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Le Pagine Vedanta di Vidya Bharata

R - Ci sono molti modi per gustare la polpa che la noce di cocco nasconde entro la sua scorza coriacea. La posizione nella sādhanā può essere duplice: duale o non-duale. Nella posizione Advaita o Non-duale, nulla si contrappone alla pura Realtà, se non l’adesione all’apparente movimento-manifestazione della stessa individuazione di sé; si procede all’Assoluto, inizialmente con la discriminazione e il distacco, e, poi, senza alcun sostegno. Nella posizione Dvaita o Duale essendo di fronte due enti: l’Essere Supremo e la Manifestazione di cui l’uomo è parte, si pone la sādhanā come avvicinamento a tale Essere-Creatore. Della prima posizione abbiamo già parlato e, comunque, sarà oggetto di studi più approfonditi in futuro; parliamo della seconda, visto che a troppi piace criticarla. Sbucciare una banana è facile, ma se nel passato vostra madre non vi avesse insegnato che, a certa frutta, la buccia va tolta, voi, la prima banana, l’avreste assalita a morsi. Nel morso, dopo il primo sapore sgradevole, avreste sentito la dolcezza. Nella noce di cocco, purtroppo, non è così. Avete voglia a prenderla a morsi, l’involucro è coriaceo e, se anche non vi stancate, quando arrivate al guscio, non ci sono denti che tengano! La sādhanā duale è quella di chi vuole, a tutti i costi, gustare quella noce di cocco. Mentre, nella sådhanå advaita, noi siamo la noce di cocco e occorre semplicemente svelare gli involucri; nella sådhanå dvaita, il punto di partenza è distaccato dalla noce, essa è di fronte a noi e va aperta.

D - Sempre di noce si tratta, comunque. Cosa c’entra questo con il servizio e la devozione?

R - Il servizio - nell’azione senza frutti - e la devozione vogliono aprire la stessa noce di cocco che vedono distinta da sé. Il devoto-sevak prende la noce e la strofina su ogni superficie dura e ruvida che trova, egli sa che la noce che ha in mano è l’io, quindi cerca altri io su cui consumare la propria noce. Il devoto-bhakta si mette davanti alla noce e inizia a blandirla, a dargli piccoli colpetti, a parlarle, a chiedere di fargli il favore di aprirsi; la porta sempre in giro con sé, pregando l’Ideale divino di aprirsi; nel far questo spesso agisce come il devoto-sevak. Il devoto-jñānin, invece, prende una grossa lama e ripulisce pian piano la scorza dell’io, quando arriva alla noce va dall’Ideale divino, il Sé o Ātman, Gli porge la lama e chiede gentilmente di aprirla per lui. Il devoto-asparsin non vede né buccia né guscio di noce, si vede già come polpa e al limite può decidere di mangiarla con altri. L’identificazione, nei primi tre casi, fa sì che ognuno creda che il proprio, sia l’unico metodo per aprire la noce. Il devoto-sevak ritiene stupido parlare alla noce, pregarla o salmodiare i mantra, ritiene inutile anche prendere il coltello, poi, il vedersi già polpa gli sembra a dir poco assurdo. Il devoto-bhakta sa che il primo è un mezzo per preparare la noce all’apertura, ma vuole nel contempo parlarle, ringraziarla, quindi afferma che sì può funzionare, ma che lui preferisce il proprio metodo; se un devoto-aparabhakta invece osserva la lama di discriminazione e distacco dello jñånin, si spaventa: come può quello pensare di sezionare la sua adorata noce di cocco? Come può toccarla in maniera così rude, senza pujå, senza adorazione? Come può un uomo assalire così l’Ideale divino, il Sé? Tale essere deve essere certamente un miscredente. Se poi invece il devoto-aparabhakta osserva l’asparsin ritiene che questi sia totalmente folle, addirittura è convinto di essere la noce! Il devoto-aparabhakta afferma: “Questa è la noce, come puoi anche tu essere la stessa noce se ti vedo separato da essa?” Lo jñānin normalmente dovrebbe comprendere che ogni sistema, che alla fine aprirà la noce, è comunque valido; ma, se quella che lui chiama ricerca è un semplice subire le proiezione della propria mente empirica, cercherà di ricondurre gli altri due all’ordine e, visto che sono troppo “stupidi” per comprendere e perdono tempo dietro orpelli e materialità, deciderà di guidarli lui stesso, mostrando come va aperta la noce di cocco! Come vedete, se ci si identifica col proprio metodo, si rischia di non aprire la propria noce, impegnati come saremo nel criticare gli altri, dove troveremo il tempo per aprire la dolce noce?

D - Come metafora è piacevole, ma cosa fa l’advaitin?

R - Beatamente mangia la noce di cocco.

D - Questo agire non è profondamente egoistico? Potrebbe aiutare gli altri ad aprire il guscio della loro noce!

R - Quale guscio? Quale scorza? Dovrebbe convincerli che la buccia che loro toccano e cercano di rompere non esiste? Lo prenderebbero per pazzo perché negherebbe quella che per loro è una verità sostanziale e ineluttabile. Lui è la stessa noce che loro cercano di aprire e “sa” che alla fine con quel metodo l’apriranno, visto che non esiste alcuna noce. Agli altri, a coloro a cui la noce non interessa, cosa dovrebbe fare, tirargliela in testa? Ci pensa già la vita stessa. Affinché un advaitin possa mostrare ciò, un discepolo non deve andare lì dicendo: “Ecco qui la mia noce, aprimela”. Occorre un discepolo che dica: “Eccomi, questi occhi vedono una noce che non c’è, insegnami a vedere la polpa che sono e non il guscio”.


Tratto da: Premadharma, Dialogo dIstruzione, Edizioni I Pitagorici - http://www.pitagorici.it - Tutti i diritti sono riservati. Questo testo può essere riprodotto non a scopo commerciale, senza alcuna modifica e nella sua interezza, includendo queste notizie sul Copyright.

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