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Cos'è l'induismo

 

COS’È L’INDUISMO?

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UNA FEDE CHE INDAGA

L’Induismo, la più antica tra le religioni del mondo, ebbe origine in India ed è tuttora professata dalla maggioranza della sua popolazione. Il significato del nome originariamente era geografico, i persiani che invasero l’India attraverso i passi a nord-ovest dell’Himālaya diedero il nome Sindhu [genericamente fiume] alla regione bagnata dal fiume Indo, da cui “hindu”, forma storpiata di “Sindhu”. Il termine induismo indicava, pertanto, la fede del popolo della valle dell’Indo, ma tale significato si perse nel tempo e l’Induismo divenne la religione non soltanto di tutta l’India, ma anche delle colonie della Grande India, come Giava, la Malesia ed il Borneo. I nomi indigeni con cui è conosciuto sono sanātanadharma e vaidikadharma. Sanātanadharma significa religione eterna, ovvero senza tempo, coesa con la vita stessa e, pertanto, cibo per lo spirito dell’uomo. L’altro nome, vaidikadharma significa la religione dei Veda. I Veda sono le Scritture fondamentali degli indù e non comprendono soltanto i quattro Veda: Ṛg, Yajur, Sāma e Atharva, ma tutte le parole rivelate dal Divino. Veda significa “conoscenza di Dio” o “scienza di Dio” e l’Induismo considera come propria autorità l’esperienza religiosa degli antichi saggi dell’India non facendo risalire la sua origine ad uno specifico personaggio storico o profeta, a differenza del Buddhismo, del Cristianesimo e dell’Islamismo che sono invece religioni “fondate”. Come segno d’inizio dell’Induismo non possono perciò essere citati né date, né fondatori, da ciò i nomi di sanātana e vaidika: antica e rivelata.

Sebbene l’Induismo accetti l’autorità dei Veda, non è una religione dogmatica o autoritaria. «In India la religione è difficilmente un dogma - dice Mr. E.B. Havell[1] - ma una ipotesi praticabile della condotta umana adattata ai differenti stadi dello sviluppo spirituale ed alle differenti condizioni di vita». La devozione ai Veda non significa la schiavitù della ragione. C’è un detto popolare secondo cui nemmeno un migliaio di brani delle Scritture sarebbero capaci di tramutare una brocca in un pezzo di stoffa. Un grande filosofo, Vācaspati Miśra (IX o X sec. d.C.)[2] non attribuisce autorità a tutte le Scritture in quanto tali, ma solo a quelle più significative e, per determinarne la significatività, occorre usare l’intelligenza. Upapatti o intelligibilità alla luce della ragione è uno dei canoni dell’interpretazione scritturale riconosciuta dall’Induismo ortodosso. La varietà di vedute che troviamo nell’Induismo è dovuta alla libertà d’azione lasciata agli interrogativi intellettuali poiché, fin dai tempi più remoti, la riflessione razionale serviva da correttivo al credo religioso.

In India, l’alleanza tra ragione e rivelazione è responsabile della correlazione tra religione e filosofia. La filosofia, come intesa in occidente, nasce da una curiosità intellettuale, da un senso di meraviglia; è una visione del mondo (Weltanschauung[3]), una teoria della realtà. In Oriente, invece, la filosofia è sempre stata considerata un modo di vivere, una strada per la realizzazione spirituale. Tattva-vicāra, o interrogazione sulla verità [investigazione razionale sui principi] è un mezzo per il conseguimento di mokṣa o liberazione spirituale. È la realizzazione dell’evidenza del male morale e fisico che fa riflettere l’uomo e lo fa ponderare sul mistero e sul significato della vita. La filosofia, come la religione, è una risposta ad una necessità pratica. Il supremo scopo dell’uomo è quello di evitare la miseria ed acquisire śanti (la pace) e per raggiungerlo egli si impegna in molte ricerche, affannandosi dietro la ricchezza ed i piaceri esteriori nella speranza di trarne soddisfazione. Presto però l’uomo si accorge che la pace indisturbata non la si ottiene con questi mezzi, così si ripiega interiormente (āvṛtta-cakṣuḥ: ritirare i sensi percettivi) e ritrova in sé stesso lo spirito risplendente del Divino che è suprema felicità e beatitudine.[4] Così la filosofia in India è il sentiero della religione e tramite questa felice combinazione i pensatori indù riuscirono ad evitare che la filosofia diventasse arida e la religione cieca. È altresì interessante notare, a tal proposito, che la filosofia è chiamata darśana che significa intuizione e la religione mata cioè “ciò su cui si è meditato”.

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LA VITA COME RELIGIONE

 Spesso si è accusato l’Induismo di pessimismo dicendo che la mentalità indù prende troppo sul serio la vita ed i suoi problemi e che, poiché la vita viene considerata fondamentalmente come un male, sfuggire ad essa diventa il bene finale. L’Induismo tiene effettivamente conto della miseria e della sofferenza del mondo in quanto sono proprio esse a stimolare le questioni cui filosofia e religione rispondono. Se per ottimismo si intende “una ingiustificabile acquiescenza al male” allora non ha alcun valore. Il “lato sinistro” dell’esistenza non può essere ignorato e fu proprio la percezione delle calamità e del male che condusse il Buddha a fondare una religione di speranza. Il saṃsāra (trasmigrazione) è un circolo vizioso.[5] Persino i gesti di bontà più squisiti hanno un fondo di male, ma il male non è l’essenza della realtà. L’Induismo ammette la presenza di un fondo di bene anche nelle cose ritenute cattive. Il fine è la trascendenza del male ed è possibile ottenerla anche in questa vita. È un tratto peculiare dell’Induismo considerare mokṣa non come uno stato ipotetico raggiungibile in qualche lontana regione dopo la morte, ma come realizzabile in questa vita. L’Upaniṣad dice: «Quando tutti i desideri che il cuore accoglie scompaiono, l’uomo diventa immortale e raggiunge Brahman “qui”.

Tutte le sette dell’Induismo, indipendentemente dal credo e dai dogmi, enfatizzano la necessità di una vita morale come condizione indispensabile per la realizzazione spirituale. Colui la cui vita è disordinata e che non mantiene i giusti rapporti con i propri simili non sarà in grado di ottenere la visione di Dio. «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Vangelo di Matteo 19, 24). Tutte le scuole induiste di pensiero insistono sul retto parlare, sul retto pensare e sul retto agire: perché la condotta conta più del credo. Se una persona persegue un comportamento morale, ad esso seguirà un giusto pensare. L’Induismo, sia come filosofia che come religione, non è tanto un modo di pensare quanto un modo di vivere.

 

3

UNIVERSALITÀ

Il tratto più saliente dell’Induismo, che è insieme unico e sublime, è la sua universalità. Il dispotismo nella religione è detestabile quanto altre forme di ideologie totalitarie e il provincialismo dello spirito è stato fonte di bigottismo e di spargimento di sangue. Sono gli adoratori di un Dio falso coloro che prendono la spada in nome della religione e l’Induismo fa sua questa verità concedendo la più ampia libertà in materia di fede e di venerazione. Lo straniero è stupito dall’infinita varietà di culti che si trovano nell’Induismo, ma essi sono un ornamento (bhūṣana) della fede e non le causano alcun danno (dūṣaṇa). Il principio fondamentale dell’Induismo è “tante menti, tante fedi”. Abbiamo già citato il famoso passo del Ṛg Veda che proclama la Verità Unica, chiamata in maniera diversa dai saggi.[6] Le Upaniṣad dichiarano che proprio come le mucche, pur avendo variate sfumature di colore sul mantello forniscono lo stesso latte bianco, così i differenti sentieri conducono alla medesima meta. «Qualunque sia il modo in cui l’uomo si rivolge a Me, Io lo accetto; poiché qualunque sentiero, da qualsiasi direzione, egli possa scegliere, è mio», dice il Signore Kṛṣṇa nella Gītā.C’è un passo nella smṛti che dichiara: «Alcuni Lo chiamano Agni, altri Manu, Prajāpati, alcuni Indra, altri Praṇa, ed altri ancora l’eterno Brahman». Aśoka[7] fece incidere sulle sue colonne di pietra: «Il re, beneamato dagli dei, onora ogni forma di fede religiosa, ma non stima nessun dono o onore tanto quanto la crescita dell’essenza della religione il cui fondamento è riverire la propria fede e mai ingiuriare quella degli altri. Chiunque agisca differentemente, ingiuria la propria religione offendendo quella degli altri». Śrī Rāmakṛṣṇa fece una serie di riusciti esperimenti su Dio realizzandolo in parecchi modi e insegnò che l’essenza della sua esperienza era considerare le differenti fedi come i diversi ghat [letteralmente ciò che perviene a, per estensione affluenti] che conducono allo stesso Gange. Mentre consacrava un tempio a New Delhi, il Mahatma Gandhi osservò: «Che la preghiera quotidiana di ogni aderente alla fede indù sia che ogni religione conosciuta del mondo possa crescere giorno dopo giorno e servire all’intera umanità».

Ecco la tradizione dell’Induismo: non disprezzare nessuna religione ed onorare la verità, da qualunque parte provenga e qualunque veste indossi. Buddha, il Beato, ci narra la parabola dei ciechi e dell’elefante a dimostrazione che una conoscenza parziale conduce sempre al bigottismo ed al fanatismo. Una volta un gruppo di discepoli si recò nella città di Śrāvastī per chiedere l’elemosina. Ivi trovarono dei settari che disputavano tra loro sostenendo: «È questa la verità, non quella». Dopo aver ascoltato queste opinioni discordanti, tornarono dall’Ispirato descrivendo quanto avevano visto e sentito. Allora Egli disse:

«Questi settari sono ciechi. Non conoscono né il reale, né il non reale; non conoscono la verità e non conoscono la non verità. In un tale stato di ignoranza non possono che disputare e litigare come voi descrivete. Miei cari, tempo fa, in questa stessa città di Śrāvastī c’era un rājā (re), il quale rivolgendosi ad un tale gli disse: “Vieni qui, buon uomo! Va’ e portami tutti i ciechi che trovi a Śrāvastī!”. “Molto bene, Maestà” rispose l’uomo, ed in obbedienza al rājā raccolse tutti i ciechi e li portò con sé al palazzo. Giunto al cospetto del re disse: “Vostra Maestà, ecco qui tutti i ciechi di Śrāvastī.”. “Adesso, buon uomo, mostra loro un elefante”  rispose il re. “Molto bene, Vostra Maestà” replicò l’uomo e fece ciò che gli era stato ordinato dicendo: “Miei cari ciechi, questo è un elefante”.  Ad uno presentò la testa dell’elefante, ad un altro l’orecchio, ad un altro ancora una zanna, la proboscide, la zampa e la coda, dicendo a ciascuno di loro che quello era l’elefante. L’uomo ritornò dal rājā dicendo: “Vostra Maestà, l’elefante è stato presentato ai ciechi. Sia fatta la tua volontà”. Subito dopo, miei cari mendicanti, il rājā si recò dai ciechi chiedendo a ciascuno di loro: “Avete studiato l’elefante? Allora ditemi le vostre conclusioni in proposito”. Dopodiché colui al quale era stata presentata la testa rispose: “Vostra Maestà, un elefante è come una brocca”. Quello che aveva osservato solo l’orecchio rispose: “Un elefante è come una cesta per la spulatura”. Colui al quale era stata presentata la zanna disse che era come un vomero. Quelli che conobbero solo la proboscide dissero che era come un aratro. “Il corpo - essi dissero - è un granaio; la zampa, una colonna; la schiena, un mortaio; la coda, un pestello; il ciuffo della coda, una scopa”. Quindi cominciarono a litigare, gridando: “Sì, è così!”. “No, non è così!”. “Un elefante non è questo!”. “Sì, invece è proprio come questo!” e così via, finché arrivarono ai pugni. Allora, miei cari mendicanti, quel rājā fu molto divertito della scena.  E sono così anche i settari: vagabondi, ciechi che non vedono, non conoscono la verità, ma ciascuno sostiene che essa è così e così».[8]

Coloro che pensano di essere i soli detentori della verità e che soltanto la propria religione conduca a Dio, “vedono solo un lato della cosa” come i ciechi della parabola. L’Induismo non commette questo errore; esso crede nella santità e nell’efficacia di tutti i culti.

Allo stesso tempo l’universalità che si ravvisa in esso non è un amalgama di tutto ciò che vi è di buono in ogni religione perché una religione universale messa insieme a quel modo potrebbe essere un bouquet, senza dubbio delizioso, ma senza vita. L’Induismo riconosce differenti livelli di esperienza religiosa e li ordina secondo il loro livello. La vera trasformazione è verticale, ossia da una concezione di Dio più bassa a una più alta, non orizzontale, cioè, da una fede formale ad un’altra. La crescita spirituale va dalle forme di adorazione grossolane alla più elevata contemplazione di Dio. S. Radhakrishnan[9] spiega la posizione induista comparando le religioni a dei college: «Come gli studenti sono orgogliosi del loro college - afferma, così lo sono i culti dei loro dei. Non occorre trasferire gli studenti da un college all’altro, ma fare del nostro meglio per innalzare il livello di ciascun college, migliorare i suoi standard e affinare i suoi ideali, con il risultato che ciascun college ci aiuterà ad ottenere lo stesso risultato. È indifferente in quale college ci troviamo, se in tutti si trova la stessa atmosfera e tutti ci portano a raggiungere lo stesso ideale».

Nell’Induismo ci sono vari culti ed molti credi, ma la conflittualità fra loro è evitata dalle due dottrine di adhikāra e iṣṭa. Adikāra significa “eleggibilità” [prerequisiti]. La fede di una persona è determinata dal tipo di persona che questa è. Non ha senso, per esempio, mettere un bambino in una classe superiore, se egli è adatto soltanto alle elementari. Ciò che giova all’uno potrebbe nuocere all’altro. Il credo dell’uomo dipende dal suo adhikāra ed è la sua eleggibilità che determina il suo iṣṭa o ideale. L’Induismo prescrive a ciascuno in base alle sue necessità, non può quindi essere considerato un singolo credo o culto, ma una lega di religioni, una fratellanza di fedi.

LO SPIRITO DELL’INDUISMO

La ricchezza, la bellezza e la grandezza dell’Induismo sta, senza dubbio, nel suo spirito di accomodamento, ma ciò non significa che esso costituisca un miscuglio di credi mal assortiti, senza coesione, senza uno scopo comune, un’intesa unificante. In realtà è sopravvissuto fino ad oggi a dispetto delle vicissitudini della storia e non mostra alcun segno di decadimento. Ciò dimostra che ha un’anima che tiene insieme i suoi diversi rami in una unità indissolubile. È vero che l’Induismo, col passare del tempo, ha accumulato una certa quantità di scorie, come ogni altra religione, ma una caratteristica unica della storia religiosa dell’India è stata l’apparizione – di epoca in epoca – di grandi riformatori, conoscitori della verità, la cui speciale missione consisteva nel riorganizzare la fede del popolo ed infondere in esso un senso di unità di intenti. In nessun’altra parte del mondo c’è mai stato un tale firmamento di condottieri spirituali che, dopo aver realizzato la suprema verità, sono tornati fra la gente per dare nuova linfa vitale, dignità e gloria alla propria fede.

È possibile dare una definizione dell’Induismo accettata da tutti i suoi adepti? Qual è il denominatore comune di accordo tra i culti indù? Sebbene sia difficile esprimere adeguatamente a parole lo spirito dell’Induismo, non è impossibile indicare la sua essenza. Prima di tutto si può notare che tutti gli indù sono concordi nell’aderenza ai Veda. Perfino i culti tantrika ne riconoscono l’autorità. Molti rituali e pratiche recenti sono basati sugli insegnamenti dei tantra e di essi non si trova traccia nei Veda. Eppure è credenza comune che i tantra derivino i loro insegnamenti da alcuni testi vedici, oggi perduti. Che questi testi siano esistiti o meno, è chiaro che, secondo l’indù, i Veda costituiscono la sorgente primaria dell’Induismo. Si ritiene quindi che le credenze e le pratiche, le filosofie e le fedi induiste, debbano avere un qualche riscontro nei Veda.

Uno dei credi fondamentali dell’Induismo è che, alla base della Realtà, vi sia un unico Spirito onnipervadente e onnitrascendente, che è la sorgente e la sostrato comune di tutti gli esseri. Usualmente ci si riferisce ad esso come Dio (Īśvara); ma i saggi lo realizzano come Assoluto impersonale (Brahman). La realtà concepita come Dio è la causa dell’universo, la sua unica e sola causa. L’universo sorge da Dio, si mantiene in Lui ed a Lui ritorna. Non c’è altro creatore opposto a Lui. Dio non crea il mondo dal nulla, né da qualcosa a Lui esterno. È solo una convenzione riferirsi a Dio come di genere maschile. Se è legittimo considerarlo Padre, è altrettanto legittimo considerare quella [medesima] Realtà come Madre. In un passo eccelso, la Śvetāśvatara Upaniṣad [IV, 3] così si riferisce a Dio: «Tu sei donna; Tu sei uomo; Tu sei il giovane; Tu la fanciulla, Tu il vecchio traballante poggiato al suo bastone; essendo nato fai fronte a tutte le direzioni».

Dio è in tutte le forme che noi vediamo, come spiega una delle Upaniṣad tramite l’analogia col fuoco e col vento. Proprio come un unico fuoco e un unico vento nel mondo assumono varie configurazioni e strutture, così anche il Sé interiore di tutti gli esseri assume diverse forme pur tuttavia non esaurendosi in esse.[10] Certo, è difficile vedere Dio in ogni cosa e, di fatto, realizzare il Sé, sia come propria interiorità che come ciò che pervade ogni cosa, è la più elevata esperienza spirituale. Ecco che in una disciplina spirituale atta al raggiungimento della meta, si chiede di vedere il volto di Dio in qualunque cosa abbia valore, splendore e rettitudine. Illustrando questa verità nel decimo capitolo della Bhagavadgītā, Śrī Kṛṣṇa identifica Sé stesso come il meglio in ogni genere, cioè l’Himālaya tra le montagne [X. 23. (…) fra le montagne sono Meru – X. 25. (…) fra le cose immutabili sono l’Himālaya], il Gange tra i fiumi [X. 31, (…) dei fiumi sono la figlia di Jāhnavi (Gange)] Vasudeva tra i Vṛṣṇi [gli antenati di Kṛṣṇa], e Arjuna [o Dhanaṁjaya] tra i Pāṇḍava. Le alte montagne ed i fiumi imponenti, gli alberi maestosi e gli animali puri, gli uomini eroici come pure le donne, tutte le cose che hanno un’eccellenza, in realtà diventano oggetto di venerazione. Quando l’Indù adora tutto questo o gli idoli nei templi, è consapevole che è a Dio che egli realmente offre la sua adorazione. È quindi sbagliato considerare l’Induismo come una religione idolatra. Gli idoli sono simboli dello Spirito universale ed è solo dopo che il devoto ha invocato la presenza del Divino al loro interno che essi diventano sacri oggetti di culto. L’indù, è vero, china il capo davanti a molte forme della Divinità, ma non per questo si deve dubitare che sia politeista. Ciò che egli adora è l’unico Dio [manifestato] nei vari dei. Persino ai tempi del ṚgVeda si esprimeva un monoteismo filosofico culminante nel monismo o non-dualismo. Ciò che Max Müller classifica come l’enoteismo[11] dei Veda – l’adorazione di una divinità a seconda dell’occasione – è realmente una tendenza ad un monoteismo filosofico. La mentalità indù è contraria ad assegnare alla Divinità una forma ed un nome rigidamente fissi ed inalterabili. Ecco dunque che troviamo nell’Induismo innumerevoli forme della Divinità e nomi divini a non finire. Ed è una verità riconosciuta da tutti gli indù che la riverenza offerta ad uno qualsiasi di questi nomi e forme raggiunge l’unico Dio supremo.

È la concezione unica del Dio supremo presente nell’Induismo che conduce alla formulazione della dottrina dell’incarnazione (avatāra). Dio non è uno spettatore distaccato dalle vicende del mondo, ma lo guida e vi partecipa attivamente, pur non venendone toccato. Ogni qualvolta se ne presenta la necessità, Egli si incarna, cioè appare in una tangibile forma umana, per salvare il mondo ed aiutarlo a progredire nella sua evoluzione spirituale. Śrī Kṛṣṇa dice nella Gītā (IV, 7-8): «Ogni qualvolta c’è il declino della rettitudine e l’insorgenza della cattiveria, Io mi incarno. Per la protezione dei pii, per la distruzione dei malvagi, e per ristabilire la rettitudine, Io nasco di era in era». In certe scuole dell’Induismo come il śaivismo, la dottrina che Dio nasca da genitori che sono comuni mortali non è accettata, ma si ammette che Dio appaia con un corpo quando vuole salvare un devoto attraverso quel mezzo. Si crede che il precettore spirituale (guru) sia Dio in forma umana e l’indù tiene il maestro nella più alta considerazione poichè ritiene che qualsiasi onore tributato a Dio sia tributato anche a lui.

È risaputo che fra tutte le religioni del mondo, l’Induismo – come le altre due fedi derivate, Giainismo e Buddhismo – dà la massima importanza alla non-violenza (ahiṃsā). L’implicazione di questo termine negativo è la seguente: se per fare del bene ad una persona devo danneggiarne un’altra, allora è mio dovere non fare quel bene. Evitare un dolore ad un essere è più importante dell’adempimento di un dovere che causa piacere. La totale non-violenza è naturalmente ideale, ma è compito costante dell’indù approssimarsi ad essa. Se Dio è verità (satya), la non-violenza (ahiṃsā) è la via per realizzarLo. «Se mi si chiedesse di definire il credo indù - scrisse il Mahātmā Gandhi - direi semplicemente: la ricerca della Verità con mezzi non-violenti».[12]

L’insegnamento centrale dell’Induismo nella sua quintessenza lo si può trovare in parecchi testi spirituali. Potremmo qui citare il passo di apertura dell’Īśāvāsyopaniṣad, che è annoverata all’inizio della lista tradizionale delle Upaniṣad. Riferendosi a questo passo, Gandhiji [appellativo affettuoso e confidenziale da riferirsi qui al Mahātmā Gandhi) una volta disse: «Sono ora giunto alla conclusione finale che se tutte le Upaniṣad e le altre scritture dovessero essere ridotte in cenere e se solo il primo verso dell’Īśopaniṣad rimanesse intatto nella memoria dell’indù, l’Induismo vivrebbe per sempre».[13] Il testo dice:

isa-vasam idam sarvam

            yat-kim ca jagatyam jagat

tena tyaktena bhuntjitha

            ma grdhab kasya svid-dhanam

 

«Dal Signore è avviluppato tutto questo, qualsiasi cosa animata esistente in questo mondo è in continuo movimento. Dalla rinuncia a tutto questo, tu potrai trarre gioia. Non desiderare la ricchezza di nessuno». Tale testo può essere espresso nelle seguenti affermazioni:

1) Dio è tutto: l’intero universo è una Sua espressione.

2) La gioia non consiste nell’ammassare, ma nel dare. L’attaccamento a ciò che è finito e perituro è male, ed è la causa della sofferenza. Rinunciare all’attaccamento è il sommo bene.

Ecco tutto ciò che è importante nell’Induismo: una visione di Dio ed una regola nella vita. Lo stesso può essere detto del Gāyatrīmantra che costituisce il testo principale della preghiera giornaliera induista.

Om bhur bhuvah suvah [bhūr bhuvar svar]

tat savitur vareṇyaṃ bhargo devasya dhīmahi

dhiyo yo naḥ pracodayāt

«Dio, il cui suono-simbolo è Om appare come la terra, il cielo ed il paradiso. Noi meditiamo sul fulgore massimamente risplendente e degno di adorazione del Dio rifulgente di per sé. Possa Egli guidare le nostre menti!» (Śuklayajurvedasaṁhita XXXVI, 3).

Anche qui ritroviamo la stessa enfasi sulla verità della Realtà onnipervadente ed autorisplendente e sulla sua necessità per guidare nella vita.

Fortunatamente abbiamo un gran numero di scritture indù a dirci cosa sia l’Induismo. Ognuno può sceglierne una qualsiasi, in sanscrito o in qualsiasi altra lingua popolare in India ed trovarvi tutto ciò che è necessario per una vita spirituale completa.

Tratto da Elementi di Induismo di T.M.P. Mahadevan. Allievo di Radhakrihna, seguace e traduttore di Ramana, allievo di Chandrasekarendra Sarasvati, Shankaracarya e jivanmuktha di Kanchi. Professore dell’Università di Madras.

Traduzione e copyright di Vidya Bharata.

 


[4]           il riferimento è ad ānanda: beatitudine assoluta, pura felicita, gioia senza oggetti; condizione inerente all’essere consapevole della pienezza del proprio Essere; natura dell’Essere: uno dei tre aspetti inscindibili e consustanziali al Sè (sat, cit, ānanda). (tratto da Glossario Pitagorico integrato Vidya)

[5]              Saṃsāra: ciclo perenne del divenire; divenire trasmigratorio quale passaggio continuo per diverse condizioni di coscienza e quindi di esistenza; trasmigrazione; corso dell’indefinita successione di nascita-vita-morte-rinascita al quale pone fine la Liberazione (mokṣa). Spesso questo termine viene usato per designare l’insieme della manifestazione universale, ovvero l’ esistenza nella sua totalità. Corrisponde all’ininterrotta catena di causa-effetto, per cui il karma vincola l’essere individuato al divenire; rappresenta cosi la sovrapposizione illusoria ma consistente di māyā al puro Brahman incausato. Nel Buddismo corrisponde alla “ruota dell’esistenza” (bhāvacakra), nella quale si alternano gli stati di vita e di morte con le loro relative “esperienze”.

[6]              ṚgVeda VIII.58.2) «Un solo Fuoco viene acceso in molti luoghi, un solo Sole è presente per uno ed in tutto,  una sola Aurora illumina questo tutto: quello che è Uno solo diventa questo tutto.» e ṚgVeda Samhitā I.164.46): “I sacerdoti chiamano in molti modi differenti (bahudhî vadanti) Quello che è solo Uno; lo chiamano Agni, Yama, Mîtrāhvarunā, lo chiamano Indra, Mitra, Varuna, Agni, o dicono che è «l’aquila celeste Garutmān» 

[7]              Aśoka fu un importante re indiano che diede impulso al Buddismo e ad altre osservanze religiose del suo tempo.

[8]              Udana VI, 4: Tittha Sutta

[9]              Sarvepalli Radhakrishnan

[10]             Kaṭhopaniṣad: «Quello che è sempre desto anche nel sonno, che emana tutta la varietà delle idee, è il Sé reale e l’Immortalità; tutti i mondi sono in esso contenuti per così dire in sospensione; nulla vi è che lo trascenda. È questo. Come l’unico fuoco che pervade l’universo appare in innumerevoli forme nella varietà degli oggetti, così il Sé interiore universale, sempre uno, assume l’apparenza di molteplici forme, ma sempre le trascende. Come il sole che tutto illumina non ha in alcun modo nulla a che fare con i numerosi mali che l’occhio può percepire, così il Sé interno universale, eterno uno, non ha alcun rapporto con le gioie e i dolori del mondo, perché li trascende».

                 http://www.lavitadopolamorte.it/vitadopolamorte/images/Lo_Spirito_Delle_Upanisad.pdf

[11]             L'enoteismo è un termine coniato da Max Müller, che indica un tipo di religiosità che prevede la preminenza di un dio su tutti gli altri, tale da accentrare su di esso tutto il culto è pertanto una forma di culto intermedia tra politeismo e monoteismo in cui è venerata in particolar modo una singola divinità, senza tuttavia negare l'esistenza di altre divinità, di cui però di solito è sottolineata l'estraneità e/o l'inferiorità.

[12]             «La mancanza di un credo ufficiale è la fortuna o la sfortuna dell'Induismo. Allo scopo, quindi, di proteggere me stesso da ogni malinteso, ho detto che la verità e la non-violenza sono il mio credo. Se mi chiedessero di definire il credo indù direi semplicemente: la ricerca della verità tramite mezzi non-violenti. Un uomo può non credere in Dio e continuare a considerarsi un Indù. L'Induismo è la ricerca incessante della verità e se oggi è divenuto morente, inoperoso, refrattario alla crescita, è perché siamo affaticati, ma non appena ci saremo ripresi l'Induismo irromperà dilagando in tutto il mondo con un'intensità forse sconosciuta. Perciò, naturalmente, l'Induismo è la più tollerante di tutte le religioni. Il suo credo è onnicomprensivo». (Mahatma Gandhi, L'Induismo , traduzione di Franco Paris, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995 p. 19)

[13]             Se tutte le Upanishad con tutte le altre scritture fossero improvvisamente ridotte in cenere, tranne il solo primo verso della Īṣa Upaniṣad lasciato alla memoria degli hindu, l'Induismo vivrebbe per sempre.

                [If all The Upanishads and all the other scriptures happened all of a sudden to be reduced to ashes, and if only the first verse in the Ishopanishad were left in the memory of the Hindus, Hinduism would live for ever] Da Eknath Easwaran, The Upanishad, Nilgiri Press. 1987. p. 205. Citato in A Tribute to Hinduism.

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