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Mahabharata 47-50

47 Nella foresta di Kamyaka

La notizia del drammatico avvenimento di Jayanta si diffuse in un baleno per tutta Hastinapura. Dalle case e dai luoghi pubblici la gente cominciò a riversarsi per le strade.

  A poco a poco si formò una folla sterminata che vociando e condannando il re empio, si diresse verso la porta meridionale della città, in direzione del Gange, ove erano diretti i Pandava. Scorti i cinque fratelli tutti cominciarono a inneggiare alla loro rettitudine.

  "Duryodhana ha voluto mandarvi nella foresta," dicevano, "e noi vi seguiremo, così creeremo una vera e propria città nella foresta, spopolando Hastinapura. Permettetici di venire con voi."

  E Yudhisthira parlò loro.

  "Vi ringrazio di queste dimostrazioni di affetto, ma non potete venire con noi. Nel luogo in cui andremo a vivere non ci sarà cibo sufficiente per tutti, nè potremo permetterci comodità di alcun tipo. E non preoccupatevi. Noi ora siamo costretti a recarci nelle foreste perchè siamo legati dal debito del gioco, ma fra tredici anni torneremo e stabiliremo ciò che è giusto."

  Dopo diverso tempo la folla, a malincuore, si disperse, ma i fratelli non rimasero da soli: oltre al loro maestro Dhaumya, molti brahmana e amici fedeli non avevano accettato la proposta di tornare nelle loro case ed erano determinati a seguire i Pandava ovunque andassero.

  Giunti al grande fiume santificato dal contatto della testa di Shiva, il gruppo si ristorò, bevendone l'acqua fresca e santa. Passarono la prima notte di esilio sotto gli alberi.

  Il mattino seguente Yudhisthira, preoccupato per quegli amici che avevano dormito all'aperto, in condizioni disagevoli, cercò di convincerli a ritornare alle loro case.

  "Cari amici, voi sapete quanto la vostra compagnia mi sia cara, e quanto nei prossimi anni io avrò bisogno di parlare e ascoltare di argomenti che trattino di Brahman, la Realtà Spirituale, di cui tutti voi siete esperti. Ma la vita sarà dura, e io non voglio vedervi soffrire a causa mia. Vi prego, tornate ad Hastina-pura."

  Ma essi rifiutarono.

  "Non preoccuparti, Yudhisthira," gli risposero. "Siamo pronti ad affrontare qualsiasi sacrificio pur di stare in vostra compagnia. Non accetteremmo mai di vivere in un regno governato dalla perfidia personificata. Sapremo trovare il sostentamento per le nostre vite."

  Nonostante quelle rassicurazioni, Yudhisthira si sentiva in ansia: il suo primo dovere di kshatriya era quello di provvedere ai bisogni dei brahmana, e come avrebbe potuto farlo nella foresta?
  In privato ne parlò a Dhaumya.

  "Tutto cresce per la grazia e l'energia del sole," rispose il guru, "per cui in ultima analisi è Vivashvan che in questo mondo provvede ai nostri bisogni. Ora, giacchè è da lui che dipende il sostentamento di miliardi di esseri viventi, non credi che non abbia problemi a procurare di che vivere a poche decine di persone? Ti insegnerò delle meditazioni grazie alle quali potrai parlare direttamente con lui e chiedergli aiuto."

  Nei mesi che seguirono, il figlio di Dharma praticò delle severe ascesi e alla fine Surya, il deva che predomina sul pianeta solare e che svolge tali funzione grazie alle attività pie compiute nel corso di numerose vite, discese sulla Terra.

  "Io so cosa ti preoccupa," disse, "e ciò è degno di te perchè è indice di virtù. Un re deve sempre pensare prima al sostentamento e al benessere degli altri e poi a sè stesso. Ecco, io ti dò questa pentola di rame che produrrà per dodici anni tanto cibo quanto ne necessiti. Ma fa attenzione perchè ciò accadrà una sola volta al giorno e appena Draupadi avrà mangiato, la pentola si esaurirà fino al giorno seguente. Dunque fa in modo che sia sempre tua moglie a servire e che consumi il pasto solo dopo che voi avrete finito."

  Così, risolto il problema più impellente e felice di non doversi privare della compagnia di tanti saggi brahmana, Yudhisthira cominciò a trascorrere le giornate discutendo di complesse problematiche filosofiche e delle attività trascendentali del Signore e dei Suoi intimi associati.

  In quei giorni si diressero verso la foresta di Kamyaka. Lì rimasero per un pò di tempo.

  Nel frattempo, nella sua sfarzosa reggia, avendo realizzato cosa avrebbe potuto comportare l'aver trattato i nipoti in quel modo, Dritarashtra non si dava pace; si era amaramente pentito di aver permesso al figlio di danneggiarli in maniera così apertamente scorretta. E fece chiamare Vidura, il solo che nei momenti più neri riusciva con tanti buoni consigli a procurargli sollievo dalle ansietà. Ma questi, come sempre quando gli si chiedeva di esaminare il problema dei Pandava, fu molto esplicito.

  "Come puoi essere tranquillo se non ti comporti secondo i principi della virtù? Ti sei reso complice di un abominio nei confronti dei figli di tuo fratello minore, che ti rispettava e ti amava. Cosa pensi che direbbe Pandu se fosse ancora vivo? Ora dici che sei in ansietà e non sai cosa fare, eppure è così semplice: devi ridare loro ciò che Duryodhana e i suoi amici hanno rubato e chiedere umilmente perdono per tanta ignobile empietà. Solo così, forse, la rabbia di Bhima, di Arjuna e dei gemelli potrà placarsi e la vita dei tuoi figli essere salva."

  Ma quelle parole fecero infuriare Dritarashtra.

  "Da come parli sembra che gli unici guerrieri potenti e le sole persone sagge al mondo sono i Pandava e che i miei figli non valgano alcunchè. Stai esagerando, Vidura. Che interesse hai nel proteggere sempre loro e nel denigrare i miei figli? Cosa si cela dietro questo tuo inaccettabile atteggiamento?"

  Aspramente contestato, Vidura capì che ancora una volta le sue parole non sarebbero state ascoltate dal fratello maggiore e allora gli disse:

  "Poichè a causa tua ogni concetto di santità è stato bandito da questa corte che una volta era governata da re saggi, io la abbandono, e vado dove il dharma è venerato e seguito."

  Amareggiato, Vidura partì dalla città il giorno stesso e raggiunse i Pandava nella foresta. Fu accolto da tutti con gioia immensa.

  Tuttavia quando Dritarashtra realizzò che il fratello aveva detto sul serio e che si era allontanato da Hastinapura, si pentì di aver detto quelle parole e mandò Sanjaya a pregarlo di tornare.
  Vidura accettò.

  "Posso fare molto di più se torno," disse a Yudhisthira. "Lì posso cercare sempre di instillare saggezza e virtù nel cuore di Dritarashtra, che non solo non ha occhi per vedere le cose di questo mondo, ma non riesce a discernere neanche quelle del mondo di Dio. Ad Hastinapura io posso tentare di salvare l'anima di mio fratello, ma voi non immaginate nemmeno quanto mi sarebbe piaciuto, invece, rimanere qui con voi."

48 La maledizione di Maitreya

 Mentre Dritarashtra era stato felice per il ritorno di Vidura, Duryodhana e i suoi amici non lo furono affatto. Sapevano bene che egli aveva il potere di esercitare una forte e costante influenza sull'anziano re, il quale finiva sempre col dare ascolto ai suoi consigli; cosicchè avevano paura che anche quella volta sarebbe riuscito a convincerlo a restituire il regno ai Pandava.

  Ormai per Duryodhana non si trattava solo del vecchio desiderio di vedere i cugini caduti in disgrazia, ma era sopraggiunto anche un vivo senso di paura: i Pandava avevano pronunciato dei voti terribili, e conoscendo specialmente Bhima e Arjuna, sapeva che non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di realizzare ciò che avevano giurato. E i loro alleati, i Panchala, i Vrishni, i Matsya, erano tutti guerrieri tremendi. Per di più il fatto di combattere con la consapevolezza di essere dalla parte della ragione avrebbe contribuito a conferire loro una furia speciale. Per tutti questi motivi, insieme ai suoi amici, il Kurava decise infine che sarebbe stato meglio affrontarli subito, mentre si trovavano ancora privi di alleati e di mezzi.

  Senza che il padre ne fosse a conoscenza, Duryodhana fece preparare l'esercito. Ma Vyasa, venuto a sapere delle sue intenzioni, intervenne, e riuscì a bloccare l'efferato progetto.

  Qualche giorno dopo arrivò a corte il potente saggio Maitreya, che raccontò di aver incontrato i figli di Pandu nella foresta e di aver parlato con loro.

  "Duryodhana," disse il saggio, "mi appello a te. Ciò che hai fatto è empio: un tale comportamento non è consigliato dalle nostre leggi le quali, come tu sai, possono dare perenne beneficio spirituale. Richiama i Pandava, chiedi scusa e restituisci tutto ciò che era loro."

  Tuttavia mentre il saggio parlava, il principe non lo guardava neanche e si colpiva la coscia con violenza. Con tale atteggiamento voleva dimostrare che grazie alla sua forza non aveva rivali da temere. Quella era una vera e propria mancanza di rispetto nei suoi confronti e verso ciò che diceva, per cui Maitreya, irritato, disse:

  "Il giuramento di Bhima si avvererà: tu morirai con la coscia rotta dalla sua mazza, quella stessa che colpivi con forza mentre parlavo."

  Quelle parole terrorizzarono Dritarashtra, che ben conosceva la potenza delle maledizioni dei rishi del calibro di Maitreya.

  "Grande saggio," supplicò, "perdona mio figlio, il quale non conosce il valore del retto comportamento nei confronti dei santi. Ti prego, tu che sei sempre misericordioso verso le anime cadute e confuse, ritira la tua condanna."

  Il rishi allora ribattè:

  "O re, poichè discendi da una stirpe gloriosa come quella dei Bharata, io perdonerò Duryodhana e la mia maledizione non avrà effetto; ma egli deve fare pace con i Pandava."

  A quelle parole Duryodhana, per nulla impensierito, fece un ghigno di scherno.

  Maitreya allora, senza aggiungere altro, uscì dalla sala reale, gettando tutti nella costernazione. E Vidura, disgustato da quel comportamento degno delle persone più basse e ignoranti, si rivolse ai presenti.

  "Sembra che il nostro giovane Duryodhana ignori i principi basilari del comportamento di uno kshatriya del suo rango e non tema il peccato. Forse pensa che il valore suo e dei suoi amici gli possa dare la vittoria sul dio della morte. Eppure non solo egli sarà sconfitto nel momento in cui dovrà presentarsi al cospetto di Yamaraja, ma anche in questa vita conoscerà la disfatta più pesante proprio quando si troverà di fronte alle possenti braccia del secondo figlio di Pandu. Nei giorni in cui sono rimasto nella foresta con i Pandava, Kirmira, un rakshasa fratello di Baka e caro amico di Hidimba, è venuto da noi e lo ha sfidato per vendicare le loro morti. Ora vi racconterò come Bhima ha ucciso Kirmira."

  La storia che Vidura raccontò ebbe l'effetto di terrorizzare ancora di più il re cieco, che fu preso da violenti tremiti al solo pensiero della furia di Bhima; mai, per tutta la sua vita, avrebbe dimenticato il tono della sua voce. Al contrario Duryodhana ascoltava senza fare una piega.

49 A Dvaitavana

  Un giorno un piccolo drappello arrivò a Kamyaka. Era Krishna, accompagnato da Drishtadyumna, Dhrishtaketu e dai fratelli Kekaya, tutti famosi nel mondo per il loro valore in guerra. Erano venuti a fare visita ai Pandava per sapere come vivevano nella foresta e per parlare dei Kurava.

  "Se vuoi," disse Krishna a Yudhisthira, "io posso marciare subito con il mio esercito verso Hastinapura e distruggere i vostri nemici. Il mondo ha bisogno di governanti virtuosi, non di asura come Duryodhana e i suoi degni compagni."

  "No, Krishna," ribattè il Pandava. "Il governante deve essere sempre pio ed è importante che non devii mai dal sentiero della virtù, cosa che il nostro perfido parente fa in zione; tuttavia io ora ho un debito con lui che si estinguerà fra tredici anni. Trascorso questo periodo tutti noi potremo finalmente fargli scontare ciò che si merita. Ma solo allora."

  Eppure, nonostante le sagge parole proferite da Yudhisthira, tutti si sentivano in favore di una guerra immediata; Krishna stesso era infuriato con i Kurava, e la sua rabbia, che contra-stava con la bellezza trascendentale del suo volto, incuteva ancora più paura. Così egli disse:

  "Io giuro che non saranno trascorsi molti giorni dopo la scadenza dei prossimi tredici anni che la terra potrà bere il sangue dei figli di Dritarashtra e di tutti coloro che lo hanno appoggiato."

  Quel giorno anche Draupadi, alla presenza di Krishna e del fratello Drishtadyumna, non riuscì più a contenere il dolore, dando libero sfogo a tutte le amarezze. Krishna la consolò con parole gentili.

  "Cara regina, tutto ciò non sarebbe successo se io fossi venuto a Jayanta. Purtroppo ero impegnato in un duro combattimento contro Shalva e per questa ragione non sono potuto intervenire. Ma non devi crucciarti troppo, casta signora, perchè presto quest'esilio terminerà e Duryodhana, che in questo momento sta godendo dei risultati delle proprie attività empie, non tarderà a pagare il fio dei propri misfatti."

  Krishna si era poi soffermato a raccontare la storia della battaglia che lo aveva visto avversario del potente demone Shalva.

  L'indomani i visitatori erano ripartiti, lasciando i Pandava pieni di coraggio rinnovato.

  Susseguentemente alla visita dei Vrishni, i Pandava decisero di lasciare Kamyaka e di spostarsi a Dvaitavana, una bellissima foresta che Arjuna aveva visitato durante il suo precedente pellegrinaggio.

  Appena furono arrivati, Yudhisthira si recò a rendere omaggio ai rishi che vivevano in quel posto e ricevette da tutti saluti colmi di profondo affetto. Al figlio di Dharma piaceva molto l'atmosfera particolare della foresta, la pace, la serenità, lo scenario naturale e incontaminato, le pratiche dello yoga e della meditazione, e soprattutto la compagnia di coloro che avevano rinunciato ai piaceri mondani per ottenere la liberazione e il ritorno nell'universo spirituale d'origine.

  In un idilliaco angolo di Dvaitavana, i fratelli costruirono delle semplici capanne che sarebbero state le loro dimore per diverso tempo. In quel luogo Yudhisthira riuscì a ritrovare la pace mentale che credeva ormai perduta.

  Un giorno venne a trovarli uno dei rishi più illustri dell'epoca, Markandeya, che per la sua età avanzata aveva assistito agli avvenimenti di molti yuga, e pur tuttavia grazie ai suoi poteri mistici e alle benedizioni di Shiva aveva mantenuto il corpo giovane e fresco come quello di un ragazzo. Markandeya rimase con loro svariate settimane e raccontò meravigliose storie, fra le quali quella del principe Nala. Poi, con la promessa di ritornare presto, ripartì.

  Abbiamo già avuto modo di dire che Yudhisthira amava la vita della foresta, poichè aveva l'animo dell'asceta, del contemplativo, del filosofo; godeva delle lunghe discussioni con i rishi e delle discipline spirituali. Ma lo stesso non si poteva dire degli altri fratelli nè di Draupadi. Soprattutto Bhima non aveva affatto sbollito la furia terribile dei tempi di Jayanta; così continuava con tremenda determinazione ad allenarsi, e spesso lo si sentiva imprecare e lanciare minacce contro Duryodhana e i suoi fratelli. Dunque Yudhisthira era felice, ma gli altri cinque non lo erano affatto. Vivevano nell'attesa della vendetta.

  Una sera, non riuscendo più a contenersi, Bhima e Draupadi si sfogarono.
  "Tu non sei un vero kshatriya," dissero, "tu sei un brahmana nato nella famiglia sbagliata. Ma noi che apparteniamo alla razza guerriera non possiamo godere come fai tu di questa vita; noi vogliamo agire, vendicare i torti subiti, vogliamo uccidere gli empi che ci hanno umiliati. E tutto questo è successo per colpa tua, per il tuo attaccamento al gioco, per non aver saputo resistere alla tentazione dell'azzardo."

  "No, vi sbagliate," rispose lui. "La mia intenzione non è affatto quella di godere di questa situazione così serena, bensì essendo kshatriya di nascita la mia propensione è tutta verso l'osservanza dei miei doveri naturali. Noi abbiamo il dovere di proteggere la gente con un governo che rispecchi le leggi del Signore Supremo. E sono proprio queste stesse leggi che non ci consentono di rompere le promesse. Anche se siamo stati ingannati, abbiamo perso al gioco e promesso che avremmo trascorso dodici anni per le foreste e il tredicesimo in incognito. Il tempo passerà in un baleno e porrà fine a quest'esilio; e allora agiremo come compete a uno kshatriya. Incontreremo i Kurava sul campo di battaglia e li stermineremo dal primo all'ultimo."

  Il tono della sua voce era talmente acceso e accorato che gli altri ne furono rassicurati.

50
La partenza di Arjuna

  La sera in cui si stava discutendo per l'appunto di quella intricata questione, fece loro visita Vyasa, il grande saggio dall'animo puro e incontaminato. Al suo arrivo i Pandava e i loro compagni gli si prostrarono ai piedi con grande reverenza.

  "Bhima," disse Vyasa intervenendo nella discussione, "tuo fratello ha ragione. Noi conosciamo la tua forza e il valore militare di Arjuna, e comprendiamo che tu vorresti partire in questo stesso momento per distruggere i tuoi nemici; ma in queste cose non si deve essere impulsivi. Pensi forse di essere l'unico grande combattente sulla faccia della Terra? che fra i tuoi nemici non ci sia nessuno in possesso di forza e valore? Ti sbagli, perchè sul campo di battaglia troveresti soldati praticamente invincibili. A parte Duryodhana e i suoi fratelli, che sono anime nere ma impareggiabili in battaglia, hai dimenticato che Bhishma e Drona e Bhurishrava e Asvatthama, pur non condividendo il suo modo di agire, si ritroveranno costretti a combattere dalla loro parte? E hai dimenticato Karna? E quanti altri ancora sicuramente si schiereranno contro di voi? Prima di irrompere ad Hastinapura come giustizieri dovete rafforzarvi, ottenere armi nuove e più potenti. E' questo il giusto modo di utilizzare gli anni del vostro esilio."

  "Ma come possiamo fortificarci nella foresta," ribattè Bhima, "se non possiamo avere contatti con nessuno? Questo non è un luogo di preparazione militare, ma di meditazione e ascesi."

  "Non è di alleati che avete bisogno," disse Vyasa, "ma di qualcos'altro. Quando Indra combattè contro Arjuna a Khandava, rimase immensamente compiaciuto del suo valore e del suo carattere nobile; e in quell'occasione disse che se fosse riuscito ad avere l'arma pashupata da Shiva gli avrebbe concesso anche le sue. E' arrivato il momento che Arjuna parta per il nord, che vada sulle vette himalayane ad adorare Mahadeva e a farsi concedere la pashupata.

  "Bhima, Duryodhana è così invidioso di voi che la guerra ci sarà di certo, ma voi dovete prepararvi per vincerla. E per riuscirci avete bisogno di armi celestiali." 

  In seguito alla visita di Vyasa, i Pandava ritornarono a Kamyaka, stabilendosi sulle rive del fiume Sarasvati. E pochi giorni dopo ripresero a parlare dell'argomento che stava loro più a cuore.

  "Arjuna," disse Yudhisthira, "come ci ha detto Vyasa, dobbiamo prepararci per la guerra. Quindi se vogliamo sperare di sconfiggere guerrieri del calibro di Bhishma, Drona, Karna e Asvatthama, dobbiamo fare come ci ha consigliato. Tu devi andare al nord, sulle Himalaya, e conquistare le armi dei deva più eccelsi."

  Quelle parole furono come musica per le orecchie di Arjuna, che si sentì come liberato da un letargo forzato. Felice di tornare all'azione e di potersi preparare per la guerra, pochi giorni dopo partì. Erano passati sei anni dal giorno in cui aveva avuto inizio il loro esilio.

 

 

 

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