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Vita Monastica

Prima di addentrarci nel concetto di "Vita monastica secondo i principi dell’induismo" vorrei fare una breve introduzione riguardo al rapporto vita spirituale-vita sociale nel contesto della nostra società "occidentale".
In questo ultimo periodo alcuni mass media si sono occupati delle nostre attività e il contatto con i visitatori che non conoscevano questo tipo di realtà mi ha portato ad alcune riflessioni.
Vivendo in armonia con determinati principi, etici e morali (yama e nyama) scanditi dai ritmi naturali della vita, talvolta, si assumono idee o atteggiamenti che sembrano naturali, ma che invece nella vita ordinaria sono rare eccezioni che suscitano inevitabilmente stupore e, a volte, anche ammirazione. Ma lo stupore, devo dire, l’ho provato anch’io quando mi sono trovata di fronte alle domande di visitatori neofiti. In questo periodo, pur essendoci molta più apertura e sensibilità verso altre forme religiose, comunque una scelta definitiva di vita monastica crea un sottile disagio, come se non si pagasse il debito nei confronti della società.
In realtà in tutte le società sono sempre esistiti uomini che hanno dedicato la loro vita a Dio.
Il vivere una vita dedicata alla ricerca spirituale è un’esigenza che accompagna l’uomo sin dalle origini. Nell’uomo vi sono due tendenze opposte: vivere e sperimentare tutte le esperienze del mondo fenomenico e l’altra invece di trascenderle per realizzare esperienze mistiche. Ovviamente, in alcuni uomini prevale la prima forza, in altri la seconda.
In tutti i popoli l’ascetismo e la ricerca spirituale hanno avuto una connotazione ben precisa organizzandosi anche in strutture ben integrate nella società stessa. Quindi è riconosciuto il bisogno di ricerca che muove alcuni uomini a sperimentare una cosiddetta "vita spirituale". Nonostante, per fortuna, nella nostra società, assorbita dalla frenesia del consumismo, vi sia una tacita tolleranza verso l’asceta, il religioso e il ricercatore, nascono spesso "incomprensioni" al contrario dell’India in cui l’asceta è visto con grande rispetto.
Innanzitutto bisogna considerare che l’istinto dell’animale sociale, l’istinto di procreazione e di salvaguardia della specie è molto forte nell’uomo ed è quello che ovviamente sostiene l’organizzazione sociale, mentre il bisogno di rivolgersi a Dio va esattamente nella direzione opposta. Infatti quando un uomo sente l’esigenza di una vita rivolta al Divino normalmente si allontana dai vincoli che più lo legano al mondo: la famiglia. Il prete, il frate, il monaco buddhista, l’asceta sufi o induista, il religioso di tutte le religioni si allontana dai legami della vita sociale per poi, a volte, rientrare con un nuovo ruolo, più impersonale attraverso cui il suo lavoro e le sue forze vengono rivolte verso gli altri senza più intenti egoistici. Cade il rapporto personale "dare-avere" ed il suo amore, i suoi affetti sono diretti al Divino nella forma di altri esseri, sono diretti ad uno scopo e un ideale che lo porteranno al suo incontro con Dio.
Vi sono, invece, altre forme di vita religiosa che non contemplano un rapporto diretto con la società, ma, in questo caso, comunque l’asceta ed il mistico, al di là della loro scelta peculiare, portano benefici agli altri uomini, anche rimanendo isolati in una grotta per tutta una vita.
Che cosa si mette in gioco e che cosa cambia nella vita di un uomo dopo tale scelta? Cambia la maniera di direzionare la forza più grande dell’essere umano: l’amore. Perché sicuramente in un monastero, in un ashram vi è amore, vi è amicizia, vi è affettività.
E, ritornando ai visitatori neofiti, è proprio questo che a loro sembra strano, scoprire che non siamo degli "yeti" isolati, non ci fustighiamo dalla mattina alla sera, non viviamo seduti in perenne meditazione, ma siamo persone che vivono una vita attiva, piena, armoniosa, integrata con il mondo e con il nostro essere più profondo, circondata da molto amore e non troviamo difficoltà insormontabili in tutto ciò, anzi le difficoltà molto spesso le abbiamo lasciate alle spalle nella nostra vita "civile".
Ma vi è una domanda che a questo punto può diventare inquietante: come si concilia l’amore e l’affettività con la vita monacale?
In un ashram il primo amore che si sperimenta, quello più semplice, è l’amore fraterno, quello verso chi condivide con te ogni passo, che ti cammina vicino e condivide con te il più grande ideale. Questo amore riscalda molto, dà forza nei momenti di scoraggiamento, esalta i momenti migliori; i successi si ampliano della gioia di tutti ed il dolore e la difficoltà vengono divisi in molti cuori alleviandone le pene. Il rapporto con i "confratelli" è un rapporto lungamente superiore a tutti quelli che vi sono nella vita sociale, non esiste il legame di sangue, ma di ideale, che unisce molto più profondamente, non esistono aspettative reciproche, quindi franchezza, verità, stima e comprensione prendono posto a invidie, egoismi, ricatti e ripicche. Anche se vi possono essere piccoli scontri personali, la forza dell’ideale vince sempre e sostiene qualsiasi difficoltà. Un altro rapporto nuovo di amore e affettività è quello nei confronti dell’ambiente, la casa o il convento che non appartiene a nessuno, è di tutti, quindi si ama e si rispetta molto di più. Tutti gli esseri che per un’ora o una vita fanno parte dell’ashram, sono fonte di amore e come la natura che circonda il monastero evocano Dio in tutte le sue espressioni: il sole, la pioggia, il vento e la neve ricordano il gioco degli elementi.
Nel caso specifico dell’ashram, del monastero induista, infine il gioco d’amore culmina nella "sublimazione più sublime": il rapporto d’amore tra maestro e discepolo.
Questa è una peculiarità della cultura orientale e per capire questo rapporto particolare, puro, pieno di forza ed energia bisogna comprenderne molto bene i principi e la tradizione (vedi: Guru secondo la tradizione - Sri Vidya anno I n. 2).
"Tutta la via di dhyana é la forma del guru, tutta la via della puja è nei piedi del guru, tutti i mantra sono nelle parole del guru e la radice della liberazione è nella grazia del guru" K.T12.13

 

Monachesimo hindu
L’India, da sempre, è la patria dell’ascetismo, infatti la tradizione indiana ha sempre inteso l’ascetismo come uno stile di vita spirituale, come santità. Vi sono tantissime forme di ascetismo che ancor oggi come nel passato, coinvolgono persone di diverse religioni, tradizioni, condizioni e classi sociali, al fine di superare, attraverso diversissime pratiche ed austerità, la condizione umana ed elevarsi al rango divino.
Nell’India moderna si contano circa otto milioni di asceti. In origine essi rappresentavano i più alti valori etici e spirituali della società indiana e queste persone, in India, godono ancora grande rispetto e venerazione e sono accettati dalla comunità come mistici o anche autorità spirituali. Nel buddhismo sono rappresentati dai "samana" e "bikkhu", mentre i jain sono chiamati "munni". Buddhisti e jain hanno fondato istituzioni religiose ben definite, questo è in deciso contrasto con l’induismo in cui raramente l’istituzione è considerata superiore allo stato di ricerca individuale. Oltre agli ovvi benefici di una libera ricerca di Dio, questa situazione ha prodotto anche limitazioni ed inconvenienti determinati soprattutto dalle divisioni create dal sistema stesso.
Non sempre gli asceti rispecchiano le aspettative di uomini sacri, tra le fila dei sadhu si infiltrano anche individui senza scrupoli che cercano di condurre una vita un po’ più confortevole rispetto alla miseria da cui provengono, seguendo l’impulso di soddisfare la propria vanità, nascondendosi sotto il nome di ricercatori di Dio. Altri sono dei veri e propri parassiti che vivono alle spalle di persone ingenue ingannandole e sfruttandole.
Altri ancora fanno uso di droghe, cosa che non ha mai avuto nessuna parte nella ricerca spirituale hindu, è la conseguenza di una degenerazione moderna di uomini dalla mente debole incapace di vere esperienze spirituali. Ma vi sono molti, moltissimi uomini spinti da vere motivazioni alla ricerca di Dio e della liberazione, che uniscono la loro religiosità alla saggezza e alla dottrina.
Nelle scritture si trovano termini che definiscono vari tipi di asceti come muni (il saggio silente), yati (l’autocontrollato) sadhu (il saggio, colui che raggiunge direttamente la meta), tyagi (il rinunciatario errante), avadhuta (il nudo ricercatore spirituale), yogi (il ricercatore dell’unità) e svami (il maestro della via spirituale). I termini più conosciuti sono yogi, sadhu e vedantin.
Questi termini vengono spesso usati in senso lato, senza metterli in relazione con una corrente determinata. Il titolo di svami, invece, può essere usato da ognuno di questi se ha ricevuto l’ordinazione religiosa all’interno della struttura di un ordine religioso ortodosso.
Esistono numerosi ordini di molte specie, alcuni dei quali sono estremamente antichi, risalgono sino ai tempi vedici, mentre altri sono di più recente istituzione. In genere, gli ordini religiosi prendono i loro insegnamenti dai Veda o dai rishi che vissero in tempi antichi, alcuni attribuiscono la loro origine ai saggi Vyasa, Vishvamitra, Vasishtha, Bhrigu, altri, invece, si sono sviluppati all’interno dei culti shaiva e vaishnava. Altri ancora si ispirano a Brahma come supremo creatore o alla Shakti, la madre divina.

Diversi Ordini e segni distintivi
Gli asceti si suddividono in molti altri sottogruppi. Ad esempio, tra gli sivaiti vi sono i seguaci della riforma: dashanami, ordini discendenti da Shankara, dandi, paramansa e brahmacarin e altri che possono appartenere indifferentemente ad un gruppo come ad un altro come: pashupata, lingayat, agori, yogi.
Nel periodo di Shankara, uno dei più insigni maestri dell’India (vedi Adi Shankara - Shri Vidya anno I n. 3 e n. 4), molti degli ordini più antichi erano scomparsi. Le sue alte speculazioni filosofiche si contrapposero all’impatto sull’India dell’opera dei buddhisti e jain che stavano avendo il sopravvento nella situazione di stagnante rigidità del brahmanesimo. Shankara fece rivivere, codificandoli, dieci ordini, conosciuti ancora oggi come dashanami.
Al fine di perpetuare questi ordini, Shankara fondò in India quattro centri religiosi o math situati nei quattro punti cardinali: Dvaraka a ovest, Puri a est, Jyotismat a nord, Sringheri a sud. Fondò molti altri centri di apprendimento religioso.
Ogni gruppo si riconosce da segni distintivi che possono essere vari.
Alcuni asceti dell’ordine dei dashanami si rasano barba e capelli il giorno di luna piena, altri portano lunghe barbe e capelli come ai tempi vedici.
Gli shvami o sadhu sivaiti indossano vesti di color zafferano, una ghirlanda, mala, di semi di rudraksha, a volte un bastone, un vaso per l’acqua e una pelle di animale sulle spalle, sulla fronte portano il segno delle tre linee orizzontali, tripundra, distintivi di Siva.
I sadhu vaishnava, che adorano Visnu, indossano una ghirlanda di legno di tulasi, un segno verticale sulla fronte, a forma di U, formato da due linee bianche ornate da un tratto rosso e nero. I visnuiti si suddividono in numerosi sottogruppi come dvara, secondo l’inclinazione filosofica del fondatore del culto. Ramanuja, Madhvacarya e Caitanya sono i principali fondatori di differenti culti vaisnava. Le diverse correnti sono contraddistinte sempre dai segni distintivi ad esempio il colore giallo rappresenta gli appartenenti a shri vaishnava e rosso a ramanandi. I seguaci di Ramanuja portano il segno di triphala.
Vi sono inoltre i kapalin, i pashupati, esistono diramazioni dei dashanami, come i naga, sadhu nudi, che possono appartenere sia ai gruppi saiva che a quelli vaisnava.
I karttikeya o subrahmanya sono una parte del movimento sivaita, mentre gli aiappam costituiscono un movimento indipendente.
Nella storia dell’ascetismo emersero anche gruppi riformatori, che si opposero a determinati schemi cristallizzati nella società. I kabir panti, i seguaci della via di Kabir, appartenevano a uno di questi gruppi e protestavano contro l’adorazione degli idoli, il sistema delle caste e, in un caso, contro la pratica dello yatra o pellegrinaggio. Altri gruppi di natura riformista furono: radhavallabhi, rshaka, dhami, dadupatna, karunadasi, ramanandi, vairagi, akhadamalla, garibadasi e shvaminarayana.
Gli algari fanno il voto di non stare mai fermi e indossano delle campanelle intorno ai fianchi e alle caviglie per ricordarsi del loro voto.Anche quando sono assonnati muovono continuamente i loro piedi.
I naga sono nudi o coperti di cenere e vengono chiamati "vestiti di cielo". Sono il simbolo estremo della rinuncia, rinuncia al mondo e alle sue attrazioni, rinuncia al possesso e agli attaccamenti che condizionano la vita dell’essere umano.
I naga ebbero origine da un gruppo semimilitante che aveva il compito di proteggere i samnyasin dalla violenza di un mondo ostile. Vi sono altri sadhu come gli avadhuta che preferiscono lo stato di nudità, i namadhari che tatuano i loro corpi dal capo ai piedi con il mantra ramnam equesta è virtualmente la loro uniforme.
I nathi sono yogi che seguono l’insegnamento di Goraknatha e praticano le discipline dello yoga attraverso sei stadi, eliminando yama e nyama da quello che è considerato l’ashtanga yoga descritto da Patanjali. Gli hathi sono versati nella pratica dell’hatha yoga e in alcune forme di pranayama.Questi si applicano allo sviluppo dello yoga fisico per ottenere poteri occulti e l’ascolto dei suoni interni che possono usare per la concentrazione e meditazione. Alcuni yogi ottengono un totale controllo sul corpo fisico e possono compiere azioni straordinarie.
Lo yogi, sia appartenente ad un gruppo, sia indipendente, è sempre rispettoso nel porre omaggio e rendere obbedienza al fondatore del sistema al quale lui obbedisce e mantiene una incorruttibile lealtà e devozione verso il suo guru.
Sono riconosciute anche grandi divisioni tra gli yogi come i natapanti e aghorapanti che hanno in comune l’obiettivo dell’autorealizzazione. Una considerazione importante da fare è che da una parte le pratiche yoga non sono osservate da tutti gli asceti, dall’altra non sono una prerogativa esclusiva degli yogin.
Seguaci di diverse tradizioni possono sentire l’attrazione per lo yoga che è un aspetto scientifico per sperimentare, attraverso la guida del maestro, l’esperienza del Divino. Per alcune correnti riformatrici la pratica dello yoga non ha alcuna importanza e hanno trasformato il karma yoga in lavoro o impegno sociale.

Potere generato dall'ascetismo
Una sadhana intensa eleva gli asceti oltre il mondo temporale con le sue attrazioni e attaccamenti. Essi, con vibrante forza fisica e determinata forza spirituale, dirigono la loro mente verso l’unione con la suprema coscienza. Alcuni individui sviluppano poteri psichici particolari, chiamati siddhi, attraverso i quali possono sviluppare facoltà extrasensoriali, prosperità psichica e grande ricchezza.Questo ottenimento è chiamato riddi.Vi sono innumerevoli manifestazioni delle siddhi che non sempre sono sinonimo di evoluzione spirituale. Molti canalizzano gli ottenimenti e i poteri verso la realizzazione di un’estasi temporale sul piano mentale e sensuale.Questi "tantrici" sono diventati estremamente popolari al giorno d’oggi: il mescolarsi del piacere sensoriale con la prospettiva di ottenimenti spirituali è una forte attrazione nell’era moderna.
Non tutti gli asceti sono uomini, sin dai tempi vedici anche le donne hanno avuto la possibilità di sottoporsi all’ascesi e realizzare la perfezione spirituale.Molte mogli di rishi eclissarono il loro compagno nell’acquisizione di poteri, devozione e purezza.
Una donna sadhu è chiamata sadhvini, una donna che pratica lo yoga è chiamata yogini e una donna svami è chiamata svamini.
Naturalmente esistono ancora numerosissimi sottoculti e ciò dimostra che i diversi gruppi, che possono sembrare ad un primo approccio un inestricabile caos, sono lo specchio dell’anima dell’induismo, della sua universalità di linguaggi adatti alle diverse tipologie dell’uomo anche se tutti rivolti alla ricerca del Divino. Ed è proprio in questa libertà che ognuno di noi, se compie una ricerca seria, senza fatica troverà quel particolare aspetto che lo può condurre alla sua strada spirituale.

Dagli antichi rishi al giorno d’oggi
Le istituzioni create dall’uomo non hanno un valore assoluto per l’asceta.
Il rishi è l’ideale, il modello tramite il quale gli altri uomini possono godere di uno sviluppo spirituale. Secondo la Taittirya Upanishd degli Yajur Veda, i vari tipi di rishi emersero dalla penitenza (tapas) suprema del più antico padre originario: Prajapati. Dalla sua carne emersero tre tipi di rishi: gli aruna, i ketu e i vatarasana. Dalle sue unghie vennero i vaikhanasa e dai suoi capelli emersero i valakhilya. Le principali caratteristiche di questi rishi erano:
- la rinuncia al mondo come il re Vishvamitra
- la pratica di severe tapas come Vasishtha
- la celebrazione del sacro homa come Vyasa.
I rishi erano spesso accompagnati, nella loro vita di rinuncia, dalle moglie e anche da figli e figlie.
In altri casi i rishi, secondo la tradizione gandharva prendevano moglie e formavano famiglie.
Occasionalmente ritornavano alla vita nell’ambito sociale. Il risultato dei loro tapas e austerità era un formidabile controllo su tutte le forme della natura, l’acquisizione di doni dagli Dei e l’ottenimento dell’estasi spirituale. Dopo l’epoca della cultura degli antichi rishi, per millenni il celibato diventa il primo elemento dell’ascetismo hindu.
Successivamente questa lunga tradizione di celibato, in molti casi, iniziò a mutare, questo avvenne prima del decimo secolo dell’era cristiana, epoca di Svetaketu Rashaba. Agli uomini che erano stati sposati era permesso ancora di entrare negli ordini religiosi e dall’XI secolo i capi dei centri religiosi fondati da Ramanuja non avevano più l’obbligo di osservare il celibato.
Addirittura al giorno d’oggi, alcuni ordini consentono il matrimonio, anche se non viene concepito nel senso comune del termine, infatti la famiglia deve essere l’ashram in cui tutto il mondo può trovare casa. La moglie non è chiamata dharma patni, compagna nel dharma, ma piuttosto è conosciuta come rishi patni o compagna nella ricerca della conoscenza.
La prima idea dell’ascetache appare alla nostra mente è quella di immaginarlo ritirato dal mondo materialistico e dedito totalmente a particolari e straordinarie attività in un celestiale mondo spirituale. Ma questa è un’idea stereotipata senza nessun fondamento. L’asceta o lo yogi non perde la sua umanità, vi sono stati rishi dal terribile carattere temuti per le loro continue maledizioni, altri che hanno combattuto, condotto guerre o vissuto in tranquilli eremi con mogli e figli. Quello che possedevano era quell’elevazione spirituale che dava loro la totale consapevolezza in qualsiasi azione della vita.
Lo yogi supera i limiti della maya o le illusioni del mondo temporale per agire nel vero mondo del sé. Nell’agire nel mondo, alcuni yogi hanno applicato il karma yoga anche nella vita e nelle riforme sociali. Alcuni dei più grandi nomi della storia indiana appartengono a yogi e vedantin. Nel XVII secolo Ramdas organizzò gli asceti in un movimento socio-politico.Solamente nel Maharastra fondò quattordici centri monastici che opposero una resistenza organizzata contro gli invasori musulmani. In almeno due occasioni, i sadhu dell’India insorsero in una rivolta militante per salvare l’India dagli oppressori nemici.
Adesso il movimento è soprattutto diretto verso il lavoro sociale e religioso con istituzioni ben definite e attività umanitarie a favore di sofferenti e bisognosi come anche di coloro che ricercano sia una cultura sia una guida spirituale.

Samnyasin
Quando cessa l’attrazione per la vita mondana, gli impulsi del karma si affievoliscono. Allora entrare nella strada della ricerca di Dio diventa un bisogno assoluto e l’ottenimento della liberazione l’essenza della vita. Quando un monaco decide di far parte dell’ordine dei samnyas lascia i suoi impegni con il mondo, lascia i riti ed il frutto delle azioni, il suo unico fine è la mukti, la liberazione spirituale. La sua rinuncia lo rende atmayajin, colui che sacrifica se stesso. Egli diventa l’oblazione stessa del sacrificio cosmico che procede eternamente, cosciente di ciò, egli si dedica unicamente al servizio di Dio.
Quando i monaci vengono iniziati nell’ordine del samnyas, si uniscono al corpo universale dei rinunciatari la cui esistenza è sempre stata come un flusso ininterrotto dai tempi dei Veda sino a oggi.
Nei tempi antichi samnyas faceva parte dei quattro ashrama (stadi della vita dell’uomo: studente, capofamiglia, ritiro nella foresta, rinuncia), ma attualmente viene praticato essenzialmente come scelta religiosa e per questa non esiste un preciso momento. Non si devono fraintendere le scritture quando definiscono il quarto stato di samnyas come l’ultimo stato della vita. In realtà nell’induismo la figura del samnyas non solo è sempre stata incoraggiata, ma addirittura idealizzata come il più elevato "rango".
Le scritture dichiarano che le due vie, capofamiglia e rinunciatario, sono distinte negli ottenimenti e nel dharma e affermano che la vera rinuncia non può essere ottenuta da quelli che vivono nel mondo anche se animati da una genuina attitudine di distacco.
I sacri Veda dichiarano "L’uomo che ha trovato Lui, diventa un monaco silente. Desiderando Lui solo come mondo, gli asceti lasciano le loro case ed errano".
La samnyas diksha può essere conferita da ogni leggittimo samnyasin, ma l’iniziazione più potente e spirituale avviene attraverso uno satguru.
Gli Sastra definiscono quattro tipi di samnyas: vidvat, vividisha, markata, atura.
Nel primo caso, che è detto vidvat samnyas, si ha un’estrema coscienza che la rinuncia e l’abbandono del mondo sia l’unica via per realizzare la realtà e questa consapevolezza deriva da forti samskara maturati nelle vite precedenti.
Il secondo tipo è vividisha samnyas ed avviene quando uno studente, intraprendendo un cammino di ricerca spirituale, compie lunghi anni di studio e introspezioni del Sé, attraverso le scritture e le pratiche, finché non abbraccia il samnyas per coronare i suoi frutti.
Il terzo, markata samnyas, avviene quando una persona colpita da un dolore molto forte, come la morte di un famigliare o altro, fa i voti di rinuncia. Questo è un voto che ha poca forza e potrebbe non durare nel tempo.
L’ultimo tipo, atura samnyas, è quello che si può ricevere in punto di morte. In tale momento, a volte, la persona può sentire il desiderio di compiere il voto di rinuncia e se muore si porterà questa impressione nella vita successiva mentre, se continua a vivere, dovrà condurre una vita rispettosa del dharma, ma se vorrà portare avanti la sua scelta dovrà consolidare i voti presi nel momento "estremo" con una cerimonia appropriata.
Secondo la regola di molti ordini religiosi, se l’aspirante entra nell’addestramento monastico prima dei venticinque anni e possiede particolari doti, dopo un addestramento minimo di dodici anni potrà ricevere i voti entrando nei sacri ordini per iniziare una vita di samnyas.
Solo un samnyasin può condurre un altro all’interno degli antichi ordini, dal momento che il proposito è la realizzazione di Dio, la maggior parte degli aspiranti cerca l’iniziazione da uno svami spirituamente avanzato che li può condurre verso la realizzazione.
Samnyas diksha può essere data in modo semplice o con forme più rituali. I rituali posso includere la tonsura, la rivelazione di particolari insegnamenti esoterici, l’abiura della vita mondana, l’osservanza, in caso ci siano, dei voti monastici, la celebrazione dei riti funebri del novizio e ricevere il kavi (abito dell’ordine). IVeda dichiarano: "Il Sé è ottenuto dentro il corpo puro e risplendente attraverso l’osservanza di verità, austerità, corretta conoscenza e purezza".

Quali sono gli scopi di una vita di rinuncia?
I due obiettivi fondamentali del samnyas sono la realizzazione di Dio e proteggere e perpetuare il dharma.
Sin dai tempi più remoti rinuncia e ascetismo sono stati componenti integrali della cultura vedica e considerati la via più stimata del dharma hindu. La vita monastica ha un obiettivo sia individuale che universale. A livello individuale è una vita di dedizione nella quale il monaco lascia, con piacere, le ambizioni personali, i condizionamenti del mondo materiale e quindi impegna pienamente le sue energie e la sua coscienza verso il Divino. Guidato da un satguru lungo il sadhana marga l’iniziato samnyas ottiene, attraverso gli anni, una realizzazione sempre più profonda e infine, se persiste negli sforzi, ottiene la perfetta identità con Parashiva, la realtà trascendente. A livello universale, il monachesimo induista nutre la religione preservando le verità del sanatana dharma. Gli esseriche hanno ottenuto la consapevolezza della realtà sono i maestri, i teologi, coloro che sono gli esempi della loro fede, i portatori di luce che illuminano la via per tutti.

Quali sono i voti del samnyas?
Negli ordini monastici esistono delle regole che sono comuni a tutte le religioni, ma nell’induismo, al contrario delle altre, questi non sono fissi e inderogabili, infatti variano a seconda della tradizione di appartenenza e soprattutto è il guru, colui che dà l’iniziazione e trasmette la tradizione, che stabilisce le regole e le pratiche che la persona, con la sua particolare struttura, deve seguire. Negli Shastra si trovano elenchi di regole e osservanze, ma vi è sempre la condizione che la parola del guru va oltre tutte le regole, essa è quella che ha valore.
Nella vita del samnyasin le osservanze da rispettare sono: compiere ogni azione della vita per l’unico fine, la liberazione, e seguire povertà, obbedienza e purezza, queste condizioni non devono mai essere abbandonate o annullate. I samnyasin sono le autorità religiose, i protettori del sanatana dharma.
Il primo voto sacro del samnyasin è la rinuncia, l’abbandono della limitante identità dell’ego in modo che il Sé possa raggiungere le profondità dell’essere impersonale. Il samnyasin non possiede nulla, nemmeno gli abiti che indossa.
L’obbedienza è un impegno a seguire la via tradizionale del samnyas dharma e le specifiche direzioni ricevute dal satguru. Essa comprende obbedienza alla propria coscienza, alle scritture, a Dio e alle sue manifestazioni, all’illustre lignaggio (guru parampara).
La purezza è un impegno a rimanere puro nei pensieri, nelle parole e nelle azioni, avere il controllo dei sensi, proteggere la mente da tutti gli istinti inferiori: falsità, odio, paura, ira, orgoglio, gelosia, lussuria, cupidigia e altro. Include l’osservanza di ahimsa.
Alcuni ordini hanno voto di umiltà e riservatezza.

Cos’è la via di kundalini per il samnyasin?
Il samnyasin è completo in se stesso in quanto ha equilibrato in sé sia le energie femminili che quelle maschili, ida e pingala, diventando un conoscitore della conoscenza. Nel samnyasin si risveglia dunque quell’energia pura, che non è né maschile né femminile, è la corrente vitale di sushumna nadi, attraverso il cui potere ottiene il controllo dell’energia di kundalini.Questo potere, dopo anni di attenta guida, potrà condurre al nirvikalpa samadhi.
La via della rinuncia, nel cammino evolutivo, sarà inevitabile per ogni essere in una vita o in un’altra e questo processo deve avere una sua maturazione naturale.
Un piccolo, ma importante avvertimento: attenzione, siate cauti verso coloro che promettono grandi risvegli di kundalini e grandi ottenimenti da pratiche senza preparazione e rinuncia. Coloro che intraprendono la vita del samnyas devono essere preparati a seguire la via tradizionale attraverso anni di sadhana disinteressata, separata dagli amici e dalla famiglia. Tale è la via per raggiungere la verità dello yoga. Essa richiede molti e molti anni affinché il sé si sviluppi e maturi.
Nell’opera Tirumantiram si afferma: "Molte sono le nascite e le morti dimenticate dal sé avvolto nell’ignoranza, avviluppato dalle oscure impurità. Al momento che la grazia di Shiva è guadagnata, il rinunciatario ottiene la luce splendente della conoscenza".

Rohini Devi

Articolo tratto da Sri Vidya n. 13 - hinduism.it

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