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Bene e male

Questo pianeta, in cui lo "stato individuato umano" esiste da svariate migliaia di anni, è talmente intriso di "male" da far pensare a molti che il bene non debba proprio esistere.
L'ente planetario ha sempre sofferto, soffre e soffrirà per la potenza del male che lo tortura, lo inebetisce e lo rende alienato. La storia dell'umanità è stata più o meno caratterizzata da lotte intestine, da guerre fratricide, da violenze di ogni genere tali da oscurare ogni razionalità. Alcune dottrine considerano questo nostro pianeta non sacro; vale a dire un pianeta - meglio, il suo stato coscienziale - scisso dall'Armonia universale. E' una sfera di dolore perchè in essa impera il senso dell'io, della separatività e del non riconoscimento del proprio ruolo in seno alla natura.
Fino a quando gli individui non si soffermano un pò a meditare sul loro vero stato esistenziale, fino a quando non prendono in considerazione la visione totale, integrale della propria costituzione coscienziale non sarà possibile comprendere il male e tantomeno risolverlo e trascenderlo. Eppure tante personalità, di statura immensa, hanno cercato di far capire e persino dato indicazioni per eliminare la condizione di indigenza, di povertà conoscitiva e spirituale.
L'uomo è arrivato a un tal punto di smarrimento da essersi appiattito e rassegnato a vivere quella "parte di sè" che manifesta espressamente l'ignoranza e quindi il dubbio e la confusione, con tutte le conseguenze del caso. Molti (e non solo la parte "massa" dell'umanità) considerano l'ente come un semplice fenomeno corporeo che proviene dal nulla e al nulla ritorna e la cui contingente apparizione non apporta altro che contraddizioni, violenza e male. A volte si può persino pensare che il male si diventato un aspetto reale e ineluttabile al quale bisogna sottostare, fino a considerarlo parte integrante e legittima del vivere quotidiano. Ciò rappresenta il totale annichilimento della coscienza umana. Sotto questa prospettiva il nichilismo è la visione madre dell'uomo, ma esso è la forma più oscura riduttiva e imprigionante che l'ente abbia proposto a sè stesso e agli altri.
Poniamoci alcune domande, evitando aprioristicamente un rifiuto ingiustificato e cerchiamo di rispondere presentando alcune vedute di estrema utilità che i nostri veri Padri e Maestri ci hanno indicato come soluzione per comprendere e risolvere certe cose.

Qual è la natura del male?
Qual è la sua origine?
Il male è una realtà assoluta?
All'esistente è necessario il male?

Per comprendere adeguatamente la natura del male è opportuno comprendere prima la natura del bene.
Il bene - come supremo accordo di sè con sè stessi, quindi con gli altri - è felice espressione del vivere a qualunque livello e grado, è quel bene che comprende l'unità della vita, che riconosce la molteplicità come sviluppo dell'unità, che riconduce tutti gli enti all'Ente Supremo; è quello stato in cui si riconosce l'altro come indivisibile dalla propria natura. Il bene è la condizione dell'aver compreso la  totalità di sè stesso, è quella espansione di consapevolezza tale da lambire la circonferenza vitale.
Il bene è il fondamento unico e indivisibile del tutto esistente; e in colui che lo alberga, essendo egli medesimo divenuto bene, non può nè germogliare nè attecchire il male.
Questo tipo di bene lo possiamo riferire alla sfera sovrarazionale, sovrasensibile e universale nella sua più autentica accezione; mondo sensibile, commensurato, compiuto, sostanziato di Armonia, come affermano i più grandi Maestri o Saggi del passato e del presente. In tale mondo non possiamo trovare nè l'origine nè la natura del male.
Se accettiamo la natura del bene così come l'abbiamo esposta, di conseguenza comprenderemo quella del male. Il male ha la natura della separazione, della scissura dall'Intellegibile, della contrapposizione, dell'assolutismo dell'io in quanto fattore di distinzione; è la dissociazione dall'Essere, dall'Unità; è il costituirsi come elemento disgregante; è la condizione di sprofondamento nella totale differenziazione fino a far perdere il germe stesso della razionalità. Lo stesso termine "diavolo", personificazione del male, deriva dal latino diabolus e dal greco diàbolos (diàbolos da diabàllo), parole che significano calunniare, maledire, essere ostile, proporre discordia, quindi separazione da ciò che può unire.
Il male non è l'opposto sostanziale del bene, ma la degenerazione di una parte dell'ente che si è scissa dall'Intelligibile fino a costituirsi come realtà autonoma ed esclusiva.
Il male non può essere una realtà assoluta perchè rappresenta solo un "degrado"; anche se rientra come possibilità, si può dire che è un "accidente" in termini aristotelici. D'altra parte, non possono esistere due assoluti: il bene e il male.
Una dualità assoluta non è concepibile anche perchè è contraddittoria e i due si annullerebbero reciprocamente. La luce e la tenebra, come ogni dualità, non costituiscono due realtà essendo l'una la mancanza dell'altra. Constatiamo anche che i vari mali degli enti, propaggini del male originario, sono aleatori, modificabili e persino annullabili.

Ma qual è l'origine del male?

Se gli enti intelligibili esprimono accordo, pienezza, beatitudine, quindi perfetta commensura tra sè e sè stessi, e di conseguenza tra sè e il tutto esistente, vuol dire che in un dato "momento" v'è stato uno scollamento, uno stacco, per cui si è operata una scissura e l'ente si è costretto nella molteplicità opposizione-repulsione, nell'io e non-io, nella generazione del corporeo distintivo.
Ma un ente, che è unità e pienezza, può mai diventare molteplicità e povertà? Si può mai cambiare natura? Se la natura è lo stato permanente di una cosa, per cui essa è quello che è e non può essere diversamente da ciò che è, allora l'ente, avendo la natura della pienezza beatitudine, non può trovarsi d'un tratto con una natura diversa e addirittura opposta.
Se il male-povertà-dispersione è nel mondo del sensibile e non in quello Intelligibile (il fenomeno non può non presupporre il noumeno, il composto il semplice e l'inferiore il superiore) significa che l'ente intelligibile rimane identico a se stesso e quanto di esso si trova nel sensibile è un suo "riflesso" , una sua "ombra", una sua funzione, un suo specificarsi, un raggio diffusivo e anche dispersivo che, pur partecipando al suo arkè, principio divino, non è il vero ente nella sua pura essenza (ousia) e realtà.

"Qual è mai la causa che ha reso le anime - le quali pure son parti staccate di lassù e appartengono anzi completamente al mondo superno - dimentiche del loro padre Iddio e ignare di sè stesse e di Lui? Ebbene, prima radice del male, per esse, fu la temerarietà, e poi il nascere e l'alterità primitiva e la voglia di appartenere a sè stesse. Così, ebbre, visibilmente, di quella loro autodecisione, poi ch'ebber fatto il più largo uso di quel loro spontaneo movimento, dopo quella gran corsa sulla via contraria, distanziate che furono per sì gran tratto, finirono alfine per ignorare sè stesse e la loro origine ..."

L'ente nel sogno può proiettare un'immagine di sè che, per quanto sostanziale, non è reale-assoluta, e quest'immagine cedendosi realtà a sè stante, scissa dalla sua fonte, è in condizione alienata.
Il mondo della precipitazione, del sensibile e del divenire è un mondo in cui l'immagine rovesciata del vero ente opera in opposizione alle altre "immagini". E' il mito della caverna di Platone. Questo riflesso coscienziale della pura Consapevolezza intelligibile, per quanto apparentemente vivo, diremo che è un "morto" vagante, un ente di sogno che appare e scompare dall'orizzonte intelligibile; il male è solo un effetto, un prodotto che turba l'armonia del mondo ma non la può distruggere.
La scissura, per quanto non assoluta, non è operata dal vero ente ma dal suo riflesso il quale credendosi autonomo e separato dalla sua fonte, opera come se fosse il solo esistente, disconoscendo la sua paternità: "staccate da lassù... con la voglia di appartenere a sè stesse..."
In ciò si delinea il processo dell' "individuazione", della "particolarizzazione" dell'esistente sensibile. Così, è il sensibile che si stacca dall'Intelligibile; questo, inglobando e contenendo le indefinite modalità vitali e costituendo i fondamento metafisico di tutto l'esistente sensibile, non può staccarsi da niente e da nessuno.
Esso è l'Intero.
L'ente, quale realtà e unità, non può scindersi per costituirsi altro da sè, può comunque proiettare, per la sua facoltà creativa, un alter ego il quale non sarà altro che un'apparenza, un'immagine che, per quanto consistente, non potrà essere reale, perchè di realtà ve n'è una sola.
Un reale non può produrre un altro reale se già esso stesso è reale, nè ancora può produrre un niente, per cui il dato sensibile non è come le corna di una lepre o il figlio di una donna sterile, secondo l'esempio di Sankara; ciò che esso può manifestare è solo un fenomeno (da phainomai = io appaio).
L'Essere (tò òn) micro o macrocosmico, è; la vita formale, secondo Parmenide , appare e scompare dall'orizzonte noetico, e ciò è un'evidenza.
L'origine del male risiede in un atto proiettivo dell'ente reale, proiezione che determina l'altrettanto apparente smembramento di sè.
Plotino parla di temerarietà dell'Anima di uscire fuori di sè, come tendenza diffusiva, potenza attiva e dispersiva in reiterati "riflessi" formali.
Ma questo evento è una necessità, un'ineluttabilità dell'ente? Se l'ente intelligibile è totale pienezza, è anche totale libertà, e in questa libertà esso può offrirsi delle determinazioni; così ogni determinazione, essendo accidente, ha come causa il non-determinato. La libertà non è un suo attributo, il quale può esserci e non esserci; è, diremo, consustanziale all'ente, ed essendo tutto può tutto tranne che inficiare la natura dell'ente, quindi di sè.
Noi riconosciamo che l'esistente-sensibile umano può può pensare-proiettare, identificarsi col pensato, e può non identificarsi; può anche non proiettare-pensare. L'ente ha anche la libertà di non essere, per quanto solo in apparenza perchè non può ovviamente cambiare natura.
Il non-essere (tò mè òn) non è sostanziale quanto l'essere (tò òn), ma la sua "ombra", un suo fenomeno, un suo chiaroscuro, un suo miraggio che, per l' "ente di sogno", è sostanziale e reale quanto l'essere.
L'ente non erra quando sceglie di manifestarsi sui vari piani esistenziali, essendo questa una condizione accettabilissima, ma sbaglia quando s'identifica con i suoi prodotti, dimenticando sè stesso come realtà.
E' sempre il mito di Narciso che ci illumina. D'altra parte, l'identificazione rientra nelle sue possibilità e, inoltre, egli può riconoscersi in errore solo quando incomincia a prendere consapevolezza del suo vero stato.
Sembra paradossale che una tale identificazione - con ideali, passioni, beni materiali, erudizione, vanità, ecc. - possa portare l'uomo a tragedie inaudite; eppure è così. L'ente che sappia disidentificarsi dalla propria "ombra" , e quindi dai suoi prodotti, può rimettere le ali e volare verso lo stato di pienezza.
Così, l'evento proiettivo dell'ente non è ineluttabile, non è una necessità; come il male stesso, non essendo assoluto, non è un evento inevitabile. La libertà dell'ente intelligibile contempla necessariamente l'indefinita possibilità di specificarsi ma anche di non specificarsi. La causa comunque della differenziazione dev'essere attribuita all'"ombra" che si crede ciò che non è.
Nel Vedanta si parla di avidya, vale a dire del disconoscimento di ciò che si è realmente; l'ente empirico, o sensibile, crede di essere mortale, crede di essere un corpo, crede di essere il solo esistente nell'universo, crede di essere questo o quello; tutto ciò rappresenta una semplice credenza. In termini psicologici è l'io empirico che si considera un assoluto, una realtà in quanto tale; ma l'io, con i suoi prodotti, è un fenomeno che si staglia sullo schermo del noumeno, del nous; il suo consistere è movimento, divenire, cambiamento continuo fino a quando non si estingue completamente reintegrandosi nella sua fonte.
L'"ombra", o l'ente empirico, riceve l'intelligenza, la volizione e l'affezione dall'ente reale e immortale, ma esse rappresentano solo fattori di riflesso; la sua conoscenza è quella che si ha quando ci si trova davanti allo specchio; le verità che egli scopre sono il prodotto di immagini speculari, è dunque conoscenza mediata; Platone parla di eikasìa e di pìstis, immaginazione e credenza. Le cose vengono rappresentate, non conosciute per quello che sono.
Noi, quali composti empirici, abbiamo la rappresentazione concettuale dell'albero, o di una qualunque forma corporea, ma non abbiamo la conoscenza, o meglio, la consapevolezza dell'ousìa dell'albero o di un'altra forma.
Tale conoscenza di identità è pertinente al noùs.
L'atto diffusivo dell'ente reale è un fatto di ordine atemporale perchè la sua potenza è atto; mentre gli eventi e le cose che "crea" il riflesso vitale appartengono al tempo e allo spazio perchè esso opera nel mondo dei composti e perchè esso stesso si è foggiato di corpi composti per la propria sopravvivenza.
L'identificazione del riflesso coscienziale col composto e non col Semplice (noùs), è la causa che promuove il male, l'oscurità, l'alienazione, l'io e il non-io, l'opposizione, la lotta, la supremazia dell'uno sull'altro; è ciò che può determinarsi proprio perchè non si è.
Chi è pienezza e beatitudine vive di moto proprio, del proprio essere, della propria totalità. Chi è non si pone dei fini perchè non deve raggiungere alcunchè; è il riflesso coscienziale che, non essendo, deve porseli per conseguire quel qualcosa che non ha, di qui il divenire-movimento affannoso dell'ente empirico; ma per quanto possa divenire e "muoversi verso", non potrà mai raggiungere alcuna meta, anche perchè le mete sono indefinite. Andando nella direzione sbagliata, pressato da desideri e irrequietezze, è in continuo peregrinare, senza alcun proposito reale.
Ma come l'irraggiare dell'ente reale non è necessità, così l'identificazione del riflesso coscienziale con il composto non è necessità: rientra solo nelle sue possibiltà.
Tutte le Tradizioni filosofiche autenticamente realizzative hanno come movente quello di ricondurre il riflesso incarnato alla sua fonte metafisica la quale è la meta, se di meta si può parlare, più giusta e naturale.
Parmenide, Platone, Plotino pongono comunque una realtà suprema che trascende non solo la sfera del sensibile conflittuale, ma persino quella della Bellezza che, con il suo splendore, rende bello tutto l'Inteligibile; questa Realtà suprema e metafisica per eccellenza (che trascende il male e lo stesso bene), su cui si fonda l'intero esistente, viene denominata con vari nomi: Bene sommo, Uno-Uno, Essere in quanto è e non diviene, Uno metafisico (Plotino) e, per quanto riguarda il Vedanta shankariano, Brahman nirguna (non qualificato, Non-duale (advaita), ecc.

"Tutti gli uomini, fin dalla nascita, fanno uso dei sensi prima che dell'intelletto e incontrando dapprima, di necessità, le cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la loro vita nella credenza che esse siano le prime e le ultime cose e sostengono che quanto v'è in esse di doloroso o di piacevole sia rispettivamente il male e il bene: così pensano di averne abbastanza, e passano la loro vita perseguendo l'uno e tenendo l'altro lontano dal loro tetto. E chi tra loro s'atteggia a filosofo pretende persino che sia qui la sapienza! Somiglian, costoro, a uccelli pesanti che hanno preso molto dalla terra e, appesantiti così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un pò dalla bassura, poichè la parte più nobile dell'anima loro li sospinge verso la Bellezza; ma poichè non riescono a vedere le altezze - privi di altro sostegno cui appoggiarsi - precipitano in basso insieme con la loro decantata "virtù" all'agire pratico, cioè alla "scelta" tra le cose vive e basse donde prima avevan pure tentato di sollevarsi.
V'è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte vigore e di sguardo più acuto che san vedere, come per una suprema intensità visiva, lo splendore superno e s'innalzano fin lassù quasi al di sopra delle nubi e della caligine terrena e ivi dimorano disdegnando tutte le cose del mondo e deliziandosi di quel luogo - bene verace e avito - come un uomo che da tanto vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua, retta da buone leggi".

Raphael, Fuoco dei Filosofi
ed Asram Vidya, pagg. 109-118


Le citazioni sono tratte da Plotino, Enneadi.
Traduzione di Vincenzo Cilento. Laterza, Bari

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