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Vijñāna Catuşţaya III

III – VIJŇĀNA CASTUŞŢAYA

Jñānam, Trikaldŗşti, Aśtasiddhi, Samādhi

Le Siddhi
Le Siddhi – la loro giustificazione, i loro pericoli e i loro usi.

I primi due Catuşţaya dell’ādhāra [veicolo] si occupano soprattutto del principio centrale dell’esistenza umana, lo antahkarana [strumento interno, comprendente buddhi, manas e citta]; ma esiste una facoltà superiore e uno strumento inferiore che hanno la propria Siddhi, vijñāna, o facoltà sovra-intellettuale, e il corpo.

La Siddhi di vijñāna e la Siddhi del corpo appartengono entrambe a quella gamma di esperienze e realizzazioni divine che sono fuori della norma rispetto alla condizione attuale dell’umanità. Sono chiamate Siddhi specialmente per la loro natura appunto fuori della norma, la loro rarità e difficoltà; lo scettico le nega e il santo le sconsiglia. Lo scettico non vi crede e le ritiene imposture, leggende o allucinazioni, proprio come un animale astuto potrebbe non credere ai poteri di ragionamento dell’uomo: sono sconsigliate dal santo poiché a lui sembra che conducano lontano da Dio; le evita così come evita le ricchezze, il potere e le realizzazioni di questo mondo, e per lo stesso motivo.

Noi non abbiamo bisogno di evitarle e non possiamo farlo, poiché ricerchiamo Dio tanto nel Suo compimento nel mondo quanto separato dal mondo; le ricchezze del Suo potere e della Sua conoscenza si trovano nel mondo, e noi non possiamo evitarle, una volta che dimoriamo in Lui, che comprendiamo la Sua natura e ne partecipiamo. Esiste in verità uno stadio raggiunto dallo Yogi, nel quale, a meno che non si eviti ogni azione nel mondo, non si può più evitare l’uso delle Siddhi del potere e della conoscenza – proprio come l’uomo ordinario non può evitare di respirare e mangiare, a meno che non voglia lasciare il corpo; queste cose infatti sono l’azione naturale di vijñāna, il piano della coscienza ideale cui lo Yogi ascende, proprio come l’attività mentale e il movimento fisico sono l’azione naturale della vita ordinaria dell’uomo.

Tutti gli antichi Rishi usavano questi poteri, tutti i grandi Avatar, Yogi e Vibhuti [incarnazioni del potere divino], da Cristo a Ramakrishna, ne hanno fatto uso; né esiste un qualunque grande uomo nel quale si abbia una pur minima manifestazione del potere divino, che non ne faccia uso di continuo, sia pure in una forma imperfetta, senza sapere con chiarezza che cosa siano queste facoltà più alte che impiega. Come minimo, tale uomo usa i poteri dell’intuizione e dell’ispirazione, il potere di īśīta [efficacia della volontà senza un atto deliberato] che gli fornisce le opportunità di cui ha bisogno e i mezzi per metterle a frutto, e il potere di vyāpti [influenza telepatica] mediante il quale i suoi pensieri attraversano il mondo come frecce o lampi, creando inaspettate onde di tendenza sia attorno a lui, sia a distanza. Non è necessario per noi evitare l’uso di queste cose più di quanto un poeta dovrebbe evitare l’uso del suo genio poetico, che è anch’esso una Siddhi irraggiungibile per l’uomo ordinario, o più di quanto l’artista debba rinunciare al suo pennello.

Esiste comunque un motivo a giustificare la negazione dello scettico e la rinuncia del santo, e di questo bisogna prendere nota. Il santo rinuncia a queste Siddhi perché, quando esse si mostrano in modo frammentario in un ādhāra [veicolo] debole e dominato dall’egoismo, il senso dell’ego ne viene di solito enormemente esaltato e il sādhaka [discepolo] ignorante pensa di essere il possessore o il creatore di questi poteri straordinari, convincendosi di essere davvero un grande uomo (similmente troviamo assai di frequente un egoismo esagerato nel poeta da poco, o nel mezzo artista, mentre chi davvero ha grandi capacità sa molto bene che non gli appartengono, che vengono da Dio come un dono e sente che è il potere di Dio ad usarlo, non il contrario); così il sādhaka, fuorviato da ahankāra [senso dell’ego], si getta a rincorrere questi poteri fine a se stessi, dimenticando la ricerca di Dio.

La negazione dello scettico è giustificata dalla credulità dell’uomo comune, il quale considera queste cose come miracoli e le inventa anche là dove non esistono, e dalla debolezza e l’egoismo degli stessi sādhaka e di molti altri che sādhaka non sono; questi infatti quando colgono anche solo un barlume di tali facoltà in se stessi o negli altri, le esagerano, gonfiano e distorcono, e intorno a qualche esperienza minuscola e imperfetta, costruiscono tutto un gergo, un misticismo, una ciarlataneria e ogni sorta di bujruki [bengalese: impostura] che, per il mondo, rappresenta una cosa offensiva e una pietra d’inciampo. È quindi necessario tenere ben presenti alcuni princìpi in modo rigoroso:

1. questi poteri non sono miracolosi, sono poteri della Natura che si manifestano non appena il vijñānapadma [il loto di vijñāna, centro della coscienza gnostica nell’individuo] comincia ad aprirsi in noi, non sono motivo di vanterie o di vanità, più di quanto lo siano il potere di mangiare, di respirare, e tutte le altre cose della Natura.
2. questi poteri si possono manifestare in pieno solo quando abbandoniamo l’ego e offriamo il nostro piccolo essere separato nella vastità dell’essere di Dio.
3. quando si manifestano nella condizione non purificata, essi rappresentano una pericolosa ordalìa cui Dio ci sottopone. Possiamo superarla in sicurezza solo conservando le nostre menti intatte dalla vanità, dall’orgoglio, dall’egoismo, ricordando sempre che si tratta di Suoi doni e non nostre conquiste.
4. questi poteri non sono da ricercarsi fine a se stessi, ma vanno sviluppati o lasciati crescere come parte del fiorire della perfezione divina che è lo sbocciare della grazia di Dio in noi.

Fatte queste debite riserve, non dobbiamo rifiutare i poteri quando si presentano, bensì accettarli affinché Dio possa usarli in noi per i Suoi fini, e non per i nostri, affinché si riversino sull’umanità per mezzo di vyāpti [influenza telepatica] e non siano da noi posseduti per il nostro proprio uso e orgoglio.

***

1. VIJŇĀNA

Jñānam, trikāldŗşţih, aşţasiddhih, samādhih iti vijñānacatuşţayam.
[Conoscenza, Visione dei tre Tempi, 8 Siddhi, Samādhi, questi costituiscono il vijñāna catuşţaya]


Jñāna

Per jñāna s’intende il potere di conoscenza divina e diretta, che opera indipendentemente dall’intelletto e dai sensi, o che li usa solo come collaboratori subordinati. Jñāna percepisce cose che all’uomo ordinario sono nascoste, ci aiuta a smettere di vedere il mondo nei termini della nostra esperienza sensoria e ci rende capaci di farci ricettivi alle grandi forze celate, ai poteri, agli impulsi e alle spinte che, restando dietro la vita materiale, la governano e la determinano. L’intero meccanismo del mondo si rivela a jñāna nei suoi princìpi segreti; la natura del Purusha, le operazioni di Prakriti, i princìpi del nostro essere, il proposito di Dio nelle Sue opere nel mondo, l’armonia dei Suoi guņa [qualità] – Brahman, Ishvara, Atman, l’uomo, la bestia, l’oggetto, l’idea, il nome, la forma, la realtà, la relazione, tutte queste cose si mostrano all’occhio che Dio illumina con il sole della Sua conoscenza, jñānadīpena bhāsvatā [“Con la lampada accecante della conoscenza”, Gīta, 10.11].


Satyasya dŗşţih śrutih smŗtih pratibodha iti jñānam;
vŗtte tu karmaņi ca satyadharma eva jñānam.

[“Il vedere, il sentire e il ricordare la verità e la realizzazione, questo è Jñāna;
e nella condotta e nell’azione la Legge della Verità è Jñāna]

Jñāna è di tre tipi: jñāna del pensiero, jñāna dell’esperienza (realizzazione o pratibodha), e jñāna dell’azione o satyadharma. Jñāna del pensiero consiste di tre poteri:

1. Dŗşţi, rivelazione o svayamprakāśa;
2. Śruti, ispirazione;
3. Smŗti, consistente di: a) intuizione, b) viveka [discriminazione].


1. Dŗşţi
Dŗşţi è la facoltà mediante la quale gli antichi Rishi vedevano la verità del Veda; è la visione diretta della verità senza bisogno di osservare l’oggetto, senza necessità alcuna del ragionamento, della dimostrazione, dell’immaginazione, della memoria, né di nessun’altra facoltà dell’intelletto. È come se un uomo guardasse un oggetto e sapesse di che cosa si tratta, anche se non sa dargli il nome; è pratyakşadarśana [visione diretta] di Satyam [Verità].

2. Śruti
Śruti è la facoltà attraverso la quale si percepisce come in un lampo la verità nascosta in una forma di pensiero o in un oggetto presentato alla nostra conoscenza, o nella parola con la quale la cosa è rivelata. È quella facoltà mediante la quale il significato del mantra sorge nella mente o nell’essere del sādhaka, anche se, udendolo per la prima volta, non ne conosce il significato o non gli sia mai stato spiegato. È come quando un uomo sente il nome di una cosa e dal solo nome, senza vedere l’oggetto, viene a conoscerne la natura. Un potere speciale di Śruti è la rivelazione della verità attraverso la giusta e perfetta vāk [parola] nel pensiero.

3. Smŗti
Smŗti è la facoltà mediante la quale la vera conoscenza nascosta nella mente si rivela alla comprensione e, subito, è riconosciuta come la verità. È come quando un uomo ha dimenticato qualcosa che sapeva essere accaduto, ma lo ricorda non appena gli viene nominato.

Intuizione e viveka
L’intuizione è il potere che discerne la verità e suggerisce all’istante le giuste ragioni per cui la verità è quella; viveka è il potere che opera subito le necessarie limitazioni e distinzioni e previene gli errori intellettuali impedendo che una verità imperfetta sia presa per l’intero satyam [verità].

L’importanza di viveka ai fini del progresso nell’uomo nella fase attuale è suprema.
Nello stadio presente, anche nei più grandi uomini, i poteri di vijñāna [conoscenza sovra-intellettuale o gnosi] non agiscono nel modo e con la forza loro propri, né nel loro luogo e secondo la loro natura, bensì attraverso l’intelletto, come aiutanti dell’intelletto o quali guide occasionali. Non appena abbiamo una intuizione o una rivelazione, l’intelletto, la memoria, l’immaginazione, la facoltà logica se ne impadroniscono e cominciano a renderla irriconoscibile, ricoprendola di una mescolanza di verità e di errore, facendo scendere la verità al livello della natura, dei samskara [reazioni abituali formate dal proprio passato] e delle preferenze della persona, invece di purificare ed elevare la natura e la comprensione al livello della verità.

Senza viveka, questi poteri sono tanto pericolosi quanto utili per l’uomo. La luce che danno è più luminosa della luce dell’intelletto, ma l’ombra che l’intelletto vi crea attorno è spesso più tenace della nebbia dell’ignoranza che circonda l’ordinaria conoscenza intellettuale. Così, gli uomini che usano questi poteri in modo ignorante spesso inciampano molto più di coloro che camminano nel chiaro pensiero di luce limitata dell’intelletto.

Quando questi potere cominciano ad operare in noi, dobbiamo essere dhīra e sthira [pazienti e determinati], evitando di farci trasportare dall’entusiasmo; dobbiamo dare tempo a viveka di far presa sui nostri pensieri e sulle nostre intuizioni, ordinarli, separare gli elementi intellettuali da quelli vijñānamaya [di natura gnostica], correggere le false generalizzazioni, le false limitazioni, le loro applicazioni improprie, assegnando loro le applicazioni corrette, la giusta estensione e la giusta limitazione – effettuare, come nell’immagine delle Upanishad: il viyūha, o dispiegarsi dei raggi del sole della conoscenza (sūryasya raśmayah).

La conoscenza non è per la mente frettolosa, ma solo per l’uomo dhīra [paziente], che sa sedere a lungo accumulando e ordinando ciò che riceve e non corre via con i primi frammenti, come il corvo che scappa con il primo boccone di cibo che riesce ad afferrare.

Realizzazione
Realizzazione o jñāna dell’esperienza, è la percezione delle cose attraverso bhāva [divenire molteplice]: bhāva dell’essere o Sat, la realizzazione delle verità dell’essere; bhāva di Cit o della conoscenza, la realizzazione delle verità del pensiero; bhāva di Tapas o della Forza, la realizzazione delle verità della forza e dell’azione; bhāva dell’amore o Ananda, la realizzazione delle verità dell’emozione, della sensazione e della beatitudine.

Satyadharma
Satyadharma è la messa in pratica di jñāna in bhāva [divenire] e nell’azione.

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2. TRIKALDRISHTI

Trikālādŗşţi è una facoltà speciale di jñāna mediante la quale questo potere generale è applicato alle cose così come sono, ai loro particolari accadimenti, tendenze ecc, nel passato, nel presente e nel futuro del mondo così come esiste, è esistito ed esisterà nel Tempo. Come jñāna si occupa della verità generale, cosi trikālādŗşţi si occupa di fatti particolari. Essa agisce in diversi modi:

1. direttamente, senza un mezzo o motivo apparente, con dŗşţi, śruti e smŗti;
2. prolungando la concentrazione su un oggetto - il procedimento che Patanjali chiama samyama sull’oggetto - finché, divenendo unica la mente nell’osservatore e nell’osservato, sappiamo che cosa contiene l’oggetto, passato, presento o futuro che sia, proprio come possiamo conoscere i contenuti del nostro stesso essere;
3. usando come mezzo qualche segno esteriore o qualche scienza indicativa, quali sāmudrika [chiromanzia], l’astrologia, la divinazione, ecc. Queste scienze valgono ben poco, se non sono usate dalle facoltà superiori vijñānamaya [di natura gnostica]; i segni che usano, infatti, sono per lo più indicazioni di tendenze e distinguere alla perfezione tendenze probabili da risultati di fatto è impossibile seguendo semplicemente uno shastra [sistema di conoscenza] scritto o criteri approssimativi;
4. usando i due poteri di vyāpti [influenza telepatica] e prākāmya [allargamento della coscienza oltre il proprio veicolo], che sono quanto gli europei chiamano telepatia.

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 3. ASHTASIDDHI [le otto Siddhi]

Vyāptih, prākāmyam, aiśvaryam, īśitā, vaśitā, mahimā, laghimā, aņimā iti aşţasiddhih.
[Telepatia, Efficacia della Volontà, senso di Forza, Leggerezza e Sottigliezza, queste costituiscono le otto Siddhi]]

Aşţasiddhi è di tre ordini:
1. Due Siddhi di conoscenza: vyāpti e prākāmya [telepatia]
2. Tre Siddhi di potere: aiśvarya, īśitā, vaśitā [efficacia della volontà]
3. Tre Siddhi del corpo: mahimā, laghimā, aņimā [senso di forza, leggerezza, sottigliezza]


Prākāmya
Per prākāmya s’intende il pieno prakāśa [illuminazione] dei sensi e del Manas [mente sensoria], mediante il quale essi superano i limiti ordinari del corpo e divengono consapevoli con la vista, l’udito, il tatto, ecc. o, più spesso e più facilmente, attraverso la sensazione e la consapevolezza mentale:

1. di oggetti, scene o avvenimenti che si trovano a distanza, o che sono nascosti alle operazioni normali della mente e dei sensi;
2. di oggetti, scene e avvenimenti appartenenti ad altri piani di esistenza;
3. di oggetti, scene e avvenimenti appartenenti al passato o al futuro, le cui immagini sono contenute nell’oggetto che studiamo;
4. di stati presenti della mente, sensazioni, percezioni sensorie ecc. di altre persone o dei loro particolari pensieri, sensazioni e percezioni sensorie; o di simili stati o pensieri particolari, che tali persone possono aver avuto nel passato e le cui impressioni rimangono impresse nel citta [memoria], o che avranno in futuro e la cui immagine è già preparata nella parte presciente del citta.

Vyāpti
A ciascuna forma di prākāmya corrisponde una forma di vyāpti, come ad esempio nella ricezione o nella comunicazione. Mediante prākāmya possiamo avere ad esempio la percezione delle sensazioni di un altro; mediante vyāpti queste sensazioni vengono sentite con forza nella nostra stessa coscienza, oppure le nostre sono proiettate in un altro.
Prākāmya è la visione di chi guarda e vede un oggetto a distanza; vyāpti è la percezione sensoria di quell’oggetto che “viene” verso di noi o entra in contatto con noi. Attraverso vyāpti è possibile comunicare qualunque cosa abbiamo nel nostro essere – pensieri, sensazioni, capacità, ecc – a un altro, e se questi è in grado di afferrare la cosa e conservarla, può farla sua e usarla. Questo può avvenire sia con una sorta di “lancio” fisico verso l’altro della cosa che è in noi, sia con una volontà sullo svabhava [natura essenziale di ciascuno], costringendolo a compiere il trasferimento.
Il Maestro e il Guru usano abitualmente vyāpti, poiché è un mezzo molto più efficace del parlare e dello scrivere; ma, in modo inconsapevole, tutti lo usano o lo subiscono. Infatti ogni pensiero, sensazione, percezione sensoria o altro movimento di coscienza che abbiamo, crea un’onda o corrente che viaggia all’esterno, nella coscienza del mondo attorno a noi, dove penetra ogni ādhāra [veicolo] in grado di riceverla, o al quale sia permesso riceverla. Almeno la metà dei nostri abituali pensieri e sentimenti sono prestiti inconsapevoli di questa natura.

Aiśvarya
Aiśvarya è l’efficacia della Volontà che agisce su un oggetto o un avvenimento senza l’aiuto di mezzi fisici. Può operare mediante:

1. pressione o tapas di caitanya [coscienza] direttamente sull’oggetto su cui si vuole ottenere il risultato;
2. pressione o tapas di caitanya sulla Prakriti (sia la Prakriti generale del mondo, sia la Prakriti nell’oggetto stesso) perché si realizzi direttamente il risultato voluto;
3. pressione sulla Prakriti perché si verifichino le circostanze che indirettamente porteranno al risultato voluto;
4. senza pressione, mediante il semplice pensiero che è volontà: ājñā [comando, pensiero-volontà], o ājñānam [conoscenza-volontà] dell’Ishvara che è automaticamente obbedito da Prakriti.

Quest’ultimo è il potere più alto di aiśvarya e ne rappresenta la Siddhi [perfezione] suprema; in esso infatti Cit e Tapas diventano una cosa sola, come nel Volere Stesso di Dio.
Īśitā
Īśitā è la medesima efficacia della volontà quando agisce non come un comando o attraverso il pensiero, mediante ājñānam [conoscenza-volontà], ma attraverso il cuore o il temperamento (citta), in una percezione della necessità o in una pura lipsā [aspirazione]. Tutto ciò verso cui tende lipsā o di cui abbia bisogno, anche senza saperlo, viene da sé all’uomo che possiede īśitā. Īśitā si può esprimere anch’essa come una pressione sull’oggetto o sulla Prakriti o come una semplice percezione, automaticamente efficace, del suo scopo. Quest’ultimo a sua volta rappresenta il potere più alto di īśitā e la sua Siddhi suprema.

Vaśitā
Vaśitā è il controllo sulla natura dell’oggetto così che questo sia sottomesso alla parola espressa, ricettivo al pensiero inviatogli o sensitivo all’azione suggeritagli, ed efficiente in essa. Vaśitā opera in modo automatico attraverso il controllo stabilito da una natura su un’altra, o con un riversarsi di forza naturale nella parola, nel pensiero o nel suggerimento d’azione, così da produrre un effetto sulla natura altrui. Quest’ultima è la Siddhi inferiore e ordinaria; la prima è la Siddhi suprema e interamente divina. Vyāpti [telepatia] è uno degli agenti principali di vaśitā.


Le condizioni del potere
Bisogna ricordare che nessuna delle Siddhi di potere può agire in modo perfetto o libero finché esistono impurità nel citta [mente emotiva], egoismo nel pensiero e nel temperamento o dominio del desiderio nell’usare la Siddhi. In tali circostanze si può avere un uso occasionale e una irregolare efficacia dei poteri – una cosa che in sé non vale la pena di essere posseduta, utile solo quale addestramento della mente affinché rinunci ai propri samskara [condizionamenti] e processi abituali, e accetti le operazioni di vijñānamayī śakti [energia di natura gnostica, o supermentale]; oppure può esserci un uso regolare ed efficace di poteri limitati, per mezzo dei procedimenti fissi del Tantrismo (kriya). Questi ultimi dovrebbero essere evitati dal sādhaka [discepolo] del Purna Yoga [Yoga Integrale].

Le condizioni di jñāna
Occorre notare che la perfezione di jñāna e trikāladŗşţi [visione dei tre tempi: passato, presente, futuro] è possibile solo con una completa śuddhi [purificazione] di antahkaraņa [strumento interno comprendente buddhi, manas e citta], specialmente l’esclusione del desiderio e la viśuddhi [purezza] della buddhi [mente raziocinante], l’assoluta passività del manas [mente sensoria] e, infine, l’azione perfetta dei poteri di vijñāna [gnosi o supermente]. Un’azione imperfetta e irregolare di questi poteri superiori è sempre possibile, è posseduta velatamente anche da molti che non sono né Yogi né Sadhaka.

Le Siddhi fisiche
I poteri fisici, mahimā, laghimā, aņimā [senso di forza, leggerezza, sottigliezza], benché appartengano al Dharma di vijñāna, agiscono nel corpo e in senso stretto fanno parte della Siddhi fisica; non è quindi necessario considerarli in questa sede.

[dagli appunti di un discepolo:

Mahimā è la forza del potere mentale o fisico sciolta da ogni intralcio. Nel fisico si manifesta come un vigore fuori della norma, che non è muscolare e può persino svilupparsi nel potere di aumentare le dimensioni o il peso del corpo, ecc. Laghimā è un corrispondente potere di leggerezza, vale a dire di libertà da ogni pressione o gravità, tanto nell’essere mentale quanto nell’essere pranico o in quello fisico. Mediante Laghimā è possibile liberarsi dalla stanchezza e dall’esaurimento e vincere la gravitazione. È la base di Utthapana [levitazione]. Animā è il potere di sciogliere gli atomi della materia sottile o grossolana (sukshma o sthula) dalle loro limitazioni ordinarie. Mediante questo potere ci si può liberare dalla tensione o dalla sofferenza fisica arrivando persino a rendere il corpo leggero a volontà. Si supponeva che attraverso questo potere gli Yogi potessero rendersi invisibili e invulnerabili o liberarsi dal decadimento e dalla morte.]

***

4. SAMĀDHI

Samādhi è il potere, mediante la concentrazione prolungata di catanya [coscienza] sul suo oggetto, di estendere la gamma della conoscenza e della coscienza, attraverso i tre stati di veglia, sogno e sonno, alla realizzazione di quei tattva [princìpi cosmici fondamentali] del Brahman ai quali l’ordinaria coscienza di veglia è cieca, nonché all’esperienza, sia per immagini riflesse sia nelle cose in se stesse, di mondi e piani di coscienza diversi dalla terra materiale e da questa coscienza fisica di veglia. Anche la considerazione del samādhi può essere al momento rimandata.

 

Sri Aurobindo, Record of Yoga, SA Ashram, Pondicherry 2001, p. 14-22.

Traduzione italiana di Laura C.

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