avvicina ad un percorso spirituale e voglia utilizzare il Vedanta, si trovi penalizzato rispetto a quegli esempi riportato nei testi antichi, dove l'istruzione ai giovani era stata impartita nell'ambito dei gurukulam, sodalizi, accademie, dove il rapporto fra istruttore e aspirante era intimo e continuato. Questa penalizzazione non deve però scoraggiare oltremodo: caratteristica del Vedanta è l'essere espressione dell'uomo, e quindi una disciplina che si cuce indosso a prescindere da ogni particolarità.

Questo non determina un appiattimento dell'istruzione che viene resa eguale per tutti, quanto il suo opposto: essa si adatta alle necessità e potenzialità di ognuno.

Viene chiesta però una cosa... una decisa e profonda onestà interiore, senza la quale è preferibile volgersi altrove, verso quelle istituzioni che sono in grado di impartire delle direttive generali e dei percorsi ben ritagliati e protetti da regole e dogmi. Il Vedanta è un percorso tradizionale che pur necessitando di un istruttore, può essere percorso in una prima fase, senza un Maestro diretto, affidandosi alle scritture della tradizione e alle istruzioni dei fratelli più anziani che abbiano già risolto quella specifica esperienza. Affinché questo avvenga occorre qualle onestà interiore che permetta di vedersi per come si è e non per come si vorrebbe essere, accettando le limitazioni e gli impedimenti senza alcun rifiuto, altrimenti è facile farsi male, cadendo nelle molteplici trappole della mente.

Vediamo adesso chi sarebbe un brahmacārin. Definiamo prima quello ideale, consapevoli che intorno a questo ideale esistono tante gradazioni date dalla realtà di tutti i giorni. Un brahmacārin è una persona che è nella propria giovinezza senza essersi ancora sposata. È una persona che dedica il proprio tempo allo studio di sé e degli strumenti che le serviranno nella vita. In ambito tradizionale un brahmacārin può divenire direttamente un samnyasin ma è un evento più raro di quanto si possa credere, per questo motivo coloro che intendono fare questo passo, vengono affidati ad un Maestro per un noviziato di sette-nove anni (nel Ramakrishna Math, il noviziato è di nove anni), al termine del quale il Maestro deciderà se il novizio può prendere il samnyasa.

Occorrono anche delle predisposizioni karmiche familiari affinché ciò possa avvenire, infatti fra i doveri futuri di un giovine ci sono quelli nei confronti dei genitori, pertanto non è data la presa del samnyasa se i genitori viventi non danno l'approvazione. Questo dovrebbe far riflettere coloro che vedono le tradizioni indiane quale strumento di fuga dai doveri filiari. Un aneddoto conosciuto riguardo a questo, è quello narrato sulla giovinezza di Adi Shankara, la cui madre vedova non intendeva concedere al figlio il suo permesso affinché divenisse un samnyasin.

Fu solo davanti al figlio afferrato da un coccodrillo e prossimo alla morte per annegamento che ella acconsentì alla preghiere del figlio: «Madre, questa vita non ha senso per questo corpo se esso non può compiere ciò a cui è chiamato, pertanto essa termina qui se Voi non mi concedete il vostro permesso alla rinuncia» e così gli concesse il permesso.

Ma anche così, Shankara le promise che sarebbe stato presente al momento delle sua dipartita per compiere i doveri filiali, non essendoci nessun altro che avrebbe potuto provvedere. Narra la leggenda che quando fu il momento, Shankara si presentò al capezzale della madre e la guidò nel trapasso e poi volle officiare il rito funerario. Di fronte ai brahmani che scandalizzati alla vista di un samnyasin che voleva eseguire i compiti di un grhasta impedirono che gli fossero date la legna e gli aromi necessari per la pira funeraria, egli bruciò il corpo con il potere delle sue siddhi.

Può considerarsi un brahmacārin chi lavora? No, il suo tempo è dedicato all'ottemperare i doveri conseguenti al lavoro, il suo tempo non è più dedicato totalmente all'apprendimento. Cerchiamo di ampliare il concetto. L'apprendimento lo si aveva attraverso il servizio. Ci si recava, solitamente, presso la casa dell'insegnante e lì si riceveva l'istruzione. Tutt'oggi un giovane bramino, non appena indossato il sacro cordone, viene addestrato alla recitazione dei Veda, vivendo con gli istruttori e i compagni più grandi in un patasala, la scuola vedica.

Visitando quella dello Shankara Math di Sringeri, dello Shankara Math di Kanchipuram e di Hyderabad o le scuole moderne di Satya Sai Baba, vediamo che c'è un sistema diverso da quello in uso in Occidente, una maggiore attenzione alle potenzialità dell'individuo attraverso l'uso di istruttori che vivono l'insegnamento come vocazione e non come lavoro. Certo occorre ammettere che le situazioni citate sono dei casi estremi, dove lo spessore dei vari Shankaracarya e dello stesso Sai Baba attirano insegnanti motivati e qualificati. Difficile concepire quei sistemi nel sistema scolastico, ad esempio italiano, dove si vivono fenomeni di bullismo, droga e razzismo. Però è altresì vero che qualcuno aveva avviato delle iniziative sui Valori Umani nelle scuole.

Il brahmacārin è pertanto lo studente per antoponomasia. Cosa fa? Studia. Apprende. Si prepara.

E qui iniziano le note dolenti per gli Occidentali, che amano immaginare l'inizio della libertà dalla libertà di scelta degli argomenti di studio. Non si studiano gli ultimi guru newage, né quelli che attraverso droghe, alcool, eccessi, comuni, seminari, corsi multi-level, counseling, channeling, hanno inventato il nirvana take-away di facile uso e consumo per tutti. L'istruzione è precisa: Veda, Purana, Agama. Quando e se si arriva al Vedanta c'è una profonda conoscenza già acquisita che il Vedanta provvede ad ordinare. Lo studio non prescinde dall'osservanza dei propri doveri di casta, familiari e religiosi.

Riportare tutto questo in Occidente non è facile. Gli ordini religiosi che propongono l'insegnamento, in Italia, come i Salesiani, i Lasalliani, i Gesuiti, etc. etc. insieme alla presenza di insegnanti motivati e vocati, contemporaneamente propongono indirizzi ben precisi secondo istanze che sono in contrasto con la facoltà dell'individuo di sviluppare la libertà interiore di approcciare il Divino, ma alla fine non sono necessariamente il male maggiore. Ancora in quelle scuole c'è una idea di disciplina.

Abbiamo detto apprendimento. Bene cosa è opportuno che apprenda il giovane che si vuole avvicinare al Vedanta?

Per prima cosa egli deve studiare e approfondire il Vecchio e il Nuovo Testamento, perché il Vedanta non fornisce aluna base religiosa e, sinceramente, è difficile per un Occidentale concepire degli aspetti del Divino così antropomorfi come quelli indù; perché non si può fuggire dalle proprie radici e delle radici cristiane è intrisa l'intera nostra cultura e infanzia (all'islamico si direbbe di studiare a fondo l'islam).

Poi gli si direbbe di iniziare a studiare quelle figure border line del Cristianesimo: Meister Eckhart e San Giovanni della Croce, per finire con i Vangeli apocrifi. A questo punto potremmo suggerire due diverse vie per arrivare al [i]Vedanta[/i], la via dolce, di minor impatto, quella di Platone e Plotino, il cui studio non disturberà alcuno dei parenti e non preoccuperà alcun genitore; e la via aspra, iniziare a leggere libri su Ramana Maharshi, Ramakrishna e, per chi volesse una immersione generale, potrebbe leggere Autobiografia di uno yogi di Paramahamsa Yogananda che tratteggia la vita di un giovane brahmacārin, la sua ricerca del guru, sino al suo divenire samnyasin e poi a sua volta un guru.

A questo punto dovrà sentire il suo cuore e verificare quali siano le sue vere istanze... cosa egli vuole? Occorre molta onestà e occorre anche non forzarsi. Se si ha attrazione per l'altra polarità significa che il samnyasa sarà per poi e non per subito e che la vita ci chiama attraverso l'esperienza di una famiglia, di una prole, di conseguimenti personale, etc. etc.

Occorre seguire la propria natura e comprendere se siamo veramente portati per una vita di contemplazione. Solitamente no.

Premadharma, tratto da forum pitagorico

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