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vedanta.it

Uno studio sull'India

L’India, per la sua collocazione, il suo sistema sociale (le caste) e la continuità della sua civiltà, "costituisce un sorta di museo della storia in cui sono state conservate, in compartimenti separati, le culture, le razze, le lingue, le religioni che si sono incontrate sul suo vasto territorio senza mescolarsi o distruggersi reciprocamente, senza che mai l’invasore eliminasse interamente la cultura delle popolazioni più antiche, senza che le credenze o le conoscenze nuove sopprimessero le credenze o le conoscenze precedenti" (Alain Daniélou).

Mentre in India è difficile l’inserimento di un singolo individuo, un gruppo che voglia conservare le sue istituzioni, la sua religione e i suoi costumi, viene facilmente accettato: esso costituirà una nuova casta, con le sue regole sociali; verrà rispettato e dovrà rispettare.

E’ conseguenza di questa realtà se l’India "costituisce un museo della storia". Peraltro, se arrivassimo ad adattare (attenzione: non ‘adottare’!) questa esperienza al nostro mondo, faremmo un passo avanti nella strutturazione di una società multietnica, che forse non garantirebbe ancora la libertà individuale, ma permetterebbe l’esistenza dei gruppi, salvando (riporto esempi a caso) i Dogon, gli aborigeni australiani, il formaggio di fossa, le pescatrici di mitili, la Via dell’adattabilità…

Tornando al nostro subcontinente, troviamo popolazioni nell’età della pietra; pescatori preistorici che cuciono con corde di stoppa le travi, piegate e forate con il fuoco, delle loro grandi imbarcazioni (che hanno portato l’umanità in Malesia, nelle isole della Sonda, in Melanesia, in Australia, nell’isola di Pasqua, sulla costa del Cile e in Madagascar, Socotra, Arabia, Mesopotamia); tracce vive della misteriosa civiltà dravidica, coperta poi dalla grande civiltà indo-aria venuta dal nord, che sviluppò la cultura sanscrita; influenze iraniche, greche, scite, partiche, cinesi, tibetane, mongole, persiane, arabe, europee; antiche forme di Giudaismo e sopravvivenze del primo Cristianesimo, Parsi fuggiti all’islamizzazione dell’Iran, Brahmani che considerano la trasmissione orale dei Veda come l’unica valida.

Sappiamo di cinque cicli glaciali che, come in altre parti del mondo, comportano inevitabili movimenti di popolazione. Precedentemente all’VIII secolo a.C. l’India passa direttamente dalla pietra polita al ferro, senza conoscere l’età del bronzo, usando altiforni di terra da mattone ancora in funzione nell’India centrale per fabbricare punte di freccia e gioielli (il ferro assume caratteri magici). Ancora oggi si ignorano i segreti di certi pilastri maurya (III secolo a.C.) che ci pervengono indenni da ruggine.

I primi (di cui sappiamo)

La popolazione che consideriamo tra le più antiche del mondo è formata da tribù proto-australoidi che ancora cacciano nella foresta e sui monti. Considerano immorale l’agricoltura; si reggono sul matriarcato, in cui la donna più anziana comanda; vi è diffusa la poliandria (come nel Mahabharata il matrimonio dei cinque Pandava con Draupadi), parlano lingue munda; ma sarebbe sbagliato considerarli dei selvaggi: essi hanno avuto un passato, e al loro gruppo etnico appartengono i Mom-Khmer e l’alta civiltà di Angkor. La loro religione si fonda su credenze animistiche, su àuguri e riti propiziatori, danze, e spiriti che abitano alberi sacri, argomenti comuni a popoli proto-australoidi in Asia e in Europa. Il tempio del Cielo a Pechino, il culto degli alberi in Bretagna, nelle isole Britanniche e anche in Germania fino all’arrivo del Cristianesimo, le danze attuali dei Gond o degli Ahir e quelle dei tarantolati in Puglia, potrebbero essere ricordi di questa prima cultura.

E’ interessante aggiungere le oscenità per scongiurare influenze nefaste, e le storie di animali umanizzate che Kipling ha ripreso dalla letteratura orale dei Munda e che Esopo e Lafontaine hanno colto dal Panchatantra sanscrito.

Furono sommersi dai Dravidi, venuti dal nord.

 La seconda civiltà

Si fa presto a dire dravidi, brachicefali (prevalenza della larghezza sulla lunghezza del cranio) di colore scuro, dai capelli neri e lisci che parlano lingue agglutinate e popolano il sud dell’India. Parecchi storici accennano a una grande civiltà del 4° millennio a.C: "…un’antica cultura si estendeva dal Mediterraneo alla valle del Gange e tutto l’Oriente antico ha alle sue spalle questa comune eredità" (A.K.Coomaraswamy); "Si è stabilito senza alcun dubbio possibile che l’India ha giocato un suo ruolo in questa antica e complessa cultura che dona la sua forma al mondo civilizzato prima dell’arrivo dei Greci" (H. Frankfort).

Ma il centro della cultura dravidica era nell’India classica (Harappa, Mohenjo-daro), o altrove in una terra ora sommersa? Ed essa venne distrutta ovunque dagli ariani (i barbari, o indoeuropei, che ci hanno dato i radicali delle parole essenziali, ma non quello di ‘mare’, elemento che non conoscevano) salvo quella parte che ancora vive nel sud dell’India?

Anche se i nostri scienziati e ricercatori si sono dichiarati imparziali nei confronti della Bibbia, noi paghiamo il peso del Libro, che stabilisce la Creazione nel 4004 a.C. (alla fine del XIX secolo il vescovo teosofo Lightfoot calcolava, senza apparentemente coprirsi di ridicolo, che il mondo era stato creato alle 9 del mattino del 23 ottobre e gli facevano eco prelati a spiegare che "essendo Dio onnipotente nulla Gli impediva di aver creato il mondo con le mummie"). Di conseguenza diamo per scontato inconsciamente che la civiltà sia nata nella Mezzaluna Fertile (dove si suggerisce senza affermarlo che si trovasse il Paradiso Terrestre), in cui la natura ci offriva più specie animali e vegetali da addomesticare. Ma nella misura in cui avanzano gli scavi, le ricerche e gli studi, in America e in Cina, il divario epocale che ci vede primi nel divenire stanziali, per aver creato un’economia agricola e pastorale, diminuisce e ci allinea ad altri popoli. Quando verranno divulgati i dati raccolti in Siberia che suggeriscono l’esistenza di una civiltà interglaciale responsabile della ceramica scoperta in Giappone e datata 12.700 anni fa (Cavalli-Sforza), quando avremo fatto accordi per studiare la Cina (che appare l’insediamento più antico dell’homo sapiens e ignora i Neanderthal), e l’India, ma sopratutto quando avremo sottratto al bilancio per le esplorazioni spaziali quanto basta per esplorare il fondo degli oceani, cambieranno molte idee. I primi potrebbero diventare secondi o terzi e le date dei primi agglomerati urbani spostarsi prodigiosamente indietro.

I Sumeri (i cui più antichi documenti risalgono al 4.000 a.C.) e gli Egiziani del periodo pre-dinastico (che si attribuivano un’origine orientale), i Libici e i Berberi che occupavano (forse) tutto il bacino del Mediterraneo prima della sovrapposizione ariana, non erano ariani ne semitici. Il loro linguaggio era imparentato con il georgiano e sopravvive nel sud dell’india, nel Belucistan e nell’Orissa. Forse il pre-celtico druido deriva proprio da dravida.

Ecco che si profila una grande civiltà indo-mediterranea, che nel sentimento popolare sta forse all’origine dei continenti perduti di Atlantide e Mu, ma che la ricerca pone in relazione ai Dravidi, qualunque sia stato il loro habitat originario.

Ai dravidi dobbiamo (fino a nuove scoperte) il passaggio dalla tribù alla regalità. Della loro espressione che ha nome civiltà dell’Indo sono sopravissuti vari siti importanti, oltre a Mohenjo-daro e Harappa altre città ancora inesplorate e soprattutto Benares, che ai tempi di Gautama era considerata la più antica del mondo (secondo i Purana, risalirebbe al 6.000 a.C.).

Se anche non ci resta dei dravidi alcun documento letterario, sappiamo che tutta l’evoluzione del pensiero sanscrito (ariano) poggia sulle fonti precedenti. In particolare le Antiche Cronache, i Purana (18 principali e 18 secondari, di cui non sappiamo in quale lingua dravidica siano nati), trattano quasi esclusivamente la storia, la cosmologia e la religione pre-ariana. Accanto ai Purana sopravvivono due grandi poemi epici itihasa (cioè: ‘c’era una volta’): il Mahabharata e il Ramayana, che fanno riferimento ad avvenimenti dell’epoca dell’invasione ariana (durata secoli); raccolti e messi tardivamente per iscritto in sanscrito, a informarci sull’ambiente pre-vedico.

La religione della civiltà dell’Indo si fonda sul culto della Madre e su quello di Shiva (il favorevole, creatore dello yoga, delle tecniche ascetiche e della musica). Il mito di Osiride in Egitto, il culto di Dioniso in Grecia e quello di Bacco (la vite sembra originaria dell’India) nei Paesi latini, rieccheggiano lo Shivaismo).

Accanto ad esso, nell’India antica troviamo il Jainismo, moralista e ateo, fondato secondo la tradizione da re Rishabba Deva, padre di Bharata (ventuno profeti si succedono, e presumibilmente molte più generazioni, per arrivare al tempo di Krishna e del Mahabharata, vale a dire verso la conclusione della conquista ariana dell’India).

"Vardhamana Mahavira (questo riformatore del Jainismo appartiene al tempo che vide Zaharatustra, Buddha, Lao Tse, Confucio e poco dopo Platone) è considerato l’ultimo di una serie di profeti e patriarchi le cui origini affondano in un passato incommmensurabile" (Renou). Il pensiero Jaina ritiene che il sovrannaturale non giochi ruolo nella vita degli umani. Questi ultimi si perfezionano per poi dissolversi nell’assoluto. Il Jainismo propone la teoria del karma, la reincarnazione, la non-violenza (da cui il vegetarianesimo), la nudità totale, le purificazioni e il monachesimo itinerante, influenzando il Vicino Oriente, la Grecia, l’Egitto, le concezioni degli Esseni e dei primi Cristiani.

Ecco gli Arii, o Ariani

Le tribù arie (‘nobili’) erano nomadi, formate da uomini alti, con gli occhi azzurri, carnagione chiara, affini agli Iranici, agli Achei, ai Celti, ai Liguri e ai Germani che gradualmente invasero la parte occidentale dell’Asia e l’Europa in seguito a cambiamenti climatici che li scacciavano dalle pianure della Russia e dell’Asia centrale. La loro lingua, il prestigioso sanscrito vedico (parlata nel nord, che in India si arricchisce della scrittura), è la più antica del gruppo indo-europeo a cui appartengono il greco, il latino, il bretone, il lituano, il persiano, le lingue germaniche. La loro religione e le loro istituzioni sociali erano simili a quelle degli antichi persiani dell’Avesta, e dei greci omerici; essi distrussero i centri culturali e i monumenti che trovarono nel sud, imponendo la lingua di un invasore primitivo a popoli culturalmente più evoluti.

"Il disastro rappresentato dalla conquista ariana può essere facilmente immaginato se si pensa che in India non esiste alcun monumento che sia stato costruito tra la fine di Mohenjo-Daro e l’epoca buddista (V secolo a.C.). La colonizzazione ariana fu all’inizio, per diversi aspetti, analoga a quella dell’impero Inca da parte degli avventurieri spagnoli, illetterati e fanatici. L’intera popolazione fu ridotta in uno stato di schiavitù senza alcun diritto civile" (Danielou).

Secondo la tradizione indiana, la battaglia (durata 18 giorni) raccontata nel Mahabharata (18 libri e 250.000 versi), che si combatté nel Kurukhsetra (Campo dei Kuru, vicino a Delhi), va collocata attorno al 3.000 a.C. e segna l’inizio del Kali-yuga (‘epoca dei conflitti’: ‘kali’ vuol dire ‘lite’). Parikhsit, unico superstite alla narrazione, è menzionato come re dei Kuru nell’Atharva Veda.

Sembrerebbe che all’epoca di questo racconto gli Arii avessero già assimilato l’antica cultura dravidica così come i Dravidi le isituzioni ariane. Il conflitto, di tipo sociale più che culturale, vede la vittoria dei ‘buoni’ figli di Pandu dravidici, contro i ‘malvagi’ discendenti di Kuru, nordici e ariani.

Gli Arii trovarono nel nord dell’India un’evoluta civiltà urbana. Dopo secoli di combattimento in cui attribuirono ai nemici qualità diaboliche, magiche e malefiche, cominciarono ad assumerne i costumi e le idee. Nacquero le Upanishad, i Veda (da ‘vid’: ‘sapere’) e i riti dell’induismo. Gli ariani portarono le caste (brahamani, kshattriya, sudra), ma le definirono adottando le istituzioni dei dravidi e altre popolazioni autoctone.

Il Brahmanesimo, compromesso tra la religione vedica e quelle pre-ariane, cercò di estendersi diventando formalista e rituale (con i sacrifici regolamentati dai libri Brahmana). Molto lentamente il Brahamanesimo è diventato Induismo. Le due fanno un’unica religione che si è evoluta; monoteista, perché Dio è uno solo anche se ha nomi diversi, e può incarnarsi in una sua espressione per aiutare gli umani; alla trimurti, Brahama, Shiva e Visnù, è affidato il compito di creare, conservare e distruggere.

Alcune date

La ‘t’ indica che provengono da fonti tradizionali; in corsivo gli avvenimenti del mondo extraindiano).

-10.000 un popolo che parla una lingua dravidica si sovrappone ai Nishada che occupavano la penisola da 20.000 anni

-6.000 inizi dello Shivaismo (t)

-4.000 religione jaina (t); esodo dravidico verso ovest; prime vestigia sumeriche, inizio della civiltà egiziana, i barbari si stabiliscono a Creta

-3.300 Rig-veda

-3.200 penetrazione aria nel nord-ovest dell’India

-3.000 Fo-hi primo imperatore della Cina (simboli shivaiti)

-1.900 nuove invasioni ariane in India

-1.800 Nascita di Abramo a Ur

-1.200 trascrizione degli inni vedici

-1.190 Assedio di Troia

-900/800 Omero; i fenici fondano Cartagine

-753 Fondazione di Roma (t)

-597 Nabuchodonosor di Babilonia rende schiavi gli ebrei

-563/483 Shiddharta Gautama Buddha

-559/468 Mahavira, XXIV profeta jaina

-480 Distruzione di Atene per opera di Serse; filosofi e monaci buddisti e jaina visitano la Grecia e l’Egitto

-326 Alessandro invade l’India

-274/237 Regno di Ashoka, illuminato imperatore buddista

-100 Intenso commercio tra India e Roma

-30 Fine dell’ultimo regno greco

Anno 0 Nascita di Gesù Cristo.

160 Dall’India monaci buddisti in Cina

323/353 Costantino

618 Dinastia T’ang in Cina.

622 Egira di Maometto

711 Gli arabi in Spagna; in Giappone il Buddha di Nara

733 Carlo Martello ferma gli arabi a Poitiers

768/814 Carlo Magno

962 Ottone I fonda il Sacro Romano Impero

1037 Morte di Avicenna

1099 I crociati a Gerusalemme

1182 Nascita di Gengis Khan e di S. Francesco

1198 Morte di Averroè

1209/29 Crociata contro gli Albigesi

1369 Timur (Tamerlano) sale sul trono di Samarcanda

1429 Giovanna d’Arco a Orléans

1452/519 Leonardo da Vinci

1498 Vasco de Gama arriva in India

1538 Morte di Guru Nanak, ultimo profeta Shik

1600 East India Company

1804/14 L’avventura di Napoleone

1876 La regina Vittoria diventa Imperatrice dell’India

1880 Creazione del Congresso Nazionale Indiano

1947 Dichiarazione d’indipendenza dell’India e del Pakistan

1948 Morte di Gandhi e di Jinnah

1951 Invasione cinese del Tibet

1980 Invasione russa dell’Afghanistan

1990 Cade il Muro di Berlino

1991 Finisce l’URSS

Complicate vicende

La storia dell’India è quella di un subcontinente di alta civiltà e particolarmente sfortunato, caratterizzata da parte degli indù da eroismi cavallereschi, dalla grande tolleranza, dal rispetto della vita, dalla giustizia umana; a cui sovente si contrappongono le crudeltà, la barbarie, i massacri, le violazioni, la schiavitù, degli invasori, sovente mussulmani per cui l’uccisione di un infedele era (ed è ancora) esaltata come una virtù. L’Islam ortodosso fa eccezione per i seguaci del Libro (ebrei e cristiani) che vanno assoggettati, ma non ha pietà per i presunti politeisti (come buddisti e induisti) che non accettino di convertirsi.

La vergognosa vicenda del colonialismo inglese in India, si conclude con l’enigmatica apparizione sulla scena dell’indipendenza di Mohan Das Gandhi, un guru ambizioso e ascetico, astuto e devoto che, con incredibile magnetismo, ha portato l’India al più clamoroso disastro. E’ difficile pronunziare un giudizio su questo personaggio, che noi vorremmo confrontare con Pietro l’Eremita (predicatore della Prima Crociata nel XII secolo) e stabilire quanto le circostanze abbiano giocato con la sua ambizione. Per non incorrere direttamente nell’ira dei fanatici della ‘non-violenza’, riportiamo al proposito (in corsivo) le pagine dello storico Alain Danielou (La Storia dell’India, Ubaldini, 1994).

"Fu praticamente con lui solo che il governo britannico decise dell’avvenire dell’India, il più disastroso che si potesse immaginare, dal momento che si arrivò alla divisione del Paese, a uno dei più grandi massacri della storia, all’eliminazione del sistema sociale e della cultura tradizionale, alla soppressione della casta dei principi, al genocidio delle tribù primitive, alla rovina delle caste artigianali e alla loro trasformazione in un miserabile proletariato. Tutto ciò presentato come un progresso. I letterati hindu consideravano Gandhi una specie di anticristo e quando venne assassinato resero cerimonie di ringraziamento. Ma ormai era troppo tardi.

… Per comprendere la figura di Gandhi si deve ricordare che egli era un bania, cioè un membro della casta dei mercanti, e che, in India, a ciascuna casta corrispondono precise concezioni morali, intellettuali, religiose, che ne fanno una specie di setta… Le caratteristiche della casta dalla quale era nato Gandhi sono l’estremo puritanesimo, il più assoluto vegetarianismo, l’assenza totale di preoccupazioni metafisiche come di cultura filosofica e, per contro, la più grossolana sentimentalità religiosa… La carità è una di quelle virtù che possono riscattare un commerciante avido di guadagno, ma su cui non si può fondare la giustizia sociale. Un puritanesimo glaciale maschera la disonestà in tutto ciò che concerne le questioni di denaro e gli affari. Dovunque si trovino i mercanti indiani finiscono per impossessarsi di tutto.

Il fatto delle sue origini spiega perché questo personaggio in apparenza ascetico ebbe sempre l’appoggio incondizionato del grande capitale (i Birla, i Tata) e d’altra parte perché le riforme sociali che egli intraprese finirono sempre per giovare alla borghesia commerciante e ai possidenti terrieri.

Il Congresso Nazionale Indiano (il partito di Gandhi)

… La politica del Congresso, guidata da questo strano asceta, avrebbe portato al trionfo la casta dei commercianti, industriale e capitalista. Mohan Das Gandhi (1869-1948) era figlio di un funzionario al servizio di un piccolo principe del Kathiawar. Studiò in Inghilterra avvocatura e divenne membro del foro di Londra. Vestito della redingote nera e del colletto rigido dell’avvocato inglese, si recò nel Sud-Africa per dirigere un movimento che reclamava l’uguaglianza di diritti per gli indiani e per gli europei. Dopo un breve soggiorno nelle prigioni di Pretoria, arrivò in India nel 1914 e cominciò subito a darsi da fare nell’effervescente clima politico che regnava durante la prima guerra mondiale. A poco a poco Gandhi si impossessò della direzione del Congresso, allontanandone i grandi leader moderati quali Tilak, Lajput Rai, S.N. Banerjee, Gokhale e Annie Besant.

Alla fine della guerra l’impero turco venne smembrato, e il sultano fu deposto. Ma questo era il califfo dei credenti mussulmani e la sua caduta colpì profondamente i Mussulmani dell’India. Il principale beneficiario di questo smembramento fu la Gran Bretagna. L’umiliazione subita dal capo dei credenti esasperò i sentimenti anti-britannici dei Mussulmani dell’India. Gandhi si mise a capo di un movimento a favore del sultano. La conferenza panindiana per il califfato (All-India Khilafat Conference) presieduta da Gandhi minacciò di lanciare un movimento di non cooperazione se la Gran Bretagna non avesse trovato una soluzione al problema turco che fosse accettabile per i Mussulmani. Ciò permise a Gandhi di far aderire alla causa nazionalista anche le masse mussulmane, fino a quel momento del tutto indifferenti".

Ne seguì una lotta politica in cui gli inglesi in madrepatria tendevano a concedere una graduale indipendenza agli indiani, ma i funzionari della colonia vi si opponevano, spesso mancando alla parola data.

"…A poco a poco Gandhi cambiò la sua personalità e il suo aspetto. Il giovane avvocato rivoluzionario anglicizzato, venuto dal Sud-Africa, si trasformò in monaco indiano, seminudo e vestito di un saio. Si affermò che questa trasformazione gli era stata suggerita dal leader mussulmano, membro del Congresso, Mohammed Ali Jinnah. L’aspetto di profeta biblico di Gandhi ispirava fiducia alle masse popolari indiane e impressionava gli occidentali. I suoi compagni gli conferirono il titolo di Mahatma (grande anima). Tuttavia egli non riuscì mai a convincere le élite del mondo tradizionale indu che lo consideravano un impostore e un pericoloso politicante. Il piccolo berretto bianco adottato dai membri del Congresso era la copia della bustina dei prigionieri portata da Gandhi nelle prigioni del Sud-Africa. Il Congresso incoraggiò le organizzazioni culturali che si ispiravano all’idealismo anglosassone. La principale di queste organizzazioni fu il Visva-Bharati, una scuola fondata da Rabindranath Tagore a Santiniketan (Bengala).

Tagore era discepolo di Tolstoj, amico di Romain Rolland, e poeta di sorprendente versatilità. Il suo idealismo, il suo internazionalismo, ne facevano una personalità assai avvincente. Figlio di un riformatore religioso, egli era profondamente ostile a tutto ciò che rappresentava tradizionalmente l’induismo. Ma diffidava di Gandhi e si ritirò dal Congresso allorché questi ne assunse la direzione. Un’altra di queste organizzazioni pseudo-tradizionali era l’ashram di Shri Aurobindo a Pondichéry. Il sincretismo religioso di Aurobindo era un comodo alibi per opporsi alle organizzazioni tradizionali degli Hindu.

I governi del Congresso incoraggiarono ovunque lo sviluppo dell’educazione sul piano di un’anglofilia mascherata all’indiana. L’insegnamento della filosofia, delle arti, delle scienze, che costituiva la prestigiosa tradizione culturale dell’India, sopravvisse solo grazie ai Brahamani che, senza alcun aiuto da parte dello Stato, continuarono a fare del loro meglio per mantenere in vita il patrimonio culturale dell’India. Le istituzioni ufficiali che insegnavano la cultura sanscrita e le scienze tradizionali, come l’università Hindu di Benares, organizzarono l’insegnamento secondo dei metodi occidentali, ma con risultati assai mediocri".

Nacquero in reazione dei movimenti in difesa della cultura, della religione e della struttura della società hindu. Nella parodia della miglior politica inglese, il Congresso li attaccò cercando di ridicolizzarli, sfruttando la stampa in lingua inglese e ottenendo l’appoggio dell’opinione straniera. I partiti hindu vennero presentati sul piano internazionale come retrogradi, fanatici e ridicoli (l’intoccabilità, il culto delle vacche, il sacrificio delle vedove…) e il Congresso ottenne, all’epoca dell’indipendenza, che il potere gli fosse trasferito sebbene non rappresentasse che una debole minoranza anglicizzata.

"Allorché l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania, il 3 settembre 1939, l’India si trovò automaticamente coinvolta nel conflitto. Il Congresso e la Lega musulmana negarono la loro cooperazione. Gli stati principeschi, al contrario, sostennero fedelmente l’Inghilterra. Le risorse dell’India e le truppe indiane giocarono un ruolo molto importante in Egitto contro l’esercito di Rommel e, in Birmania, contro i Giapponesi. Le perdite da parte indiana furono di circa 180.000 uomini su un esercito di due milioni di soldati".

Intanto Jinnah, presidente della Lega musulmana, respingeva (1940) la proposta di un parlamento eletto a maggioranza e rivendicava la divisione dell’India in due stati indipendenti.

Insomma, l’accostamento degli indipendentisti indiani all’Asse andava maturando. Sir Stafford Cripps, lord Guardasigilli e leader della Camera dei Comuni, dichiarava agli americani: "Gandhi ha chiesto che noi lasciamo le Indie, fatto questo che lascerebbe il paese alle prese con le divisioni religiose, senza un governo che poggi su basi costituzionali solide e senza un’amministrazione organizzata. Nessun governo avente coscienza delle proprie responsabilità potrebbe prendere una tale misura, soprattutto nel mezzo di una guerra. E’ certo che l’attuale minaccia di Gandhi – la disobbedienza civile – ha per scopo quello di mettere in pericolo il vostro e il nostro sforzo di guerra, e di dare il massimo aiuto ai nostri comuni nemici. E’ possibile che egli ottenga una disobbedienza civile di massa; ma è nostro dovere insistere affinché l’India continui ad avere una base su cui regnino l’ordine e la sicurezza. Quali che siano le misure che noi riteniamo necessario prendere, noi dobbiamo prenderle senza paura. Abbiamo offerto all’India di accordarle un governo autonomo nel caso riuscissimo a vincere la guerra. Ma, per questo, è necessario che gli Indiani non ci mettano i bastoni nelle ruote".

Chuchill offrì uno statuto di dominion se l’India avesse cooperato allo sforzo bellico e Gandhi paragonò l’offerta a "un assegno in bianco su una banca in fallimento", annunciando l’inizio dei moti di disobbedienza civile.

"Parecchi Indiani rimasero turbati, come del resto anche gli Inglesi per questo colpo di pugnale inflitto alle spalle di un’Inghilterra che si difendeva valorosamente. Questo gesto così poco cavalleresco quanto inutile era tipico della mentalità di Gandhi. Tagore era totalmente contrario. Il governo mise fuori legge il Congresso, ne imprigionò i capi… 940 persone furono uccise nelle sommosse, 1680 rimasero ferite, 60.000 vennero arrestate, 18.000 detenute senza processo. Uno dei più brillanti capi del Congresso, Subhas Chandra Bose, era riuscito a fuggire dall’India nel 1941. Prese contatto con i tedeschi e fu ricevuto da Hitler. Successivamente si stabilì in Giappone e… con alcuni prigionieri indiani organizzò l’esercito dell’India libera (Azad Hind Fauj) e successivamente un governo dell’India libera a Singapore. Col suo esercito avanzò insieme ai Giapponesi fino ai confini dell’India".

 L’indipendenza

A partire dal 1946 gli inglesi prepararono una Costituzione per l’India. Il governo laburista di Atlee annunciò nel ’47 che gli Inglesi si sarebbero ritirati l’anno successivo. I responsabili mussulmani che avevano dominato l’India sotto i Moghul erano ormai in minoranza e reclamavano uno statuto speciale e delle garanzie, che vennero rifiutate in nome di principi democratici. Così Jinnah ebbe gioco di chiedere la divisione in due stati: hindu e mussulmano.

L’organizzatore del trasferimento di potere, lord Mountbatten, ignorò i partiti hindu (assai bene organizzati), i Mahratti, i ministri degli stati principeschi (hindu e musulmani), i Dravidi, le tribù… per trattare esclusivamente col Congresso e la Lega, negoziando solo con quei tre avvocati del foro di Londra che erano Gandhi, Jinnah e Nehru (un socialista anglicizzato la cui figlia era Indira Gandhi) la costituzione del Pakistan (musulmano), dell’India (indu) e addirittura di un Pakistan orientale (che oggi è il Bangladesh).

"… mettendo sullo stesso piano l’India e il Pakistan, l’Inghilterra aveva diviso il subcontinente tra uno stato laico multireligioso, in cui i diritti dei cittadini erano definiti da leggi moderne, e uno stato teocratico, il Pakistan, in cui era ammessa solo la legge coranica, che non riconosceva alcun diritto ai non-Musulmani e faceva della loro eliminazione fisica un atto meritorio. I partiti hindu non vennero mai consultati giacché Nerhu, un agnostico, e Gandhi, un illuminato riformista, non rappresentavano affatto la popolazione hindu. Il travestimento di Gandhi in sant’uomo era una maschera abilmente sfruttata per far credere al mondo esterno che egli rappresentasse gli Hindu.

Più della metà dei Musulmani restarono in India; al contrario gli Hindu del Pakistan furono spogliati, massacrati, privati dei diritti civili e di ogni protezione. I sopravvissuti abbandonarono in massa le loro abitazioni, le loro terre, i loro villaggi, in un esodo che fu uno dei più sbalorditivi dei tempi moderni, e che non è ancora terminato.

Milioni di sventurati trovarono rifugio in un’India già sovrappopolata. Parecchi morirono di fame e di miseria in campi improvvisati o nelle strade di Calcutta, trasformate in una specie di corte dei miracoli. I massacri e i trasferimenti di popolazione che seguirono alla divisione furono davvero spaventosi. Una moderna stima… era di 500.000 morti e 10.000.000 di profughi.

Quando la tensione causata dai rifugiati minacciò di provocare un massacro dei Musulmani rimasti in India, Gandhi, che aveva firmato a malincuore gli accordi di spartizione ed era partito per cercare di calmare l’agitazione del Bengala, tornò a Delhi per difendere i musulmani minacciati di rappresaglie e per esigere il pagamento al Pakistan di una parte delle riserve monetarie. Il 20 gennaio 1948 egli venne assassinato mentre assisteva a una riunione di preghiera a Nuova Delhi. La principale ragione di questo assassinio, per mano di un giovane Brahmano appartenente a un partito ortodosso, fu l’inquietudine provocata dall’ostilità di Gandhi verso le istituzioni tradizionali degli Hindu, considerata molto più perniciosa dell’indifferenza inglese. Un’altra ragione fu l’atteggiamento troppo conciliante di Gandhi verso i Musulmani, nonostante i terribili massacri che avevano preceduto e seguito la divisione dell’India. Gandhi raccomandava di ottenere la cooperazione con l’amore e il disinteresse, mentre i Mussulmani dell’India e del Pakistan cantavano ovunque: "Abbiamo avuto il Pakistan con una canzone, Delhi ci costerà una battaglia". In India tutte le pubblicazioni dell’apologia pronunciata dall’omicida per spiegare il suo gesto sono state vietate. La morte di Gandhi fu celebrata in molte città hindu con cerimonie di ringraziamento. E’ difficile dire cosa sarebbe successo all’India se Gandhi fosse vissuto. Il suo prestigio era grande. Egli si oppose sia alle strutture politiche dell’India tradizionale, sia all’industrializzazione del paese. Tutti i suoi discepoli dovevano saper filare e tessere i propri abiti. Il suo egualitarismo in un paese di razze e culture così diverse era impraticabile…

Sia sul piano umano che su quello politico la divisione dell’India è stato un errore degli ultimi colonialisti inglesi. Difatti essa ha aggiunto al Medio Oriente uno stato instabile, il Pakistan, privo di sovrastrutture economiche, industriali, culturali. Peraltro essa ha appesantito enormemente i problemi, già gravi, che opprimevano l’India. E il bilancio dell’operazione dovrà essere pagato dai paesi occidentali.

L’India, i cui antichi confini si sviluppavano anche al di là dell’Afghanistan, ha perduto, con il paese dei Sette Fiumi (la valle dell’Indo), il centro storico della sua civiltà. Nel momento stesso in cui gli invasori musulmani sembravano aver abbandonato la loro virulenza e un po’ alla volta si assimilavano alle altre popolazioni dell’India, il conquistatore europeo, ha liberato al loro fanatismo la culla stessa del mondo hindu".

Sulle vicende dell’indipendenza dell’India abbiamo riportato l’opinione dello storico Danielou (politicamente scorretta, dato che nella concezione popolare il Mahatma gode dell’epiteto di apostolo della non-violenza), ma solo dopo aver controllato i rapporti Usa sulle simpatie di Gandhi per l’Asse e certi articoli d’epoca sull’esodo degli Hindu e dei Shik, scacciati dai Musulmani. Certo la storia offre di fare libere considerazioni, ma certi fatti restano.

Un approccio al pensiero indiano

Dal diario di Peter Brook, enfant terrible del teatro inglese.

"Tutto era iniziato quando il giovane indiano, durante le prove del nostro spettacolo sul Vietnam, US, pronunciò per la prima volta la strana parola Mahabharata. L’immagine evocata divenne per me un pensiero assillante. Due eserciti, uno di fronte all’altro, impazienti di muoversi. Tra i due sta un principe che si chiede: "Perché combattere?".

Tornavo continuamente su quell’immagine e un giorno raccontai a Jean-Claude Carriére della battaglia, delle domande del guerriero. Poiché era interessato a saperne di più, andammo a trovare Philippe Lavastine, un amico letterato che aveva dedicato tutta la vita agli studi sanscriti. Gli chiedemmo di spiegarci la posizione dei due eserciti, chi era il principe e perché metteva in dubbio il senso della guerra. Philippe iniziò rivelandoci il nome del principe: Arjuna. Poi disse che era importante capire perché il suo carro fosse guidato da Krishna, un dio. Ma per capire questo, continuò, dovevamo sapere tutto quanto riguardava i fratelli di Arjuna e i suoi cugini, il motivo per cui erano in conflitto e come erano nati. Era quindi necessario risalire molto indietro nel tempo, addirittura a prima del loro concepimento, alla creazione del mondo. Scese il buio e quando a tarda sera ce ne andammo il piccolo appartamento zeppo di libri e di carte sembrava splendere della luce della grande epopea che aveva appena cominciato a dispiegarsi davanti a noi. Tornammo da lui il giorno seguente e da lì cominciarono una serie di incontri stupefacenti ed esaltanti a mano a mano che la storia proseguiva, non in ordine logico ma come la ricordava Philippe, in tutta la sua intricata complessità di incroci. L’avevamo ricevuta come i bambini in India, oralmente, da un narratore. Uscimmo in silenzio sulla via Saint-André-des-Arts, scura e deserta. Ci fermammo. Sapevamo di aver preso la stessa decisione, dovevamo passarlo ad altri attraverso il nostro particolare campo di lavoro, il teatro".

Nota. Quando facevo la rivista Arti d’Oriente, venni a sapere che l’attore Vittorio Mezzogiorno, recitando nel Mahabharata di Brook e di Carrière la parte di Arjuna, aveva avuto una sorta di satori (è più giusto parlare di samadhi). Lo cercai, per farmelo raccontare, ma Vittorio era morto. Andai a trovare la vedova, Cecilia Sacchi, e ricordo che mi colse un terribile temporale, avevo guadato le strade con l’acqua alle caviglie, assorbendo il diluvio sul vestito. Avrei voluto rinunziare all’intervista, ma lei fu così cortese da trascurare l’acqua che le riversavo sul divano e sui tappeti. Raccontò. Poi parlai con la figlia. Infine con Peter Brook. Così mi convinsi che il Mahabharata ha un potere eccezionale e plagia le persone al suo servizio.

"Per dieci anni Jean-Claude lesse, scrisse e lottò. Versioni della storia andavano e venivano una dopo l’altra. Con differenti gruppi di attori cominciammo laboratori mai portati a termine. Era come se il Mahabharata si fosse risvegliato improvvisamente da un letargo durato molti secoli. Doveva uscire e attraversare il mondo. Per nostra fortuna eravamo lì per aiutarlo nel cammino.

Adesso diventava sempre più necessario viaggiare e per diversi anni noi tornammo in India per preparare il Mahabharata. Noi: il pronome ricorre costantemente perché, nel corso degli anni, "noi" eravamo diventati una squadra che cambiava e si evolveva…

Quando iniziammo le prove del Mahabharata, tentammo di dividere le nostre impressioni dell’India con il gruppo allargato degli attori, ma ben presto ci rendemmo conto che era impresa impossibile. Allora raccogliemmo la nostra compagnia e volammo in India. Jean-Claude (Carrière), io e Marie-Hélène (Estienne) avevamo scelto un itinerario in cui, in dieci giorni di viaggi estenuanti, erano compresi tutti i luoghi più significativi da noi visitati nel corso degli anni. Questo sistema diede ottimi risultati: un eccesso di impressioni indigeste fa parte dell’esperienza indiana e ha la funzione di non far dimenticare che le conclusioni che si traggono non possono essere esaustive. Appena ci si illude che i contorni dell’India cominciano a farsi chiari, una nuova impressione improvvisa bussa alla porta della conclusione precedente.

Nel Mahabharata la metafora che ricorre più spesso è quella del fiume. Il campo di battaglia è un fiume, i corpi smembrati sono rocce, le dita amputate pesciolini, il torrente è sangue. L’india è questo fiume. Appena arrivati costringemmo gli attori a entrare nel vasto vortice oscuro del tempio di Udipi, mangiammo il cibo servito su foglie di palma, accovacciati sul pavimento di pietra come le centinaia di migliaia di pellegrini che ogni anno sono nutriti in quel posto. Ben presto incontrammo vecchi bramini disposti a parlare del Mahabharata e dopo questa prima introduzione conducemmo il gruppo nel luogo sacro che, tra tutti quelli che conoscevamo, era il nostro preferito: un piccolo tempio chiamato Parasinikadavu, che sorge accanto a un fiume nella parte più lontana della regione del Kerala. Qui ha luogo il rituale più antico che si conosca, non in una stagione particolare ma due volte al giorno, e in nessun altro luogo il senso dell’antichità è più potente. All’interno di un piccolo cerchio ingombro di pietre, recintato da sbarre di ferro, sei suonatori quasi nudi percuotono lunghi tamburi, mentre alla luce flebile di una lampada a olio un ometto vispo, con il corpo ricoperto di una pasta gialla, le labbra allungate da due piastre decorate a forma di mezza luna, salta e danza puntando una freccia, con un piccolo arco d’argento, verso ogni punto cardinale. In questa minuscola cripta ci sentimmo in contatto diretto con il mondo vedico in cui avevano preso forma le intricate azioni del Mahabharata. La dicotomia tra passato e presente si era dissolta.

Viaggiamo con gli attori compiendo un cerchio. In giù attraversando il Kerala e il Tamil Nadu; in su fino a Madras e poi a Calcutta, in treno fino a Benares, quindi a Delhi. Ognuno di noi fece una scorta di immagini vitali e il gruppo accumulò un’enorme bobina di impressione da elaborare al ritorno, durante le prove. Al tempo stesso l’India di oggi ci manteneva saldamente ancorati alla realtà di un paese brulicante e zoppicante, che si dimena e combatte nella sua maniera, immobile nel mendicare, o raggomitolato nel sonno su un marciapiede. Una tale vista spazza via dal cervello qualsiasi traccia di romanticismo, qualsiasi residuo di un Oriente velato di mistero. L’India era il treno di notte, il soffocante cilindro di metallo rovente con cuccette di metallo arrugginito e sbarre ai finestrini attraverso cui, a ogni stazione, mani scarne cercavano a tentoni qualche orologio lasciato distrattamente sotto il cuscino. L’India era gli dei la cui divinità è contornata da lampadine elettriche. Era la realtà della fame, la realtà della violenza, la realtà dell’irresistibile cascata della vita, che avvolge sia la forma che il tempo.

Storditi e saziati dalle impressioni che stavamo ricevendo, più o meno a metà viaggio, a Madurai, sentii che avremmo dovuto fermarci. Al mattino facendo colazione ne discutemmo tutti insieme e convenimmo che era necessario cominciare a provare. Il nostro viaggio aveva uno scopo preciso e le pressanti necessità dello spettacolo imminente ci dicevano che le nostre esperienze dovevano essere collegate con il lavoro. Lasciammo la città e camminammo fino a una foresta poco distante, arrivati in una radura come esercizio iniziale ci demmo il compito di scegliere una qualsiasi cosa trovassimo tra le piante e di farne poi una catasta al limitare della radura stessa. Avevamo appena terminato, quando come dal nulla apparve una vecchia signora che in silenzio si prostrò davanti alla nostra rudimentale pira. Poco dopo si rialzò, indietreggiò e scomparve, lasciandoci lo stupore di capire che avevamo aggiunto un nuovo santuario all’India.

Proposi quindi un altro esercizio: "Molto rapidamente, procedendo in cerchio, ognuno dica una parola, una soltanto, che esprima la sua impressione sull’India". Non vi fu alcuna esitazione: in rapida successione ritmica, una battuta dopo l’altra, aggettivi o nomi si susseguirono come sfacettature di un cristallo rotante: "frenesia", "colore", "tranquillità", "antichità", "volgarità", "fame", "fede", "splendore", "miseria", "matriarcato". Trenta persone, trenta parole diverse che parvero così inadeguate da spingerci a rifare subito un altro giro, altre trenta parole. Dopo di che dovemmo smettere, riconoscendo che la lista non sarebbe mai stata completa. Quello, allora, mi parve un momento interessante per provare una delle scene che avevamo elaborato al Bouffes du Nord e vedere quale apporto avrebbe potuto dare l’influenza del viaggio. Avevamo appena iniziato, quando ci accorgemmo che la foresta pullulava di presenze umane nascoste. Attorno a noi si era formato un pubblico che ci osservava attraverso il fogliame. "Che cosa mai capiranno?" mi domandavo mentre si dipanava il testo francese di Jean-Claude. Ma quando un attore balzò fuori dai cespugli quei nostri primissimi spettatori lo riconobbero subito e gridarono "Shiva!". Eravamo sopraffatti dallo stupore; i nostri suoni e i nostri gesti in India avevano un senso. Questa esperienza, più di qualsiasi altra, ci diede il coraggio di portare avanti un lavoro che fino a quel momento non avevamo mai messo alla prova.

Vicino a Madras c’è un luogo santo, Kanchipuram, un centro sacro, una città di templi. E’ uno dei quattro grandi santuari che formano un quadrato nel subcontinente, dedicati alla tradizione di Shankaracharya, santo e maestro del IV secolo…"

Forse Brook è stato frettoloso nella raccolta delle informazioni, oppure lo scrivente è presuntuoso a pretendere di riprenderlo. Shankaracharya, che significa ‘il Maestro Sankara’ è uno dei superiori dei monasteri (matha) fondati da Sankara. Quest’ultimo, il cui nome significa ‘benefacente’, ‘che porta benessere’, epiteto di Shiva, storicamente è un filosofo del Kerala, nato nell’VIII secolo, discepolo di Govindanatha, vissuto a Varanasi, dove predicò il vedanta della dottrina advaita; fondò 4 monasteri a Puri, Sngeri, Dvaraka e Badarinatha, i cui superiori sono pontefici dell’ordine dasana-midandin della dottrina advaita.

"Qui, nel trafficato gruppo di costruzioni a lui dedicate, vi sono tre Shankaracharya. Vi è un vecchio maestro che si è ritirato dal mondo; non parla più, ma lo si può vedere da un cortile una o due volte al giorno, in silenzio, attraverso una finestrella non più grande di un viso, che viene aperta e rinchiusa momentaneamente. Vi è anche un’altra occasione in cui le persone che desiderano trovarsi nella sua aura carismatica si radunano su una terrazza, prendono posto davanti a un sipario e attendono pazientemente come a teatro. Talvolta il sipario non viene proprio aperto. Ma se si ha fortuna, si aprirà senza preavviso. Allora, a un livello appena più basso della terrazza, in uno stretto spazio cubico si potrà vedere disteso su un pavimento un mucchietto immobile che nessuna parola potrebbe meglio descrivere di un’espressione della Bhagavad-Gita: "Il tempo invecchiato".

Se si riesce a persuadere l’antica figura ad alzarsi, la folla si farà avanti e alcuni potranno anche essere autorizzati a scendere alcuni scalini fino a una ringhiera di ferro. Gli occhi del vecchio a questo punto scruteranno i volti protesi e chi incontrerà questo sguardo, anche per un solo istante, riceverà fisicamente il momento di contatto, come uno shock.

Vi è un secondo Shankaracharya, un uomo maturo che ha tutta l’energia necessaria per espletare le mansioni pratiche di un capo ed è responsabile della conduzione del tempio. Un giorno il vecchio morirà e allora il secondo Shankaracharya prenderà il suo posto dietro alla finestrella; il terzo Shankaracharya, al momento ancora un ragazzo che viene rigorosamente preparato con particolari compiti quotidiani, passerà nella seconda posizione e un nuovo giovane sarà scelto per entrare nella successione.

Lo Shankacharya in attività ci accolse con calore: un uomo dal viso molto mobile, sempre pronto a passare dal riso alla serietà, con gli occhi scuri e attenti, la fronte segnata da strisce di terra impastata, il torso nudo se non per il rituale filo diagonale portato dal bramino, un bastone nella mano. In una mia precedente visita gli avevo rivolto una domanda riguardo a Krishna. E’ un dio incarnato, sceso sulla terra per farsi uomo a rilevare le sofferenze dell’umanità; ma contrariamente a Cristo, ne prese anche le attività e i piaceri; nelle storie antiche era un guerriero terribile e astuto e un amante irresistibile che aveva ventimila mogli".

Le 16.000 gopi (pastorelle; nell’epica indiana 4 elefanti diventano spesso 8.000) che circondavano Krishna durante l’infanzia e la prima giovinezza a Gokula non sono sue mogli (ne ebbe 8 quando divenne re). Furono compagne di giochi apparentemente amorosi (per il miracolo dello specchio e del riflesso ciascuna credeva di averlo per sé, mentre lui si appartava con Radharani).

"…In tal modo riflette la generosa capacità indù di abbracciare ogni aspetto dell’esistenza della vita senza alcun giudizio morale. Tutto questo lo rende perfetto, o imperfetto? L’imperfezione è oltre la perfezione? "Se Krishna ha tutti gli aspetti di un uomo – gli avevo domandato – ha dunque anche la naturale capacità umana di essere nel torto, di commettere errori?" Avevo davvero bisogno di sentire la sua risposta, sperando forse di trovare il condono delle mie debolezze o almeno una migliore comprensione del Mahabharata. Shankaracharya sorrise e rispose: "Tu poni la domanda da un punto di vista umano. La mente dell’uomo è costretta a fare queste distinzioni. Dal punto di vista di Krishna la domanda non si pone". Come un indovinello zen queste parole scossero la mia capacità di comprensione e mi dimostrarono quanto può essere rilevato più attraverso il turbamento che per gli ingannevoli percorsi della ragione.

Questa volta Shankaracharya accolse come vecchi amici quelli di noi che erano già stati a trovarlo. Ci sedemmo per terra e io spiegai che avevamo portato con noi il gruppo di attori che lavorava sul dramma. Li indicò uno alla volta e ridendo identificò i diversi personaggi. Altrove l’India era spesso razzista e ci sentivamo continuamente rivolgere domande ripugnanti, come: "Perché un nero?", "Perché deve essere un nero?" Qui invece non esistevano barriere; fu per noi una gioia e un sollievo quando riconobbe immediatamente un eroe o una divinità indù – Bhishma, Drona, Shiva o Krishna – nei volti dell’africano, del giapponese, del balinese o del francese che a lui guardavano con fiducia. Benedisse la nostra impresa, ci consigliò di non mangiare carne il giorno della prima e ci chiese se fosse possibile fargli pervenire una videocassetta quando lo spettacolo fosse stato pronto.

Una volta tanto questa fu la promessa di un viaggiatore che non sarebbe stata dimenticata e quando cinque anni dopo girammo il film dello spettacolo gli spedimmo una copia. Trascorso del tempo alcuni di noi tornarono in India. Quando entrammo a Kanchipuram una folla di giovani elettrizzati riconobbe gli attori e ci attorniò. "Abbiamo visto il film!" "Dove?" "Nel tempio" "Un bel film!". Andammo a fare visita a Shankaracharya. Attivo, pieno di spirito e pratico come sempre, ci disse che approvava la nostra versione. Per noi era il critico supremo, stimato e temuto al tempo stesso.

Quanto più ci addentravamo nel Mahabharata, tanto più arrivavamo a riconoscere la ricchezza e la generosità del pensiero tradizionale indù. Una singola parola intraducibile, dharma, è sufficiente a collegare l’universale con ciò che è prettamente personale. Il Cosmo ha il suo Dharma e ogni individuo ha il suo dharma; il nostro dovere è scoprirlo, riconoscerlo, e imporci come scopo costante la sua realizzazione. Il termine è spesso tradotto in modo vago con ‘dovere’; in effetti implica vivere in accordo con un imperativo che va oltre tutte le consuete leggi morali. Il dharma rispetta i limiti innati di ogni persona, ognuno ha il proprio punto di partenza e nel corso di una vita ogni uomo o donna può arrivare soltanto fino a un certo livello. Ognuno ha il suo destino, ma pochi di noi gli consentono di manifestarsi. Il dharma non può essere ridotto ad alcun codice, ma nel ricercatore perplesso può essere risvegliato dall’intera azione mitica del Mahabharata, che indica come il dharma individuale sia collegato con il grande Dharma, con il costante riequilibrio della bilancia dell’esistnza. Krishna, nel Mahabharata, mostra che per preservare l’equilibrio dell'universo, ogni cosa deve avere il proprio posto. La sessualità, la duplicità, la violenza: tutto ha un senso. Pertanto le sue azioni sorprendenti e apparentemente immorali costituiscono un confronto costante con un modo di pensar rigido e possono anche scandalizzare i sinceri credenti indù. A un incontro mondano a Delhi, una distinta signora scoppiò in lacrime. "Non riesco a sopportare il Krishna del Mahabharata" mi disse "si comporta così male!"

Tali fraintendimenti fanno parte della natura onnicomprensiva del Mahabharata e durante le prove eravamo continuamente provocati dalle contraddizioni insite in questo lavoro. Spesso l’abbiamo definito shakesperiano perché ogni idea preconcetta va in frantumi di fronte alla vera umanità dei personaggi che, dunque, sfuggono ai moralismi facili e ai giudizi superficiali.

Il viaggio in India con gli attori fu forse la parte più importante del nostro processo di preparazione, non tanto come sistema per mettere ciascuno nello ‘spirito giusto’, ma piuttosto come mezzo per eliminare gli stereotipi sull’Oriente e sui miti in generale. Ogni momento portava una nuova sorpresa, una nuova contraddizione e, sebbene viaggiassimo leggeri, ritornammo a Parigi con un eccesso di bagaglio intellettuale ed emotivo.

Ora, sul piano pratico, si trattava di trovare le forme teatrali adatte a veicolare questo carico. Mai nel nostro lavoro ci era parso tanto chiaro che le forme dovevano arrivare per ultime, che il vero carattere della rappresentazione sarebbe emerso soltanto quando un’accozzaglia di stili fosse passata attraverso un filtro che elimina il superfluo. Il nostro unico principio era innanzi tutto scoprire il significato per noi stessi, quindi trovare l’azione che lo rendesse significativo per gli altri. Cosicché in questo processo non si poteva scartare niente e tutte le possibilità andavano esplorate. Imitammo antiche tecniche, ben sapendo che non saremmo mai stati capaci di eseguirle nel modo giusto. Lottammo, cantammo, improvvisammo, raccontammo storie o introducemmo frammenti delle tradizioni tanto diverse dei componenti del nostro gruppo. Attraverso il caos e la confusione il cammino dirigeva verso l’ordine e la coerenza. Ma il tempo lavorò a nostro favore. Improvvisamente arrivò il giorno in cui l’intero gruppo si accorse che stavamo raccontando la stessa storia. Lavorando insieme, le differenti razze e religioni erano diventate un unico specchio per una molteplicità di temi".

"Questo libro racconta la storia della tua razza, la razza umana" dice l’autore, Vyasa, al ragazzo che rappresenta il lettore.

"Un secolo fa la visione della storia proposta dall’antico induismo era del tutto inaccettabile al mondo occidentale; ma nel mondo di oggi le sue immagini e i suoi simboli trovano sempre più conferme. Gli indù credono che negli infiniti cicli di creazione e distruzione gli esseri umani abbiano rapidamente raggiunto l’Età dell’Oro, il primo e il più alto Yuga da cui discendono tutti i successivi. Il più basso, il quarto e ultimo periodo, è quello in cui viviamo oggi: il Kali Yuga, l’Età Oscura. Non si tratta di pessimismo; la realtà non può essere né ottimista né pessimista, è quella che è, per questa precisa ragione questo mito è così pertinente. Tutta la tensione e il tormento, la violenta sofferenza e la disperazione della vita contemporanea si riflettono nei complessi avvenimenti del grande poema epico. Il nostro mondo sta scivolando sempre più giù nel profondo degli amari orrori che il Mahabharata ha predetto: l’Età Oscura è tutta intorno a noi e con essa sembra che abbiamo raggiunto la degradazione estrema come creature umane, ben oltre quanto gli antichi autori potessero prevedere.

Oggigiorno vi sono molti film sorprendenti, commedie e romanzi sugli orrori della guerra; ma a differenza di questi, il Mahabharata non è negativo. Ci fa cogliere il significato primo del conflitto. Mostra che i movimenti della storia sono ineluttabili, che le gradi sofferenze e i disastri possono essere inevitabili, ma che in ogni fuggevole momento si può aprire una nuova possibilità e la vita può ancora essere vissuta nella sua pienezza.

Questo può aiutarci a capire come vivere, come attraversare l’età più oscura. Di per sé era una ragione sufficiente per portare il lavoro sulla scena. E’ il motivo per cui, in francese, poi in inglese, in giro per il mondo, e poi su video e su pellicola, sembra che abbia toccato una corda comune a tutta l’umanità. Come sopravvivere è una domanda pertinente del nostro tempo, ma cela una domanda ancora più urgente, che il Mahabharata mette saldamente al posto giusto: non soltanto come, ma anche perché sopravvivere".

 

 Religione tradizionale dell'India, praticata da oltre 700 milioni di fedeli. Il termine italiano "induismo", connesso con il nome dell'India, trova il suo antecedente etimologico nel persiano hindu, utilizzato inizialmente nel senso di "fiume", successivamente per indicare il fiume noto anche in Occidente come Indo. Già dal V secolo a.C. il termine indicava per estensione gli abitanti della terra dell'Indo, e quindi dell'intero subcontinente indiano, mentre per l'Islam la parola acquisì una connotazione religiosa, in riferimento agli abitanti non musulmani di quelle terre; in questo senso l'italiano definisce "indù" i seguaci della religione più antica dell'India, presentati invece dalla tradizione locale come "coloro che credono nei Veda" o come "coloro che seguono la legge (dharma), accettano la divisione della società in classi (varna, ovvero le caste) e vivono le quattro fasi (asrama) della vita umana".

Con il termine "induismo" si indica convenzionalmente l'intera esperienza religiosa degli indiani nel suo svolgimento storico, fin dalle origini, fissate approssimativamente intorno al 1500 a.C.; l'accezione scientifica del termine, tuttavia, denota come "induismo" soltanto la religione che, praticata dal VI secolo a.C., costituisce l'evoluzione di due fasi anteriori dette rispettivamente "vedismo" (dalle origini all'800 ca. a.C.), dal nome dei libri sacri, i Veda, e "brahmanesimo", dal nome degli appartenenti alla casta sacerdotale, i brahmani.

I testi sacri e la visione della vita

In termini estremamente sintetici l'induismo è definibile come una religione politeistica supportata da una considerazione filosofica della realtà cosmica e dell'esistenza umana, oltre che da una precisa concezione della società e dei compiti dei singoli individui. La definizione del sistema sociale costituisce quell'elemento di continuità e di unità che l'induismo non possiede nella sua dimensione propriamente teologica, caratterizzata non solo dalla molteplicità delle figure divine, ma anche dalla pluralità degli atteggiamenti devozionali – i fedeli si distinguono per la loro devozione particolare al dio Shiva, piuttosto che a Vishnu o alla dea madre, la Devi – e dall'assenza di un indirizzo dottrinale uniforme paragonabile a un "credo" convenzionale.

Questa visione teologica eterogenea è posta comunque dalla tradizione in continuità con i contenuti degli antichi libri sacri, i Veda, redatti nella forma più arcaica della lingua sanscrita. Fra il 1300 e il 1000 a.C. si colloca la composizione del Rig-Veda, costituito da 1028 inni in onore delle diverse divinità, mentre lo Yajur Veda è il formulario liturgico ufficiale per il rito del sacrificio; il Sama Veda fornisce invece un'ulteriore collezione di inni, mentre l'Atharva Veda, redatto intorno al 900 a.C., contiene una raccolta di formule magiche. Alla letteratura vedica appartengono anche i Brahmana, ponderose esposizioni dei rituali e dei miti a essi sottesi, oltre alle Upanishad, testi di carattere filosofico redatti dal 600 a.C. come documento delle più antiche speculazioni circa il significato dell'esistenza e la natura dell'universo.

Queste opere canoniche, pur venerate da una tradizione che impone di custodirne scrupolosamente l'integrità testuale, sono state soppiantate nella loro funzione didattica da un'altra collezione di antichi scritti detta Smrti, "ciò che è ricordato"; rientrano in questo canone più popolare i grandi poemi epici: il Mahabharata, narrazione che in oltre 200.000 versi compendia la lotta dei Pandava, guidati da Krishna, contro i Kaurava, e il Ramayana, racconto, in oltre 50.000 versi, del viaggio intrapreso da Rama alla ricerca della moglie Sita rapita dal demone Ravana, oltre ai Purana, esposizioni, anch'esse ponderose, di temi mitologici e cosmologici, e alle codificazioni – "Dharmashastra" e "Dharmasutra" – della legge sacra, fra cui le cosiddette Leggi di Manu (vedi Manu).

Questa ricca letteratura, per la quale è difficile fissare date di composizione – i due poemi epici risalirebbero a un periodo compreso fra il 300 a.C. e il 300 d.C. – contiene inoltre numerose narrazioni relative alla cosmologia, il motivo ispiratore fondamentale della filosofia dell'induismo, fondata sulla concezione dell'universo come un grande uovo cosmico con cieli, mondi infernali, oceani e continenti disposti concentricamente intorno all'India; questo universo sconfinato è destinato a una esistenza eterna ma ciclica, segnata da una degenerazione costante e inesorabile da una sorta di Età dell'Oro della durata di 1.728.000 anni, detta Krta Yuga, fino all'epoca più triste e precaria – il Kali Yuga, di 432.000 anni – al culmine della quale il cosmo viene interamente divorato dalle fiamme e dai flutti come in un rito di purificazione generale capace di rigenerare l'età dell'oro e l'inizio di un nuovo ciclo. Allo stesso modo l'esistenza umana è coinvolta nel ciclo inarrestabile delle rinascite, reso possibile dalla trasmigrazione delle anime, che alla morte dell'individuo si reincarnano nel corpo di un altro essere vivente, in un processo eterno conosciuto come samsara.

Ogni uomo è destinato a reincarnarsi in un essere di qualità superiore o inferiore secondo i meriti accumulati nell'esistenza attraverso l'insieme delle sue azioni, il karma, realtà tendenzialmente negativa, ma indirizzabile verso un fine positivo per mezzo di pratiche di devozione e di espiazione che trovano il loro vertice nelle forme di ascetismo volte a ottenere la "liberazione" – moksha – dall'attaccamento alla realtà materiale. Nei concetti essenziali di samsara, karma e moksha, la tradizione indiana sintetizza i contenuti essenziali di una visione sostanzialmente pessimistica circa il valore della realtà cosmica e materiale, il cui incombere inesorabile deve essere assolutamente esorcizzato attraverso un cammino di liberazione e di rinuncia al mondo, secondo l'ideale delle numerose correnti ascetiche presenti in India fin dall'antichità.

La considerazione del carattere inesorabile della dimensione materiale dell'esistenza giustifica l'altro aspetto prescrittivo essenziale dell'induismo. Questa prescrizione, solo apparentemente contraddittoria rispetto alle tendenze ascetiche, impone a ogni fedele di assumere un ruolo preciso nella società, per portare a compimento la missione assegnatagli dal destino al momento della nascita, contribuendo a perpetuare il ciclo della storia attraverso la procreazione e a procurare il benessere materiale a sé e ai suoi simili, nella speranza di ottenere il premio delle proprie azioni nell'esistenza futura con la trasmigrazione della propria anima nel corpo di un essere di livello sociale superiore o in quello di un asceta.

Questo atteggiamento fornisce la giustificazione filosofica per la dottrina più nota e controversa dell'induismo, ovvero la rigida divisione della società in classi, – varna – note in Occidente con il termine, di origine portoghese, di "caste", alle quali si appartiene per nascita senza alcuna possibilità di sfuggire alle severe norme di una concezione gerarchica. Un ruolo di assoluta preminenza è attribuito infatti ai membri delle tre classi superiori, quelle dei sacerdoti (brahmani), dei guerrieri (ksatriya) e dei lavoratori qualificati (vaisya), che riservano una condizione di totale sottomissione a chi appartiene alle caste inferiori, da quelle considerate servili (sudra) fino a quelle, disprezzate come impure, degli "intoccabili" , i "paria" della tradizione occidentale, definiti in India come candala, termine riferito propriamente a chi si trovi nella condizione di "fuori casta" perché nato dall'unione illecita fra una donna di casta brahmanica e un uomo di casta servile.

Il matrimonio fra coniugi appartenenti alla stessa classe costituisce per l'appunto una delle regole fondamentali dell'organizzazione castale, le cui origini storiche risalirebbero all'epoca dell'insediamento in India delle tribù indoeuropee, portatrici, secondo la tesi suggestiva ma controversa dello studioso francese Georges Dumézil, di una "ideologia tripartita", con le figure del sacerdote, del guerriero e dell'agricoltore poste a garanzia della buona organizzazione della società: riservando dunque a se stessi queste tre funzioni e tramandandole ereditariamente nelle caste superiori, gli invasori indoeuropei avrebbero inquadrato nelle caste inferiori gli abitanti indigeni dell'India. Formalmente abolito dalla costituzione dell'India moderna, il sistema delle caste continua comunque a rappresentare per la tradizione indù l'ambito privilegiato per la realizzazione dell'ordine sociale, riflesso dell'ordine cosmico – dharma – che ogni fedele contribuisce a determinare conformandosi ai doveri previsti dallo svadharma, il dharma del singolo individuo, e impegnandosi a realizzare con successo, anche in termini meramente materiali, il fine – artha – assegnato alla sua esistenza. Contemplando tra i fini essenziali dell'essere umano anche il soddisfacimento del desiderio amoroso – kama – il pensiero indù non scorge, in questa tendenza a codificare ogni aspetto della vita sociale e materiale, alcuna contraddizione con l'aspirazione alla moksha, la liberazione che gli asceti cercano in modo radicale mirando a cogliere l'identità fra l'atman, l'anima individuale, e il brahman, la grande anima dell'universo.

La volontà di armonizzare in modo sempre più efficace questi due aspetti portò alla definizione di concetti come quello di "dharma universale", sanatana dharma, una sorta di codice etico ideale che, sovrapponendo ai doveri sociali alcuni atteggiamenti più specificamente ascetici, aspira a superare, considerandole come necessità relativa, le prescrizioni del dharma tradizionale, come avviene nel caso della definizione della "non violenza" – ahimsa – concepita come assenza del desiderio della violenza da parte del fedele pur disposto ad utilizzarla qualora il proprio ruolo nella società e le condizioni contingenti lo richiedano.

Si delinea così quella dottrina essenziale dell'induismo che invita il fedele a rispettare le regole del vivere sociale assumendo tuttavia un atteggiamento di totale distacco da questa dimensione e soprattutto dai frutti prodotti dalle azioni; secondo l'insegnamento della Bhagavad-gita, il testo di riferimento per la devozione indù, il saggio accetta tutte le incombenze assegnategli dal destino, imponendosi tuttavia di non godere in alcun modo del frutto delle proprie azioni e di non considerarle come l'orizzonte principale della propria esistenza. Gli obblighi sociali costituiscono soltanto, insieme ai riti, il contributo del singolo fedele alla necessità del karma, superabile comunque attraverso la conoscenza – jnana – della dimensione trascendente, quella del brahman universale, accessibile per mezzo della meditazione.

Sintesi efficace, anche a livello di pratica popolare, di queste due tappe fondamentali dell'espressione religiosa, è il concetto di bhakti, la devozione entusiastica alle divinità: interpretando infatti i singoli esseri divini come emanazioni dello spirito universale, il brahman, la tradizione indù consente al devoto di soddisfare, con la pratica della bhakti, le esigenze del karma, imponendogli di riservare agli dei tutti gli atti di culto previsti dal rituale, che costituisce però soltanto la prima tappa del percorso devozionale e il preludio al momento della comprensione – attraverso la conoscenza – della divinità come parte della realtà ultima, infinitamente superiore alla sua manifestazione materiale, fonte di illusione (maya) per quanti si limitino a essa spinti dall'ignoranza.

Gli dei e il culto

In questa prospettiva i fedeli rivolgono la loro devozione preferibilmente a una delle divinità principali del pantheon indiano – a Shiva, a Vishnu o alla Devi –, considerando ciascuno di essi come manifestazione dell'assoluto universale, personificato inoltre anche nella divinità creatrice, Brahma, il regolatore della legge del karma. Contemplando l'estasi erotica della sua seconda sposa, Sarasvati, talvolta indicata anche come sua figlia, Brahma si sarebbe ritrovato con cinque teste, prima che il figlio Shiva gliene mozzasse una per punirlo del rapporto incestuoso con la figlia: i devoti di una delle tante correnti shivaite usano ancora come proprio ornamento un teschio, come Shiva fu costretto a fare dopo il suo gesto cruento, fino al giorno in cui si sarebbe purificato dal sangue del padre immergendosi nelle acque del Gange nel luogo dove oggi sorge Benares.

Shiva assume così a livello cosmologico il ruolo di distruttore e, nello stesso tempo, rigeneratore del mondo, colui che dispensa la morte, ma anche la vita; nei templi a lui dedicati, la sua forza creatrice viene rappresentata sotto forma di fallo – linga –, il principio maschile che, unendosi al principio femminile – yoni – determina la creazione primordiale concepita come annullamento di ogni dualismo nelle forme dell'assoluto universale. Secondo la leggenda, Shiva fu condannato ad assumere un aspetto fallico per non avere interrotto, pur trovandosi al cospetto del saggio Bhrgu, la sua unione sessuale con Parvati, uno degli aspetti con i quali si manifesta la dea madre; questa natura così esplicitamente sensuale del dio non impedisce comunque che egli eserciti la funzione di divinità principale degli asceti, che lo raffigurano come un saggio dedito alla pratica dello yoga. Una delle pratiche più tipiche proposte dalla tradizione indiana come via per armonizzare le esigenze della vita attiva con l'ideale della rinuncia è la prescrizione delle quattro fasi – asrama – della vita, alle quali dovrebbe conformarsi il brahmano devoto, osservando un regime di castità assoluta durante il periodo di formazione giovanile, prima di compiere i suoi doveri di padre di famiglia fino alle soglie della vecchiaia, quando si ritirerà nella foresta alla ricerca della liberazione, per raggiungere, nell'ultima tappa del cammino, una condizione simile a quella dei sannyasin, gli asceti della rinuncia assoluta.

Al dio Vishnu viene invece attribuito il ruolo di conservatore del mondo, che egli esercita manifestandosi in determinati momenti della storia del cosmo attraverso un'incarnazione – avatara – per riportare l'ordine fra gli uomini, minacciati da una condizione di instabilità. Settimo avatara di Vishnu è così l'eroe Rama, la figura dell'uomo perfetto celebrata dai versi del Ramayana, mentre nel 3102 a.C., all'inizio del ciclo cosmico attuale, il Kali Yuga segnato dalla decadenza, si sarebbe conclusa l'esistenza dell'ultimo degli avatara, l'eroe supremo Krishna, che nella Bhagavad-gita appare sotto le sembianze di un divino cocchiere per rivelare la dottrina dell'assenza del desiderio e del distacco dal frutto dell'azione come via efficace per ottenere la salvezza, garantendo contemporaneamente la sopravvivenza dell'universo. Al termine di questa era cosmica Vishnu tornerà a manifestarsi agli uomini come figura escatologica che riporterà nel cosmo l'epoca della felicità e del trionfo del dharma.

Lakshmi è il nome che la dea madre assume come consorte di Vishnu e dea della buona sorte – Shri – della ricchezza e della bellezza, oltre che madre di Kama, il dio dell'amore; a lei è consacrata la vacca, animale considerato sacro e meritevole di venerazione. Alla divinità femminile si indirizzano principalmente le pratiche delle correnti devozionali che riconoscono in lei il principio assoluto in considerazione del suo ruolo di detentrice della shakti, l'energia creativa scatenata dagli esseri divini come condizione indispensabile per rendere manifesta la loro natura trascendente: in questa prospettiva la presenza della dea come sposa delle divinità maschili appare lo strumento fondamentale per conciliare il carattere di trascendenza dell'essere divino con le sue funzioni immanenti e terrene. Anche come sposa di Shiva la Devi tende ad assumere il carattere di divinità principale nei suoi aspetti benevoli di garante della fertilità e simbolo della fedeltà coniugale (la Sati), ovvero "moglie virtuosa", che, gettandosi fra le fiamme per difendere di fronte al padre l'onore calpestato del marito, diverrà il personaggio ispiratore del costume, oggi ufficialmente abbandonato, di immolare le vedove sul rogo funebre del marito. Nelle sue manifestazioni più inquietanti, la dea è temuta e venerata con l'epiteto di Kali, "nera", essere mostruoso dalle otto braccia, energia distruttiva e signora del tempo, custode della legge inesorabile del karma, che divora tutto ciò che è vivo per gettare il seme della nuova esistenza, danzando freneticamente sui corpi dei nemici uccisi, fiera della sua collana di teschi.

A Kali è consacrata, fin nel nome, la città di Calcutta, dove sorge il più grande dei numerosissimi templi a lei dedicati, il Kalighat, sede del rito del sacrificio animale, che prevede di norma l'immolazione di capre. Il culto della dea rappresenta in effetti l'unico ambito in cui l'induismo tradizionale mantenga la pratica antica del sacrificio cruento come forma di offerta votiva – puja – alla divinità, il più importante fra i rituali della devozione indù, celebrato ormai da tempo sotto forma di offerta simbolica di cibo – orzo, riso, latte, burro fuso – all'immagine degli dei nelle migliaia di templi grandi e piccoli dedicati in tutta l'India a Vishnu, a Shiva, e agli altri esseri divini. Particolarmente venerati, fra i luoghi sacri, sono i grandi edifici di culto, come quelli di Mahabalipuram, mentre a Rishikesh – sull'Himalaya – e nella città sacra di Benares, sul Gange, convergono pellegrini da tutta l'India. Oltre che nei pellegrinaggi, la devozione dei fedeli si esprime nei numerosi rituali previsti nelle festività solenni, da quella in onore di Durga (un altro aspetto della dea madre Devi), che si celebra ogni anno nel Bengala con la venerazione, per dieci giorni, delle immagini della dea, poi gettate nel Gange durante una suggestiva cerimonia notturna, ai Mela, momento di incontro fra i devoti e gli asceti, venerati come santi. Se la festività più solenne è certamente il Maha Kumbha Mela, la "festa della brocca" – la brocca simboleggia la funzione generativa della dea madre – celebrata ogni dodici anni ad Allahabad nel punto di confluenza fra il Gange e lo Yamuna, la ricorrenza primaverile – Holi – costituisce una sorta di carnevale indiano, caratterizzato significativamente dalla rottura temporanea dei legami sociali con l'incontro di membri delle diverse caste che, liberi da ogni condizionamento, manifestano la loro felicità inondandosi reciprocamente con cascate di liquidi multicolori.

Cenni storici

Per quanto la tradizione indù, fedele alla sua concezione ciclica del tempo, si dimostri poco incline a cogliere l'evoluzione storica delle sue dottrine, è possibile individuare, anche volendosi limitare ai contenuti principali, le fasi salienti di un processo che ha condotto alla nascita di questa visione religiosa definibile, proprio a motivo del carattere eterogeneo delle sue pratiche, come sintesi di esperienze di diversa origine. Già nel periodo compreso approssimativamente fra il 2000 e il 1500 a.C. l'India fu interessata dalla sovrapposizione fra i tratti culturali della tradizione indigena, quale appare, per esempio, nelle manifestazioni della cosiddetta civiltà della valle dell'Indo, nota grazie ai siti archeologici di Harappa e Mohenjo-Daro, e i caratteri importati dagli invasori indoeuropei: se i contenuti fondamentali della religione dei Veda, fondata sull'adorazione di un pantheon di divinità maschili e sulla pratica del sacrificio, sono di chiara matrice indoeuropea, al sostrato etnico indigeno sarebbero da attribuire, oltre al culto della dea madre, buona parte degli atteggiamenti mistici che andranno a costituire la tradizione ascetica dell'induismo classico e dello yoga in particolare.

Questa tendenza al sincretismo non sarebbe venuta meno neppure con il consolidarsi, già entro il 900 a.C., del dominio indoeuropeo nell'intero subcontinente indiano e con il delinearsi della visione sociale e religiosa imposta dai brahmani che, collocando al cento del loro sistema l'organizzazione castale e la rigida visione ritualistica della religione, provocheranno fra l'altro, nel VI secolo a.C., la reazione delle correnti filosofiche (in particolare del buddhismo e del giainismo) animate da una più profonda concezione della salvezza individuale. Lo sviluppo dei motivi filosofici e cosmologici caratterizza del resto, insieme all'emergere delle principali figure divine, destinate a sostituire o a ridimensionare le divinità del pantheon vedico, i secoli che procedono dal 200 a.C. al 500 d.C. e soprattutto l'epoca dell'impero Gupta (320-480 d.C.), durante la quale l'induismo definito come "classico" trova la sua espressione più compiuta come religione politeistica praticata nell'ambito del sistema brahmanico con la tendenza a produrre comunque diverse prospettive devozionali e speculative sulla base di dati reperibili nei grandi testi epici e mitologici.

Con lo sviluppo della bhakti come forma privilegiata dell'espressione religiosa diviene sempre più marcata la tendenza alla molteplicità degli indirizzi teologici e rituali, tanto che la nascita di correnti e di sette vicine all'uno o all'altro orientamento costituisce il tratto più evidente della storia dell'induismo dall'800 fino al 1800; sorte in seguito alla predicazione di maestri autorevoli – i guru – le correnti devozionali sono assimilabili, nella loro struttura organizzativa, ai movimenti più spiccatamente filosofici, come quelli che si svilupparono intorno alle figure di Shankara, il teorico del monismo più puro, e di Ramanuja, animato invece dal desiderio di conciliare la fede nel brahman assoluto e senza attributi con la devozione a una divinità dotata di attributi peculiari. Questi due orientamenti si inquadrano nell'ambito del Vedanta, uno dei sei sistemi fondamentali della filosofia indiana, che rielaborarono dialetticamente le dottrine dell'induismo rivestendole di contenuti di alto livello speculativo, a differenza di quanto accadde negli ambienti del tantrismo, movimento anch'esso eterogeneo ma unito dalla spiccata tendenza a sublimare la dimensione materiale dell'esistenza nelle forme di un ritualismo estetizzante ed esoterico, attraverso l'esaltazione della componente più propriamente erotica dell'unione fra il principio divino maschile e quello femminile. Questi caratteri, chiaramente visibili, ad esempio, nelle pratiche della setta che, fondata nel XVI secolo da Chaitanya, celebrava l'unione di Krishna con la sua sposa Radha, tema poi sviluppato dai suoi discepoli sotto forma di dramma rituale dagli intensi contenuti estetici rappresentato nel villaggio di Vrindaban, appaiono anche nell'opera dei più celebrati poeti mistici indiani. Alcuni di essi, come Kabir, vennero influenzati anche dall'Islam e soprattutto dalla tensione mistica propria del sufismo.

I numerosi movimenti, come quelli dell'Arya Samaj e del Brahmo Samaj, sorti a partire dal XIX secolo e classificati convenzionalmente come manifestazioni del cosiddetto "neoinduismo" sono accomunati dalla volontà di restituire vigore ai contenuti della tradizione indù come strumento di identità nazionale di fronte al diffondersi in India della cultura europea, mentre l'attività politica di Mohandas Gandhi, che si ispira al concetto di ahimsa, la non-violenza, riproposta nelle forme della "resistenza passiva" come strumento privilegiato per liberare l'India dal dominio britannico, costituisce certamente il più noto fra i tentativi di riutilizzare in prospettiva sociale i dati della religione antica. Rientrano in questa prospettiva anche gli ideali riformistici di quanti scorgono in una ridefinizione più o meno radicale del sistema delle caste una necessità assolutamente prioritaria per garantire, di fronte all'avanzata inarrestabile del progresso e della secolarizzazione, la sopravvivenza dei valori spirituali di una fede millenaria, alla quale si ispirano alcuni movimenti.

Anonimo - Tratto da http://www.judo-educazione.it

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