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Uno sguardo all'Induismo

Articolo di Darryl D’Souza

Presentare l’Induismo agli occidentali è un’impresa difficile. Anche solo descrivere le tappe storiche della sua evoluzione richiederebbe non solo competenza, ma anche molto spazio, e tutto questo non è possibile in poche pagine. Ho pensato allora di offrire ai lettori alcuni elementi fondamentali della storia di questa antichissima religione per poi soffermarmi sull’Induismo moderno allo scopo di dare la possibilità di orientarsi, almeno un po’, in questo mondo religioso ricco di valori, ma anche assai complesso e misterioso per chi non è cresciuto al suo interno. Nei nostri tempi molte forze vive della Chiesa cattolica stanno intensificando un dialogo fecondo con l’Induismo e su questa scia si è inserito anche il Movimento dei focolari secondo il suo stile caratteristico: il dialogo della vita.

 

Il sottofondo storico dell’Induismo risale al terzo millennio avanti Cristo, perché quando gli ariani provenienti dall’Asia centrale penetrarono nell’India e si stabilirono lungo le fertili sponde del fiume Indo, qui già erano fiorenti una civiltà e una religione ben sviluppate che essi recepirono e amalgamarono con la loro cultura. A causa dell’enorme estensione del Paese l’Induismo si sviluppò prendendo forme diverse nelle varie regioni, inglobando con una capacità unica le culture regionali. Per questo esso è molto diversificato e allo stesso tempo ha un’unitarietà di fondo. Si può parlare di un’unica religione ma multiforme.

L’Induismo, nella sua storia plurimillenaria, si è dimostrato sempre assai flessibile. Ogni volta che ha dovuto affrontare gravi sfide, dopo momenti di confusione e di smarrimento, ha ritrovato in sé sufficiente creatività e dinamismo, non solo per superarle, ma anche per arricchire il suo patrimonio con l’apporto delle nuove esperienze.

Un po’ di storia

Rinunciando a percorrere tutte le tappe dell’evoluzione dell’Induismo, cerchiamo di capire cosa è avvenuto nell’incontro con le altre grandi religioni.

a) L’incontro col cristianesimo

Sappiamo che il cristianesimo arrivò in India già nei primi secoli. I cristiani di questo Paese sono orgogliosi di richiamarsi all’apostolo Tommaso. Pur non essendoci fonti scritte, gli storici riconoscono che la presenza cristiana qui è molto antica. Basta considerare gli antichissimi riti liturgici conservati ancora oggi dentro e fuori la Chiesa cattolica. C’è poi uno Stato, il Kerala, a maggioranza cristiana, con una presenza molto viva della Chiesa cattolica e di quella Siro-ortodossa. Esse, però, non ebbero influssi notevoli sul resto dell’India.

Con lo sbarco di Vasco Da Gama sulla costa occidentale nel 1498, l’Occidente stabilì un nuovo contatto per motivi commerciali attraverso le vie marittime. Con i commercianti portoghesi vennero anche i missionari cristiani, ma l’influsso della cultura europea sull’Induismo nel suo complesso fu praticamente trascurabile. Le missioni cattoliche (portoghesi) e quelle protestanti (olandesi e danesi) portarono la novità del Vangelo solo in alcune zone costiere.

Un periodo promettente per la presenza cristiana si ebbe nei secoli XVI e XVII con san Francesco Saverio e soprattutto con Roberto De Nobili. Quest’ultimo cercò di accogliere la cultura locale nella catechesi e  nella liturgia, ma con la soppressione dei gesuiti anche la loro opera andò distrutta.

Bisognerà arrivare ai nostri giorni per vedere un rifiorire del cristianesimo in India, con tentativi lodevoli di inculturazione sia nel campo monastico che in quello pastorale.

b) L’incontro col Buddismo

Ma torniamo indietro. Nel secolo VI a.C. in India sorsero il Buddismo e il giainismo, per reazione, tra l’altro, ad alcuni eccessi e abusi all’interno dell’Induismo da parte dei brahmini di allora, come ad esempio, il ritualismo esagerato, i sacrifici cruenti, la loro indebita supremazia. Nell’incontro con queste due nuove religioni, l’Induismo assimilò la loro filosofia morale e diede particolare rilievo al principio della non-violenza. Di conseguenza i sacrifici cruenti diventarono sempre più rari e, quanto all’istituzione monastica, oltre al suo tradizionale monachesimo solitario, adottò anche il sistema cenobitico, caratteristico del Buddismo.

c) L’incontro con l’Islàm

Un’altra fase importante nella storia fu l’incontro con l’Islàm. Gli islamici incominciarono le loro incursioni sporadiche in India nel 712. Queste divennero sempre più frequenti verso il secolo XI  ed entro il secolo XIII la maggior parte dell’India passò sotto il governo islamico. In seguito l’islam consolidò la sua conquista che durò fino al secolo XVIII.

L’islamismo entrò in India con uno zelo missionario tale da imporre la sua fede ai seguaci delle religioni locali, cosiddetti non-credenti. Con mezzi non solo pacifici riuscì ad ottenere numerose conversioni, perché le caste più basse trovavano nella nuova religione il desiderato sollievo dall’emarginazione e dall’oppressione sociale delle caste più alte. Il regno islamico, con la sua intolleranza religiosa, costituì una gravissima minaccia alla sopravvivenza stessa dell’Induismo. Ogni indù, che non si convertiva, era costretto a pagare un tributo.

L’Induismo nel tentativo disperato di autodifesa si ripiegò su se stesso, rafforzò le barriere delle caste e si rese più o meno impenetrabile.

Nonostante tutto, le due religioni subirono profondi influssi reciproci. Ancora oggi non vi è aspetto della vita indiana che non porti qualche impronta della cultura musulmana. E questo lo si nota nell’arte, nell’architettura, nella letteratura, nella musica.

Nella religione indù l’Islàm ha influito, ad esempio, nell’accentuare maggiormente la fede monoteista, nel riconoscere sempre di più i difetti dell’idolatria e dell’istituzione rigida delle caste. Anche il misticismo islamico a sua volta si è notevolmente arricchito a contatto con l’Induismo.

d) L’incontro con la cultura europea

La presenza britannica in India apportò grandi cambiamenti. Gli inglesi, sbarcati come commercianti all’inizio del secolo XVII, vi si stabilirono come governanti negli ultimi decenni del secolo XVIII, e continuarono fino al 15 agosto 1947. In questo periodo avvenne forse il primo incontro vitale dell’Induismo con la cultura occidentale e, conseguentemente, anche con il cristianesimo.

L’Induismo stava attraversando un periodo di crisi con usanze incomprensibili alla sensibilità moderna, come l’immolazione delle vedove nel fuoco della pira del marito, il matrimonio tra fanciulli, la proibizione del matrimonio alle vedove, l’intoccabilità, ecc.

In quest’epoca gli evangelizzatori occidentali, cattolici e protestanti, si impegnavano con vigore a favore della gente emarginata. Erano intransigenti nel criticare apertamente i mali reali e presunti della tradizione indù. Per quanto riguarda l’educazione il loro contributo è stato senz’altro rimarchevole. Nel primo quarto del secolo XIX i missionari protestanti diffusero traduzioni della Bibbia in una ventina di lingue locali, dando la possibilità agli indiani di conoscere meglio il cristianesimo.

Nel 1835 il governo britannico introdusse l’educazione scolastica occidentale di tipo inglese. Anche se in India esisteva già una tradizione educativa molta antica con alcuni centri di insegnamento superiore, questi seguivano un sistema ormai sorpassato: l’istruzione veniva impartita in sanscrito e lo studio era prevalentemente di carattere religioso.

L’inefficacia di questo sistema era ovvia. Di conseguenza il governo britannico diede vita a varie istituzioni educative e i missionari cristiani contribuirono notevolmente ad estenderle.

Benché non fosse giusto imporre un sistema straniero d’istruzione senza riguardo allo sfondo culturale del Paese, questo servì per mettere i popoli dell’India in contatto vitale con idee, pensieri e ideali sociali, politici e religiosi dell’Occidente. E, contemporaneamente, contribuì anche al risveglio religioso e sociale dell’Induismo.

L’opera dei riformatori

Gli occidentali, durante il periodo coloniale, si dedicarono con fervore allo studio della cultura, della religione e della letteratura indiana. Tradussero in lingua inglese i diversi libri sacri ed opere letterarie indù, rendendo accessibili, per la prima volta agli occidentali ed anche a molti degli stessi indiani, le ricche fonti della loro antica cultura.

In questo modo i leaders indù divennero più consapevoli e fieri della ricchezza delle loro culture millenarie e nello stesso tempo si resero conto che a valori perenni e sublimi della loro tradizione si erano aggiunti lungo i secoli anche dei disvalori. Di qui la nascita di movimenti di riforma dell’Induismo.

I principali di questi movimenti sono il Brahma Samaj, l’Arya Samaj, e la Missione di Ramakrishna.

Il primo impulso fu quello di riformare l’Induismo, adottando “senza riserve” la visione occidentale con i suoi principi cristiani. Il Brahma Samaj fu fondato da Ram Mohan Roy (1772-1833), chiamato “il padre dell’India moderna”. Egli, professando una religione monoteista di tipo razionalista e adottando i principi morali del Nuovo Testamento, promosse molte riforme nella società indù; respinse la credenza tradizionale nella reincarnazione delle anime, la pratica dell’idolatria, il sistema sociale delle caste e, insistendo sulla paternità di Dio e la conseguente fratellanza degli esseri umani, cercò di inculcare una nuova sensibilità sociale. Il Brahma Samaj esercitò una forte influenza sugli intellettuali indù, ma non penetrò nelle masse.

Il secondo impulso fu dato da un ritorno al vedismo antico. Swami Dayananda Saravsati (1824-1883) fondò l’Arya Sama. Egli dichiarò che tutto quello che non aveva una conferma nei Veda era un’escrescenza posteriore che contaminava la purezza dell’Induismo; combatté le superstizioni, l’idolatria, la discriminazione delle caste ed altre pratiche odiose, ed intraprese varie riforme sociali. Volendo inculcare negli indù l’orgoglio per la superiorità della loro religione millenaria, osteggiò l’islamismo e il cristianesimo, introducendo metodi per riconvertire all’Induismo coloro che erano diventati musulmani o cristiani.

Il terzo movimento, il Ramakrishna Mission, fondato da Vivekananda (1863-1902), cercò di diffondere il messaggio del grande mistico Sri Ramakrishna (1834-1886). Egli con la vita e le parole insegnava l’armonia fondamentale esistente tra le varie religioni in quanto mezzi per arrivare all’unica Realtà Suprema chiamata diversamente nelle varie tradizioni. Per lui non è necessario cambiare religione, basta praticar bene la propria.

Vivekananda fu il primo indù che si portò in Occidente per farvi conoscere l’Induismo. Nei discorsi e negli scritti sottolineava frequentemente la complementarietà della cultura orientale ed occidentale: la prima perché ricca di spiritualità e di mistica, la seconda perché ricca di risorse materiali e di tecnologie. Quest’idea è ripetuta spesso da tutte le grandi figure dell’Induismo moderno.

A questi riformatori bisognerebbe aggiungere i nomi di altri grandi maestri induisti come Rabindranath Tagore, Ramana Maharshi, Mahatma Gandhi e Sri Aurobindo.

Per tutti loro i fondamenti per una nuova civiltà si trovano nei principali libri sacri e negli insegnamenti sapienziali della loro tradizione, ma questi interpreti moderni sottolineano l’oggettività e l’importanza, pur sempre relativa, anche di questo mondo. Essi presentano una visione spirituale della vita  senza sradicarla da questa terra. Cercano anche di superare l’individualismo della spiritualità indù per creare una nuova coscienza sociale basata sull’uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani.

Anche per quanti praticano una severa vita ascetica e mistica, ridimensionano la solita insistenza sulla rinuncia al mondo e sul monachesimo solitario, inculcano lo spirito di servizio, soprattutto verso gli oppressi e gli emarginati, e cercano l’equilibrio tra la contemplazione delle realtà divine e l’azione a favore del prossimo.

Testimone di questa svolta fu Tagore, che nel suo libro Gitanjali, ammoniva:

«Smettila di cantare i tuoi inni,    
di recitare le tue orazioni!           
Chi adori in quest’angolo buio    
e solitario d’un tempio,  
le cui porte sono tutte chiuse?    
Apri i tuoi occhi e guarda:          
non è qui il tuo Dio.       
Egli è là dove l’aratore   
solca la dura terra,         lo spaccapietre  
apre una strada.
È con loro nel sole e nella pioggia,          
la sua veste è coperta di polvere. 
Levati il manto sacro     
e scendi con lui nella polvere.     
Liberazione?     
Dove credi di poter trovare la liberazione?
Il tuo stesso Signore      
ha preso su di sé lietamente        
i legami della creazione  
ed è legato a noi tutti per sempre».

Tra queste personalità occupa un posto privilegiato Gandhi a tutti ben noto nel suo impegno per la liberazione e la pacificazione del suo popolo, fino a dare la vita per questa causa.

L’Induismo dei nostri giorni

Pur riconoscendo l’influsso che questi fermenti di rinnovamento hanno esercitato sulla società indiana, almeno nelle classi più istruite, come è la vita dei suoi seguaci?

Le pratiche indù oggi

L’osservanza religiosa degli indù di oggi è in stretto legame con la loro tradizione e va dal culto delle immagini sacre alla venerazione degli antenati e dei maestri spirituali, dalla recita delle formule sacre alla celebrazione di feste religiose, dall’osservanza di vari riti sacramentali alla visita ai templi e ai pellegrinaggi verso i luoghi santi, dall’immersione nei fiumi sacri all’esercizio di qualche disciplina come via di perfezione e liberazione finale.

Il culto delle immagini avviene generalmente in una stanza della casa ed è l’aspetto più popolare. L’immagine deve essere prima debitamente vivificata dal sacerdote. Egli invoca la divinità che prende possesso della sua immagine, la quale da quel momento non è più qualcosa d’inanimato, ma è palpitante della vita e della potenza della divinità che la abita.

Naturalmente di queste divinità ce ne sono a migliaia. Eppure non sarebbe esatto dire che l’indù è politeista. I più colti di loro insegnano apertamente che il culto rituale è utile soltanto a coloro che non sono ancora in grado di contemplare la propria identità nell’Assoluto, che è impersonale, trascendente, “Unica realtà senza un secondo”.

La tradizione indù attribuisce grande valore spirituale al pellegrinaggio. Esso è la migliore espiazione per i peccati commessi in tutte le incarnazioni passate e la fonte di ogni bene in questa vita e in quella futura. L’efficacia del bagno nel Gange è tale che purifica non solo chi lo pratica, ma anche i suoi discendenti fino alla settima generazione. Dopo il bagno purificatore, il pellegrino compie l’atto più importante, la circumambulazione: il cammino devoto attorno ad un oggetto o luogo sacro, ripetendo una preghiera di espiazione, come ad esempio:

«Sono un peccatore, ho commesso peccati,         
sono colpevole, un uomo smarrito.         
Salvami, o Dio, con la tua grazia,            
tu che ami chi si rifugia in te!».

Negli abitanti dei villaggi

Circa l’80% degli indù vive nei villaggi e rimane radicata nelle sue credenze ancestrali; crede nel destino ed evita di venire a contatto con oggetti e persone ritenute impure, fonti di malanni di ogni tipo. Tutti sentono ovunque la presenza della divinità, che prende innumerevoli forme, alcune benigne, altre neutre ed altre ancora malevoli. Per questo ogni villaggio pullula di esorcisti, astrologi, guaritori, ecc.

Nella classe media delle città

Diversa è la mentalità della classe media cittadina, che ha eliminato buona parte delle paure ancestrali e privilegia i valori etici sulle osservanze rituali. Non per nulla alcuni valori occidentali ispirati al Vangelo sono stati incorporati nella Costituzione indiana.

Nelle città ci sono ancora i tradizionali Bramini che si alzano presto e passano le prime 4 o 5 ore in una complicata serie di purificazioni rituali, recitando lunghi tratti di scritti sacri in sanscrito, per poi eseguire il rituale culto delle immagini e la meditazione. Ma il loro numero è in continuo declino.

Non manca neanche una frangia urbana di indù agnostici che rigettano le credenze tradizionali e le pratiche rituali. Tra loro si contano scienziati, professori universitari, medici, magistrati, operatori sociali e politici.

Quale dialogo?

È questo l’Induismo con cui la minoranza cristiana dell’India deve convivere e dialogare. Parliamo di minoranza, perché i cristiani in India sono circa 18 milioni (i cattolici 12 milioni) su una popolazione di circa um miliardo, di cui 0,5% sono giainisti, 0,71% buddisti, 1,82% cristiani, 11,35% islamici e ben 83% induisti.

In un ambiente a prevalenza induista vale il dialogo della vita, di cui si parla in queste pagine. Lo stesso card. Tomko, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, dopo aver saputo della linea seguita da Chiara su questo argomento, ha scritto: «...sentiamo di unirci a voi nel rendere grazie al Signore per questa via che, attraverso la persona e l’opera di Chiara, lo Spirito Santo ha voluto aprire alla Chiesa».

Infatti per i leaders induisti più illuminati il criterio ultimo per giudicare la validità e la credibilità di una dottrina o di una religione non è la sua coerenza logica, tanto meno le dichiarazioni sublimi delle rispettive Scritture, ma la vita esemplare dei suoi seguaci: un’esperienza spirituale che sappia tradurre in vita le verità professate. Non diceva Gandhi che avrebbe abbracciato la fede cristiana, se i seguaci di Cristo vivessero come san Francesco d’Assisi? Anche per lui una dottrina vale per quanta bontà riesce ad incarnare in chi la professa.

Darryl D’Souza

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