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Estratti dall’opera di Alessandro Farra:
“Settenario dell’Humana Riduttione”

in Vinegia 1571
sui “Versi Aurei” di Pitagora

(estratti da pag. 216-233)

Tre sorti di simboli scrive Iamblico trovarsi usati da Pitagora: i primi de quali sono propri della setta Pitagorica; percioché contengono occulti misteri, e introduzione alla divina sapienza. I simboli della seconda specie sono popolari, comuni, e di volgare intelligenza, gli ultimi sono partecipi della prima, e della seconda maniera; percioché né in tutto sono volgari, né in tutto Pitagorici.

Io per ora racconterò solamente i simboli della prima specie, e d’essi non tutti, ma 22 più notabili, si come ordinatamente ai misteri contenuti nelle XXII lettere della lingua santa si riferiscono con l’anagogica esposizione loro.

Il primo simbolo è di questo tenore:

I) "ANDANDO AL TEMPIO INCHINATI A TERRA, E FRA TANTO NON FARAI, NE DIRAI, COSA ALCUNA TEMPORALE"

Il TEMPIO vero dell’Huomo, secondo Xisto Pitagorico, è il cuore, nel internamente, e con puro, e ardente affetto s’adora, e riverisce IDDIO: e però ANDANDO AL TEMPIO significa raccogliendoti in te stesso, e dalla moltitudine esteriore restringendoti nell’intrinseca unità del tuo spirito per contemplare ivi la divina bellezza, non penserai ad alcuna cosa materiale, ma tutti i pensieri tuoi indirizza alla sublime contemplazione dell’eterne sostanze.
Questo medesimo intese Zoroastro in quelle parole per l’altezza del concetto loro da me riferite in alcun altro luogo. Poi che l’anima per la potenza del Padre vien fuoco splendido, signoreggi in te l’immortal sua profondità, e allora tutti gli occhi insieme innalza; perchè ne anco il corpo materiale al precipitio lascerai (si tratta della Grande Opera! n.d.c.). Diviene l’anima fuoco splendido alhora, che dal raggio del divino amore accesa tutta si separa dall’oscurità sensuale, e tutti gli occhi dell’anima sono le forze, o le virtù, le cogitazioni, e i discorsi della medesima, che devono parimenti alzarsi, cioè separarsi dalle cose sensibili sottoposte al tempo e alla corruzione.

II) "NON A CASO ENTRERAI NEL TEMPIO, NE ADORERAI NELLA STRADA, NE ANCO INANZI ALLE PORTE ISTESSE"

Questo simbolo deve con le ragioni del sopradetto interpretarsi, cioè, che non a caso deve l’Huomo ridursi in se stesso per sollevarsi poi alla contemplazione delle sostanze eterne, e per adorare nell’intimo del suo cuore Iddio, ma con una certa e principale determinazione precedere, per ciò che dice Iamblico in questo luogo, se ogni simile è amico, e corrispondente al suo simile, alla Divinità si deve la prima e principal cura, che sia nell’Huomo, si come essa divinità è il primo Ente nell’Universo; la onde se di Lei si ha cura non principalmente, ma per rispetto d’altre considerazioni, viene chi è primo a farsi l’ultimo e a sovvertirsi l’ordine delle cure e della cognizione. Così nei precetti della nostra divina legge ci è comandato, che innanzi e sopra tutte le cose adoriamo e amiamo Iddio, e che principalmentye ricerchiamo il Regno Suo, la STRADA, si come presuppone viaggio, così significa instabilità, e perciò, che l’adorazione e la contemplazione devono farsi con fermezza e con riposo, conforme a quel detto di Geremia, SEDERA’ SOLITARIO, E TACERA’, LEVANDO SE SOPRA DI SE; le quali parole habbiamo largamente dichiaratye ne i libri della Verità.

LA PORTA DEL TEMPIO, cioè del cuore, e della mente dicono gli allegorici essere la fantasia, per lo cui mezo entrano all’intelletto le cose apprese dal senso: così le intese il PETRARCA in quel qaternario:

Amor, che m’ha legato, e tiemmi in croce,
Trema quando la vede in su la porta
Del’alma, ove m’ancide ancor si scorta,
Si dolce in vista, e si soave in voce.

Inanzi a queta poirta non è lecito adorare la divinità, alla quale conviensi solamente l’altezza, e sublimità del purissimo intelletto; perciò ch’essa fantasia è fallace, e errante discernitrice, e però Plotino nel primo novenario trattando dell’origine del peccato scrive queste parole, forse che noi pecchiamo superati dalla nostra parte peggiore; perciòche siamo soliti di concedere molte cose all’ira, alla cupidità, e alla perversa immagine, ma la fantasia, la quale è detta cogitazione delle cose false, non aspetta il giudizio di chi prudentemente consulta. Fin qui Plotino Filosofo non meno Pitagorico, che seguace di Socrate, e di Platone. Le quali cose veggiamo quanto siano conformi ai santi instituti della Ns. religione.

III) "CON I PIEDI NUDI SACRIFICA, E ADORA"

I piedi come parti insensatissime e terrene (scrive Filone nel Lib. che il peggiore sia solito d’insidiare il migliore) pose il Sommo Opefice, come radici della pianta Humana, vicini alla Terra; e però sono simbolo di quella parte dell’animo nostro, la quale è priva di ragione, che vive con i sensi, e che comprende tutti gli affetti della carne, e tutte le libidinose cupidità. E perciò Achille è tutto inviolabile eccetto i piedi, con i quali il teneva Thetide sommergendolo nel mare; e dove fu dal Troiano Alessandro ferito, significa, che l’Huomo forte contrasterà valorosamente ai colpi, e alle percosse della nimica e contraria fortuna, e nondimeno potrà facilmente rimanere vinto e opresso dalla libidine, e dagli appetiti carnali. Che i piedi nell’adorazione siano nudi, significa, che la parte nostra sensuale debba nell’huomo contemplativo essere libera, e sciolta dal peccato. Così nelle divine leggi di Mosè devono i Sacerdoti sacrificando lavarsi i piedi, cioè, spogliarsi di tutte le vesti dell’immondizia corporale; perciò che lavare i piedi, e haverli nudi sono il medesimo. Quindi il nostro Signore la notte del Suo Santissimo, e eterno testamento, innanzi che gli Apostoli fossero cibati del suo precioso corpo, gli lavò i piedi, protestando a Pietro, che chiunque non havesse lavati i piedi, non havrebbe parte nel suo felicissimo Regno.
Il lavare i piedi scrive Filone nel libro delle vittime, significa, non più per terra, ma per lo cielo doversi camminare: percioché l’anima la quale ama Idio veramente si solleva all’ethere, e prese l’ali s’innalza alle parti sublimi desiderosa di camminare col Sole, con la Luna, e con l’ordinanza delle stelle guidata da Iddio capitano, e Imperatore il cui regno inespugnabile governa giustamente tutte le cose. Fin qui Filone. Significa medesimamente il nudare, o spogliare i piedi nei sacrifici, secondo Iamblico; che noi dobbiamo adorare e contemplare Iddio liberi, e sciolti da ogni legame corporale, e privi di ogni altra cura esteriore; percioché nel secolo dell’Eternità, e nel mondo intellegibile vive perpetua Hilarità, e lietissima libertà: e servo è, come il medesimo Filone disputa altrove, chiunque nella servitù delle cure corporali involto non mai si rivolge alla libertà intellettuale.

IIII. “DE GLI IDDII NON LASCIARE DI CREDERE QUAL SI VOGLIA MIRABIL COSA, CHE SI DICA, COSI’ DE I DIVINI INSTITUTI”

Questo simbolo è molto chiaro da se stesso; e senza alcun dubbio Pitagora il prese da quei versi di Lino antichissimo poeta,

“Creder si deve il tutto, che niuna
Cosa incredibil è, che’l tutto lece
A Dio, che nulla d’impossibil trova".

e che la natura divina sia d’infinita virtù, lo provano i Platonici con questa ragione oltre ad infinite oltre, si come nella somma dispersione è imbecillità e debolezza infinita, così nella suprema unita è infinita onnipotenza; perciochè l’essere sottoposto a termine e passione, è contrario a l’atto purissimo e semplicissimo de l’unità divina, oltre di ciò l’atto non patisce termine, se non in quanto aderisce a soggetto, nel quale sia qualche potenza, ma l’atto divino è tutto fermo in se stesso, e perciò nella lingua santa ottiene il nome di SADAI, che appresso i latini si dichiara, SIBI SUFFICIENS, adunque è infinito e infinitamente omnipotentissimo: quindi Orfeo chiama la natura divina “ATELIS TE TELEUTE”, cioè infinito fine, e perciò non è cosa alcuna quanto si voglia grande e mirabile, la quale sia impossibile alla divina onnipotenza, la cui veneranda e immensurabile grandezza, e maestà imparò Pitagora dalla filosofia degli hebrei, e cercò poi d’insegnarla a suoi seguaci in quel miglior modo, che gli dettavano i dogmati, e instituti della sapienza inferiore.

V) “LASCIA LE STRADE POPULARI, E CAMMINA PER GL’INFREQUENTATI SENTIERI”

Le vie populari sono le vie di molti, e perciò appartengono alla moltitudine, la quale si diffonde nella materia, e perciò è tutta corporale e imperfetta, e piena di confusione; e come tali ci impediscono il ritorno alla patria, i sentieri frequentati da pochi si riferiscono all’unità intellettuale. Il filosofo dunque abbandonando la confusa moltitudine de gli affetti, i quali versano intorno alle cose sensibili, deve fuggire all’unità dello Spirito, per congiungersi, e unirsi col mezzo di essa a Iddio uno, e solo: che perciò diceva Plotino nel fine dell’ultimo novenario: questa è la vita de gli Iddii, e degli huomini divini, e beati, dispregiare totalmente le humane voluttà, e fuga di uno solo a chi è solo.
Platone nel THEETETO di questa fuga e solitudine parlando, scrive queste parole: ma non è possibile estirpare totalmente i mali; percioché è necessario che sempre vi sia che s’opponga a Iddio; ma non possono essi mali havere luogo nelle parti superne, onde sono constretti a rivolgersi intorno alla natura mortale, e questi luoghi inferiori; e perciò bisogna, che ci sforziamo di fuggire da queste a quelle regioni: la qual fuga non è altro, che lo sforzarsi d’essere simili a Iddio: le cui strade, come egli ne’ libri sacri testifica, non sono come le nostre populari, trite, e volgari, ma le vie del Signore sono recondite, e conosciute da pochi, e ad esse riferiscono i cabalisti li trentadue sentieri della sapienza, con le cinquanta porte dell’intelligenza, delle quali cose ragioneremo diffusamente altrove. Persuade dunque in questo luogo Pitagora, etiando secondo la interpretazione di Iamblico, a lasciare la vita volgare, e humana e a seguire l’occulta, recondita, e divina, a dispregiare le sentenze, e opinioni populari, e comuni, e ad accostarsi alle determinazioni sacre, e filosofiche, a schivare e fuggire tutti gli oggetti materiali, e tutte le cose che porgono piaceri, e delizie corporali, e a stimare e abbracciare la solitudine conforme alla divina volontà, e finalmente ci insegna a lasciare i costumi dell’humanità, e ad abbracciare i divini instituti, come più eccellenti della vita ordinaria, e comune.

VI) "ASTIENITI DAL MELANURO"

cioè, da cosa ch’habbia la coda nera. MELANURO è chiamata la Seppia pesce maritimo, il quale con piacevole, e dilettosa vista alletta i pescatori a seguitarlo, e dove essi pensano di prenderlo, egli spargendo dalla coda un negro inchiostro, che l’acque torbida, e infetta, con l’aiuto di quell’oscurità fugge dalle mani loro, la qual cosa egli fa tante volte, quante si vede giunto alle strette, e dicesi, che Theti in questo animale si converse mentre fuggiva gli abbracciamenti di Peleo. La coda non è dubbio, ch’essendo nell’estremità del corpo, non sia simbolo della più infima, e indegna parte dell’anima nostra, e di quella vita che appartiene ai sensi, e a gli affetti corporali, i quali sono negri per l’oscurità della materia, nella quale essi rimangono involti. Questa coda negra, cioè, la vita sensuale infetta l’onde, cioè, macchia, e oscura la ragione nostra, la quale è la più nobile parte dello spirito. E si come la sepia fa ciò per non essere presa da chi la segue, così il senso infetta, e avelena la ragione, perchè l’homo non apprenda, e conosca l’instabilità, e la pernicie de i piaceri, che ci promette la vita voluttuosa. L’impudica volutta (come discuopre all’animo nostro la virtù appresso Filone) non ha alcuno proprio, o natural decoro, ma si usurpa una falsa, e adulterina bellezza, con la quale aviluppa gli animi incauti nelle sue reti inestricabili, con questi avertimenti (soggiunge la medesima) tu potrai facilmente rendere vane tutte le insidie della sua caccia: diletta essa, e compiace co’l viso a gli occhi, e con la voce a gli orecchi, ma l’anima, della quale si deve sopra tutte le cose haver cura non può fare di non offendere ingerendosi per queste, e per altre parti ad infettarla con gl’immondi, e pernitiosi godimenti corporali.
Ci persuade, e consiglia dunque con questo simbolo Pitagora a fuggire, come peste dell’animo nostro, la vita sensuale, e al compiacimento degli appetiti carnali rivolta, e come soggiunge Giamblico, a congiungerci separati dalla materia con gl’Iddij intellettuali; e per questa via c’introduce alla vita pura, e immateriale, e ci sollieva nell’ordine della divina provvidenza, come ottima e alla prima divinità conveniente. Plutarco nel libro dell’educazione de’figlioli scrive, significarsi per questo simbolo, che non si deve havere commertio alcuno con gl’huomini scellerati, e vitiosi, e che debbano fuggirsi coloro, i quali abbandonando la virtù si sono dati in preda ai vitij e alle disonestà; perciochè appresso i Romani il color negro si prendeva per li costumi infami, e pernitiosi; quindi è divolgato quel detto: “e’ negro questi, e tu romano lo schiva.”
E GIORNI ATRI SONO CHIAMATI i giorni infausti, lugubri e infelici. Dichiarano alcuni altri questo simbolo significarci che l’huomo prudente, e buono si guardi dalla menzogna, la quale, come diceva Trifone grammatico, nell’estreme sue parti si discuopre negra e oscura.

VII) "NON PERCUOTERE IL FUOCO CON LA SPADA"

Il fuoco essere simbolo di natura divina, e intellettuale si pruova con l’autorità de gli antichi Theologi, perciochè Zoroastro lo constituì principio dell’universo dicendo, che TUTTE LE COSE SON DAL FUOCO NATE; e i Persiani, come racconta Massimo Tirio, il preponevano a tutti gli altri Idij, e in loco di sacrificio gli porgevano alcuna cosa combustibile, dicendogli MAGNA e SATIATI: FUOCO SIGNORE. I Licij parimenti come afferma il medesimo Tirio, l’havevano per Dio Principale, e dicesi, che l’adorazione de’Persi hebbe origine da che furono da non so chi raccolte le reliquie di Zoroastro arso dal folgore celeste, sopra le quali poi furono ordinate perpetue vigilie: così Mosè vide il Signore nel rubo ardente, e altrove ne’libri Sacri si legge che Iddio è fuoco; gli Angeli ancora essi sono detti fuochi, e fiamme alte. Il cielo nella lingua santa è chiamato Samaim, cioè fuoco e acqua; le stelle sono da Platone, e da i Poeti dette fuochi eterni. La mente humana ancor ella è rassimigliata al fuoco per la proporzione, ch’essa nell’ascenso suo ha con lui, e con la natura divina: così Orfeo nell’inno di Bacho la chiamò SEME DI FUOCO E COME IL FUOCO NATA, e Virgilio riguardando al principio della medesima disse che i semi ch’ella comprende hanno: VIGOR DI FUOCO, ORIGINE CELESTE.
Significa adunque il Fuoco quella parte suprema dell’anima nostra, la quale è detta mente. La SPADA è simbolo, e hieroglifico della morte. Quindi gli Scithi, che in molte cose furono seguaci, e imitatori de gli Egittij, erano soliti giurare per lo vento, e per la scimitarra, per essi la vita, e la morte intendendo. Il FERIRE, o il percuotere per translazione appartiene anco alla lingua, e al parlare, e però leggimo ne’libri sacri, che la parola di Dio è più acuta e penetrante d’ogni spada.
NON PERCUOTERE IL FUOCO CON LA SPADA dunque significa, non dir già mai, che la morte habbia potere sopra le menti nostre, perciò ch’esse sono immortali, e incorruttibili: e però dicesi che tra i sapienti Greci Pitagora fu il primo, che affermasse l’immortalità de gli animi. Iamblico stima, che questo simbolo sia morale, e che tutto appartenga all’achettamento dell’iracondia, come all’huomo prudente si convenga constituire l’animo in tranquillità, e guardarsi sommamente dall’impeto di questo affetto, il quale di sua natura impedisce la cognizione della verità.

VIII) "SPIRANDO I VENTI ADORA ECHO"

il vento è simbolo dello spirito di Dio, co’l quale nella lingua santa comunica nel nome, questi muove la mente, indi eccita la ragione, e toccata la immagine o idolo riflette, e per i medesimi gradi ritorna all’unità intellettuale illustrando, accendendo, e elevando a Iddio tutte le parti animali, finchè le faccia uno spirto con esso: questa reflettione chiamano i Theologi simbolici ECHO, e i Cabalisti BATHCHOL, cioè figliola della voce, e perche essa per tutta la regione animastica spande un divino, e beatifico splendore, perciò è degna d’essere adorata, e riverita senza alcuna indurazione di cuore; acciochè non ci avvenga quello, che a Narciso avvenne, il quale l’innamorata Echo ingratamente fuggendo saccese della propria immagine veduta nella limpidezza del fonte, e per immenso, e insopportabile ardore a poco a poco s’estinse; percioche l’Echo innamorata di Narciso significa esso divino Spirito discendente alla illustrazione dell’animo nostro, Narciso, che fugge l’homo impuro, e vizioso, ch’alla divina voce non acconsente, e il qual s’innamora dell’immagine sua veduta nel fonte; perciochè l’animo sommerso ne i sensi segue l’ombre corporali, e fugge il lume della bellezza intellettuale, e perciò spogliato delle proprie native e celesti forze, tutto terreno, debole, e difettoso diventa; quindi Narciso non altro che torpido, esangue, e macilente significa.
Ci consiglia dunque Pitagora con questo simbolo ad adorare Echo, cioè ad acconsentire allo spirito della divina grazia, il quale riflettendo, e ritornando indietro alla somma unità ci rivolge. Hoggi (grida il Signore nei Salmi) se voi sentirete la voce mia, non vogliate indurare i vostri cuori, come nella esacerbazione secondo il giorno della tentazione nel deserto dove mi tentarono i padri vostri, mi provarono e videro l’operazioni mie. Quasi voglia dire, adorate l’Echo, cioè la riverberazione d’esso mio spirto, e acconsentite al chiamare della mia voce, e non imitate i padri vostri, i quali viziosamente vivendo rimasero torpidi, esangui, e estinti nel deserto corporale.
Iamblico afferma, che questo simbolo è teorema della divina Sapienza, insegnandoci ad amare le immagini delle essenze, e virtù divine, e operando azioni consonanti a riverire con sommo studio i ragionamenti loro.

IX) "SOCCORRI AD HUOMO, CHE SOLLIEVA ALCUNO PESO, MA NON A CHI’L DEPONE"

L’Huomo nell’anima nostra è secondo Filone, preso per quella parte maschile, la quale è detta ragione e mente; il peso è la portione appartenente al senso, con tutta la gravezza de gli affetti corporali; la ragione, alhora ch’ella dalle cose terrena ascende alla copula intellettuale, è detta elevar questo peso; percio ch’ella così ascendendo tutte le parti animali purifica e nobilita, e alhor si verifica quel detto di Zoroastro,”PERCIOCHE, NE ANCO IL CORPO MATERIALE AL PRECIPITIO LASCERAI”, questa elevatione veramente gloriosa fatica è degna di eterna laude; e perciò è celebrato da tutti gli scrittori Hercole nel sostenimento del cielo; il laudare le operationi della Virtù è porgere aiuto all’operante con l’affetto, e cooperare con lo spirito, e questo ci persuade Pitagora; percioch’egli è indizio d’animo egualmente virtuoso; poi che l’amore nasce tra i simili, e il compatire non è senza amore. Nel medesimo simbolo ci dissuade il contrario, vietandoci l’aiutare chi depone il peso, cioè il laudare, e amare gli animi effeminati, e molli, i quali abbandonando l’impresa della virtù e facilmente cedono a i tentennamenti, e a gli inviti della voluttà. E perciò scrive Iamblico, che i Pitagorici chiamano questo simbolo Herculeo, e esortatorio alla fortezza, applicando al proposito di esso tutti i famosi fatti del grande Alcide.

X) "CALZANDOTI VESTI PRIMA IL PIE’ DESTRO, E NELLA CONCA METTI IL SINISTRO"

Il pie’ destro senza alcun dubbio significa la parte virile, e rationale dell’animo nostro, e il sinistro la sensuale, e nella cura corporale immersa, calzare il piede significa operare, e virtuosamente esercitarsi; questo conviene ad essa, nostra destra interna tutta attiva e operante, onde non altro significa, vesti prima il pie’ destro, se non fa che in tutte le tue azioni la virtù ottenga il luogo principale, e insomma fa che tutte le tue operationi siano virtuose. E perciò diceva il Signore per bocca di Geremia Profeta alla spirituale Gerusalemme, “LIEVA LA NUDITA’ A I TUOI PIEDI, E LA SETE ALLA TUA GOLA”, e San Paulo Apostolo a gli Esseni: cingetevi i lombi in Verità, vestitevi la Lorica della Giustizia, e calzatevi i piedi nella preparazione dell’Evangelio della Pace. E perchè nella conca si fanno i bagni, con i quali si lavano le immonditie de i piedi, ella nel suo restringimento viene a dinotare la purgatione intrinseca, la qual nasce dal pentimento, in cui si ha da sommergere la parte immonda dell’animo nostro per liberarsi dalle macchie, e fedità corporali. E perciò agiunge Pitagora nel medesimo simbolo, che il sinistro pie’ si ponga nella conca, cioè, la parte irrazionale doversi consegnare alla vera e salutifera purgazione morale, e più innanzi segue nel medesimo simbolo: “NON PARLARE SENZA LUME DE’ PITAGORICI, OVVERO DELLE COSE DIVINE.
Tre parti ha l’animo nostro Unita intellettuale, essenza razionale, e vita sensuale. E tutte tre sono in questo simbolo ricordate, perciochè la parte sensuale è il pie’ sinistro, il quale deve lavarsi; la razionale il destro, da cui s’aspetta l’operazione, e l’intelletto il Lume, così anco il chiamò il profeta in quel luogo “ET NEL TUO LUME VEDREMO IL LUME” co’l quale solo deve l’huomo ragionare delle cose sublimi e divine, e quali sono da i Pitagorici insegnate.

XI) "NON TRAPASSAR LA BILANCIA"

Questo simbolo scrive Iamblico, ci comanda che noi viviamo giustamente, e preferiamo a tutte le cose l’equabilità e la mediocrità; c’insegna parimenti a conoscere la perfettissima virtù della giustizia, di cui sono compimento tutte le altre virtù, si ch’ella quasi cielo lucidissimo tutte in se stessa le comprende, la onde, come il medesimo Iamblico scrive, ella non deve a caso intendersi ma per theoremi, e per la dimostrazione madre della scienza, la qual cosa è propria solamente della filosofia Pitagorica, da cui sopra tutte l’altre scienze sono le Matehematiche honorate.

XII) “ANDANDO IN PEREGRINAGGIO NON TI VOLTARE IN DIETRO; PERCIOCHE ALHORA PASSANO LE FURIE”

Chiunque si pone in alcun lungo viaggio non è dubio alcuno, ch’egli ha da lasciar dietro tre cose, la terra dov’egli abita, i parenti, e la paterna casa. Così nella divina historia di Mosè volendo il Signore far peregrino Abrahamo, gli disse, esci dalla terra dove habiti, dalla cognatione tua e dalla casa di tuo padre e vieni nel paese, ch’io ti mostrerò (e ecco il fine di questo gran viaggio) perciò ch’io ti farò in gente grande ti benedirò e magnificherò il tuo nome, e sarai benedetto, e più oltre, e saranno benedette in te tutte le tribù della terra. Di simile pellegrinaggio forse intese Pitagora per avventura erudito ne’ libri santi; perciochè non insegnando a i seguaci della sua dottrina altro che vera quiete e somma tranquillità, non havrebbe permesso ch’eglino peregrini e senza volgersi indietro fatti si fossero senza un altissimo e degnissimo premio, al quale come ad ottimo fine, voleva che forti costanti e immutabili s’incamminassero senza divertire ad alcun’atto estraneo. Ma che più alta e più degna mercede poteva proporre al continuato viaggio loro del conseguimento della Sapienza? La quale è vera e certissima benedizione. La terra o regione, che lascia il peregrino indietro, dichiara Filone, essere il corpo, nel quale, per quanto dura lo spazio della presente vita, habita la mente humana: quindi il medesimo Mosè, nella sua divina historia, scrive,che Dio creò un corpo di terra, e altrove leggesi “di terra sei, e nella terra tornerai”.
I parenti sono i Sensi, con i quali sensibilmente conosciamo quanta cognitione e amicizia habbia l’animo nostro.
La casa paterna è il discorso humano, nel quale alberga l’intelletto padre nostro; né deve (come soggiunge Filone) alcuno maravigliarsi, che la ragione si chiami casa e domicilio dell’Intelletto: poiché il grande Iddio Intelletto Primo, e sopra eminente di tutto l’huniverso ancor’egli habita nel Verbo suo, il quale è la Sapienza, e il Discorso di essa deità, come nel proprio tetto. Quindi Giovanni Santo nell’altissimo principio del suo Evangelio scrisse, che nel principio era il Verbo, e il Verbo era appresso Iddio, e Dio era il Verbo, e tutte le cose per esso si fecero e quindi ne i Misteri Cabalistici alla divina Sapienza è attribuita la lettera BETH, che “casa” significa.
Cercasi, scrive Abrahamo Recanati ne i Commentari sopra il Genesi, perché la lettera Beth sia posta nel principio della Legge, cioè della parola BERESSITH? E risponde il medesimo ciò farsi, perch’ella è casa della Sapienza. L’Intelletto dunque eletto alla divina e sublime contemplazione inteso per Abrahamo, il quale, come afferma Filone nel libro de’Giganti, perciò significa Padre sublime, Huomo di Dio, e padre eletto del suono, è comandato di porsi in peregrinaggio, cioè d’elevarsi alla celeste meditazione e di uscire dal corpo, da i sensi, e dall’istesso discorso, significati per la regione, per li parenti, e per la casa, ma non di separarsi totalmente dall’essenza loro, e però usa il Signore la parola “esci” percioché altrimenti non l’astrazione mentali, ma la morte naturale gli havrebbe commandato Iddio; e insomma contiene, questo precetto, tal sentimento, aliena l’animo tuo di maniera che non t’impedisca alcuna di queste parti, si che non t’innalzi sopra tutte le cose: esse ti sono suddite, e però avertisci ch’essendo tu il Re loro, non te le costituisca per Principi; impara a non stimare simili Signori, e conosci perpetuamente te medesimo, che perciò Mosè Sapientissimo in più di un luogo ci ammonisce con queste parole: “Attendi a Te stesso”, quasi voglia dire, che così tu conoscerai a chi tu devi ubbidire, e a chi comandare, e così anco scrivono gl’historici greci, che Socrte padre de’ filosofi lasciando ogni altra filosofia da canto infino alla morte attese sempre all’osservazione di quell’oracolo Delfico, CONOSCI TE STESSO.
Esci dunque, dice il Signore e fuggi da questo tuo terreno, e contaminato carcere corporale, e abbatendo le concupiscenze custodi te medesimo, esci anco dall’affinità de i sensi, i quali ogni poco che tu allenti e ritardi il fuggire da essi, ti riteneranno, e di nuovo nell’oscurissima prigione ti porranno: ma ne anco hai da fermarti nel discorso del quale è immagine il parlare estrinseco; accioché ingannato dall’ornamento delle parole, e di i nomi, tu non venghi a lasciar da conto la vera bellezza, che consiste nella cognitione essentiale delle cose: ma finalmente alzandoti glorioso nella Rocca della intellettuale Unità, avanzando anche l’altezza della natura Angelica, hai da farti tutto regale, e divino. Così questo spirituale Abrahamo tutto dedicato a Iddio, di cui si è fatto seguace, e imitatore, indirizza in questo fortunato peregrinaggio tutti i passi della sua vita nella strada veramente regale del Sommo e unico Re dell’Universo, non torcendo i suoi passi né da questa né da quella parte, né per viltà né per mallitie, né per imbecillità volgendosi indietro giàmai.
Alle quali cose mirando Pitagora comanda in questo simbolo che il peregrino non si rivolga indietro. Così l’istessa divina Sapienza diceva nell’Evangelio, “e non salutarete alcuno per la strada”, cioè essendovi posti in questa beatifica fuga, non divertite a cosa materiale lo spirito, ascendente dalla confusa moltitudine all’unità paterna: percioché, soggiunge Pitagora, “Passano le Furie”. Dal circolo della generazione, scrive Mercurio nel Pimandro, vengono in questo humano, e corporeo tabernacolo dodici Furie ultrici, cioè l’ignoranza, la tristizia, l’incostanza, la cupidità, l’ingiustizia, la lussuria, la decettione, l’invidia, la fraude, l’ira, la temerità, e la malitia: sotto le quali ne vengono altre infinite nate dalla varietà degli affetti corporali, e degli appetiti della carne, e da queste Furie bisogna guardarsi, percioché esse hanno forze d’avelenar lo spirito, e d’indurlo in estrema miseria. Ma l’huomo interno e nobile peregrino ascendendo a Iddio le fugge, e se ne libera lasciando ch’esse infelici e misere, e crucciose adietro rimangano nell’inferno della materia sommerse.

XIII) “NON PISCERAI CONTRA’L SOLE”

Il pisciare è azione de’ genitali, questi hanno due emissioni del Seme, e dell’escremento dell’orina: con la prima constituiscono il simbolo, e hieroglifico della Natura universale, e come dissi ragionando di PAN, significano raccoglimento di celeste fecondità. L’altra emissione dimostra i pensieri, le attioni, e i ragionamenti lascivi, sterili, e infruttuosi.

Il Sole è simbolo del giorno intellettuale, cioè di quella ILLUSTRAZION MENTALE, che accende e illumina tutte le parti della ragione animastica, le quali in essa devono santificarsi, e rimuoversi non solamente da pensieri inhonesti, ma etiando da ragionamenti otiosi, e profani. Così Paolo Santo agli Efesi scrive: la fornicazione e l’immonditia non si nomini fra voi, come conviensi a Santi, e non si usi parimente fra voi la dishonestà, il parlar imprudente, e la scurrilità. Per la proporzione c’hanno i genitali co’l ragionamento, gli antichi per Mercurio barbato, e con i genitali eretti intendevano il parlare efficace, e operante: una simile statua fu, come racconta Pausania, appresso i Cillenij. Significa dunque questo simbolo nel tempo della tua santificatione non penserai, ne’ dirai cosa inhonesta.

XIIII) “NODRISCI IL GALLO, MA NO’L SACRIFICARE; PERCIOCH’EGLI E’ CONSACRATO AL SOLE E ALLA LUNA”

Il Gallo in questo luogo, e appresso Platone nel libro della immortalità de gli animi, è preso per quella parte purissima e divina dell’animo nostro, la quale è detta unità mentale, fiore e capo del medesimo, che deve essere pasciuta, e nodrita da noi co’l solido cibo della celeste ambrosia, cioè della cognitione delle cose divine. Quindi Socrate dovendo morire, e perciò sperando di ritornarla alla felicità del mondo ideale, disse, ch’egli era debitore del Gallo ad Esculapio, simbolo del vero e eterno medico degli animi nostri. Questo GALLO non deve sacrificarsi, cioè, non deve consumarsi nel fuoco de gli ardori illeciti della carne, percioch’ egli è sacro al SOLE, cioè al divino intelletto, e alla LUNA, cioè, all’anima regia, o gran natura, che questo universo vivifica e governa, della quale come afferma Plotino nel libro contra i Gnostici, è sorella, e si fa collega l’anima nostra, sollevandosi con essa nella sublimità della provvidenza universale, ove non è servitù, significata per l’animale sacrificato; ma libera letitia, e felicissima, e perpetua libertà, della quale è anco simbolo il GALLO, che di sua natura audacissimamente e con ogni ardore è solito di combattere per essa libertà, cedendo più presto con la debolezza delle forze, che con l’animosità dello spirito: la qual cosa espresse gentilmente Ione poeta tragico in quei versi,

“ne cede, bench’egli habbia il corpo, e gli occhi
da vari colpi lacerati e stanchi,
ma cessando la forza ei cade, e geme,
et vivo altrui servir si lagna, e duole”

Dicesi che Miliciade Imperatore de gli Ateniesi, quando il Re de Persi destate tutte le forze d’Asia passò con quel famoso e innumerabile esercito in Europa, come ch’al primo grido fosse per opprimere tutta la Grecia, havendo convocati i compagni nel Panathenaico gli mostrò due Galli, ch’insieme combattevano, immaginandosi che questo spettacolo dovesse più facilmente commovere e incitare gli animi loro, che qualsivoglia forza di premeditata orazione: ne l’ingannò punto questo suo pensiero; percioch’eglino veduta in questi animali la patiente, e pertinace battaglia, e che fino alla morte con petto invitto combattevano prese in un subito l’armi abbracciarono quella impresa con animi valorosi, come, che havessero da combattere, e vincere con infinita strage de’ nimici, dispregiando le morti, e le ferite con che almeno fossero i loro corpi sepelliti nel libero terreno della patria.
Ci persuade Pitagora dunque in questo simbolo a non lasciar già mai che la parte eccelsa, e sublime dell’animo nostro significata per lo Gallo si sottoponga alla servitù veramente vergognosa, indegna, e a spiriti nobili intollerabile de gli affetti, delle passioni, de’ desideri e de gli appettiti sensuali. Nelle quali cose non essendo altro che vitio, che viltà, e che miseria, per conseguente non vive, ne si ritruova alcuna parte di vera libertà. Esempio di questa LIBERA e GLORIOSA NOBILTA’ DI SPIRITO habbiamo in quelle parole del famoso Alcide appresso Euripide:

“Accendi, ardi la carne, e del mio sangue
Ti satia, che le stelle al centro andranno,
Et la terra nel ciel porrà il suo seggio,
Prima che da me cavi indegna voce”

E il cinico Diogene famoso imitatore della patienza, e del valore Herculeo fu d’animo così eccelso, e invito, ch’essendo nelle mani de’ ladroni, e trattandolo essi malignamente de magnare, ne’ della presente fortuna, ne’ della crudeltà di coloro, che prigione il tenevano spaventato arditamenti gli disse, essere cosa iniquissima, che i porci, e gli agnelli, che s’hanno da vendere, s’ingrassino diligentemente, e che l’huomo eccellentissimo animale sia crudelmente macerato dalla fame, come ch’egli per questa via più vile e di minor pretio non ne divenga, e havendo per questa libertà di dire ottenuto il debito cibo, magnò allegramente fra molti altri, che insieme con esso dovevano vendersi, e ad uno di essi, il quale più degli altri di quella disaventura dolendosi non voleva magnare, rivolto disse, lascia d’attristarti, o compagno, e contentati per hora di quello, che ti appresenta la fortuna; percioché

“Niobe non lasciò l’usato cibo,
se ben giacean sotto l’infausto tetto
dodici figli orridamente uccisi”

E con maggior libertà essendogli da chi voleva accomperarlo adimandato, che cosa egli sapeva fare? Rispose, che sapeva commandare a gli altre huomini: la qual voce dimostrò il libero, generoso, e veramente regale animo suo: e datosi liberamente a i motti, e alle burle, secondo il solito, veggendo fra gli accompratori un certo giovane effeminato, e molle, per quanto dall’aspetto conoscere si poteva, lo chiamò a se, e gli disse, ò buono compagno accomprami tu, percioch’io veggo, che tu hai bisogno d’un marito. Un altro esempio di questa nobile libertà di spirito ci lasciò Calano Gimnosofita Indiano, il quale volendo il Magno Alessandro condurre in Grecia contra il voler loro alcuni di quei sapienti, questa lettera esempio eterno d’ingegno costantissimo nella libertà nativa gli scrisse:

Calano ad Alessandro – “Gli amici tuoi ti persuadono, che tu sforzi i Filosofi INDIANI, non havendo ne anco per insogno riguardate le cose nostre, e le nostre facende. Tu potrai bene trasportare i nostri corpi da un loco a un altro, ma tu non potrai giamai far forza a gli animi nostri: e non più, che se tu volesti sforzare le pietre, e i legni a mandar fuori la voce. Il fuoco ne i corpi vivi introduce massimi dolori, e non senza rovina corporale, ma questo noi dispreggiamo essendo etiando abbruciati vivi. Nissuno Re, e nissuno Principe può fare, che noi operiamo giamai cosa alcuna contra la determinatione dell’animo nostro. Noi siamo simili ai Greci, i quali recitano nelle frequenti adunanze premeditate orationi; percioché le parole appresso di noi non sono diverse dalle operationi; e in breve spatio di tempo noi acquistiamo la beatitudine, e la libertà insieme”

A questi concetti dell’Indiana generosità è simile quel detto di Zenone, che più facilmente si potrà sommergere un ventre gonfio, e pieno di vento, che costringere uno Spirito nobile a far cosa, che sia contra il suo volere, percioché l’animo invitto, e confermato ne gl’istituti della retta ragione, non può cedere ad alcuno. E che altro è lo spirito nobile, e l’animo invitto se non il GALLO di Pitagora? Etiando co’l testimonio di Luciano nel dialogo “dell’insogno”, il quale non deve sacrificarsi, cioè non deve sommergersi nell’ardore, e nella vanità de gli affetti corporali, ma deve consecrarsi al SOLE e alla LUNA, cioè, alla contemplazione della divina intelligenza e dell’ordine, che la natura prima osserva nel governo universale, come fra tutti gli huomini il Filosofo, e Contemplatore solo sia LIBERO, e a niuna servitù sottoposto.

XV) “NON SEDERAI SOPRA LA CHENICE”

Questa voce Chenice come dichiarano Suida, e Andrea Alciato veramente illustre Giurecunsulto, significa una sorte di misura, che contiene tanto cibo, che basti per lo vivere d’un giorno. Palladio fu di parere, che la Chenice fusse voce, e misura Siria; nondimeno la troviamo usata da Erodoto nel Sesto, ov’egli scrive, a i Re di Sparta, che non si truovano alla cena si mandano due Chenici di farina, e una cotyla di vino: l’usa parimente Homero la dove Telemacho figliolo d’Ulisse così ragiona con Euriclea,
“Non lasciarò tardar chiunque sia
De la chenice mia stimato degno”

E prende in questo luogo per lo cibo, o per lo alimento diurno. Il medesimo Alciato scrive ne’ “Paregi” questo simbolo significarci, che niuno debba contentarsi del presente cibo, ma più tosto debba essere sollicito del giorno seguente, il contrario espone San Geronimo, il qual vuol che sia conforme a quel detto Evangelico, non vogliate essere ansiosi del giorno seguente. Cirillo il dichiara che la parte rationale, onde l’anima misura, e esamina tutte le cose, non debba lasciarsi marcire nell’otio, e nella desidia, Plutarco, ne’ conviti scrive, che da questo simbolo siamo avvertiti a ricordarsi del giorno seguente, e perciò a conservare qualche parte della presente alla futura mensa. E Iamblico afferma doversi intendere per esso che il cibo intellettuale non si può con alcuna corporal misura essere stimato, ne’ giudicato, ma doversi MISURARE CON LA SUBLIME CONTEMPLAZIONE, e con le certe discipline, e noi possiamo di più dire, che la Chenice e per la forma, e per lo fine, è simbolo del mondo sensibile, in cui sono contenute, e misurate tutte le cose corporali.
Il sedere, secondo i simbolici, significa cessare da qualche impresa cominciata. Esorta dunque Pitagora chiunque segue i suoi mirabili instituti a non fermare la sua contemplazione nelle cose corporali, ne’ a contentarsi d’essere filosofando giunto alla natura d’esso Universo corporale, ma debba più innanzi arditamente ascendere alla deifica INTUIZIONE degli ARCHETYPI del mondo ideale.

XVI) “NON TAGLIRAI NELLA STRADA”

Cioè, non ti fermare nel beatifico viaggio dell’ascensione MENTALE ma AFFRETTATI DI CAMMINARE finché TU GIONGA ALL’UNO MASSIMO ASSOLUTO e INFINITO, nella cui apprensione l’intelletto fuggito dalla miseria corporale acquista il RISO della perpetua, e indeficiente letizia. E perché di questo viaggio si è detto altrove, vengo a gli altri.

XVII) “NON PORTARAI NELL’ANELLO IMPRESSA L’IMMAGINE DI DIO”

L’anello è simbolo, e segno matrimoniale, e per conseguenza del congiongimento dell’anima col corpo, e però nella presente vita in essa non s’imprime la divina effigie; percioché non deve ad alcun huomo attribuirsi la divinità; il qual simbolo se da gli antichi fosse stato inteso, e conosciuto, senz’alcun dubbio non havrebbono nella superstiziosa religione loro introdotta l’infinità de’ loro falsi iddij.
Oltre di ciò può significare questo simbolo, che l’huomo vivendo in questa vita mortale dinotata per lo anello non può acquistarsi la vera betitudine, la quale consiste nella vera e certa apprensione della divina sembianza, a che fu conforme Platone nell’Epinomi, ov’egli disse io stimo, che sia impossibile a gli huomini fuori d’alcuni pochi di acquistare la felicità e la beatitudine. Ben ci rimane una buona speranza, che puotrà totalmente conseguirla chiunque acceso dal desiderio di essa ha passato a tutto suo potere ottima e virtuosissima vita.

XVIII) “NON CONTEMPLARE INTORNO ALLA LANTERNA”

Cioè, non spererai di apprendere l’altissima notizia de’ divini esemplari con la sola virtù del lume ingenito, e naturale significato per quel piccolo lume rinchiuso nella lanterna, si com’egli può dirsi: circondato da questa spoglia sensibile, e corporale; percioché si ascende a quell’altezza co’lume infuso della divina grazia, il quale di sua natura è sempre accompagnato da vivacissima fede, che trascende ogni ordinario, e natural discorso.

XIX) “NON PORGERE FACILMENTE LA DESTRA A CIASCUNO”

Questo simbolo è precetto proprio della setta Pitagorica, e con esso avvertisce il Gran Maestro, secondo la dichiarazione di Iamblico, non doversi comunicare a gli animi indegni, e NON ANCORA INIZIATI quelle occulte dottrine, e quei secreti instituti che solamente si palesano, e si insegnano a gl’ingegni sacri, sublimi, e per longo tempo esperimentati.

Mercurio

***

breve nota su ALESSANDRO FARRA

Nasce in provincia di Alessandria (a Castellazzo Bormida) nei primi decenni del XVI secolo. Di famiglia nobile, segue con passione gli studi umanistici componendo fin da giovane versi in latino e toscano. Segue studi di giurisprudenza a Pavia dove continua a coltivare i propri interessi letterari e approfondisce anche le proprie conoscenze di Filosofia, logica e retorica. Non ancora laureato è nominato membro dell’Accademia degli Affidati di Pavia che ha come simbolo il “Mercurio”, e prende il nome di “il DESIOSO” perché, secondo quanto ci riferisce il Contile (Luca Contile, Ragionamento sopra le proprietà delle imprese con le particolari de gli Academici Affidati, Pavia 1573, pp.77s)., “il desiderio dell’uomo altro oggetto per cosa principale aver non deve che d’alzare la mente a Dio” e come simbolo l’uccello del paradiso (detto manucodiata) che, secondo la leggenda, non si appoggia mai a terra!

(Si può notare una curiosa somiglianza tra il nome del Farra e “l’Uomo di DESIDERIO” simbolo del Filosofo Incognito!)

Pubblica nel 1564 a Pavia da Girolamo Bardi “Tre discorsi….”, opera interessante ed erudita che segue la tradizione platonica e ficiniana. Il “Secondo discorso” è intitolato “Della Divinità dell’uomo”.

Il marchese di Pescara, Francesco Ferdinando Avalos, nel 1570 nomina il Farra Governatore di Casalmaggiore.

Nel 1571 pubblica presso Zanetti a Venezia, il “Settenario dell’humana riduttione” di cui viene ristampata, sempre a Venezia, una seconda edizione riveduta e corretta presso Bernardo Giunti. nel 1594 - “il trattato, diviso in sette “ragionamenti”, è un tipico esempio di letteratura pitagorico-ermetica, in cui sono presenti i temi della tradizione matematica neoplatonica e di quella cabalistica con chiare influenze Pichiane. ….in particolare, nella parte intitolata “filosofia simbolica” (il simbolo è visto come segno evocativo della Sapienza!)”.

Come ultima annotazione ricordo che il Farra risulta discepolo del Mago Giulio Camillo Delminio, ed importante è l’amicizia che lo lega a Luca Contile, membro della stessa Accademia degli Affidati e fondatore dell’Accademia Veneziana!

 


Sculpture of Pythagoras within the tympanum at the right bay of the royal portal of Chartres Cathedral (1150-1170)

 

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