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Nisargadatta

nisargadattaL'"Io sono" stesso è Dio. La ricerca stessa è Dio. Mentre cerchi scopri che non sei nè il corpo nè la mente, ma l'amore del sè in te per il sè in tutto.
Le due cose sono una sola. La coscienza in te e la coscienza in me, apparentemente due, sono in realtà una sola, cercano l'unità e questo è amore.
 

Nisargadatta, è una figura particolare il cui insegnamento sta conoscendo ultimamente una seconda giovinezza dopo il successo degli anni ottanta quando venne pubblicato il libro "Io sono quello", scomparso dalle librerie per oltre un ventennio e ultimamente ripubblicato. Attraverso una serie di dialoghi conduce il lettore ad interrogarsi sulla propria Realtà ultima e risponde alle domande più svariate sempre con dolcezza e pazienza.
In queste pagine riportiamo la presentazione che fece Grazia Marchianò alla prima edizione di "Io sono quello", unitamente ad alcuni brani tratti dallo stesso libro, ove il Maestro tratta specificatamente del Vedanta, anche se è difficile trovare in quel testo qualcosa che non sia solo puro Vedanta.

Presentazione di "Io sono quello"
Nisargadatta Maharaj, al secolo Maruti Kampli, appartiene a una linea di trasmissione marathi del Vedanta monistico, che si fa risalire al Mahatma Dattatreya. Tra i veggenti di epoca vedica, Datta avrebbe istituito il primo lignaggio spirituale (parampara), che nel Maharastra è noto come navnath sampradaya, la "scuola dei nove", cui fu affiliato il maestro di Maharaj e, alla sua morte, lui stesso.
A Dattatreya sono attribuiti l'omonima innodia Datta o Daksinamurti Samhita, di cui una versione ridotta è nel Tripura Rahasya , e la citata Avadhuta Gita, il "Canto del Rinunciante".
Una tardiva upanisad si potrebbe definire Io sono Quello, e quasi un'ininterrotta continuazione della parola di Ramana Maharshi, cui Nisargadatta da più segni appare afratellato.
Entrambi di origine umile e campagnola, illetterati e padroni di un sola lingua: il tamili per Ramana, e il marathi per Nisargadatta. Entrambi "scoperti" da due europei: Paul Brunton, che divulgò il pensiero di Ramana, e Maurice Frydman che, a Bombay, negli ultimi anni di una vita segnata da numerose conversioni - da ebreo polacco a monaco cristiano a swami indù - divenne discepolo e l'interprete di Nisargadatta, promuovendo la prima edizione in inglese di Io sono Quello .
A differenza di Nisargadatta, Ramana non ebbe maestri, non lavorò, non si sposò. Ragazzino, dopo una tremenda esperienza di alterazione della coscienza fino alle soglie della morte, abbandonò il villaggio natale e un richiamo incoercibile lo trasse a un colle, nei pressi di Tiruvannamalai, celebrato in inni bellissimi, Arunacala, dove visse in solitaria meditazione e dove in seguito sorse l'asram che prese il suo nome.
Maruti invece crebbe in città, e a Khetwadi, nella suburra di Bombay dove ancor oggi abita, avviò giovanissimo, insieme al fratello, un piccolo commercio di tabacchi, dando via via il benvenuto a molti figli. Quando aveva da poco varcato i trent'anni, un avventore, Yashwantrao Baagkar, lo conduce da Sri Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, e Maruti sotto la sua guida intraprende una disciplina presto costellata di esperienze mistiche. L'"esplosione" interiore avviene dopo tre anni, poco prima della morte del maestro, di cui Maruti assumerà il cognome. Dopo un periodo di solitario vagabondaggio, il ritorno a Bombay, l'abbandono definitivo del commercio, e l'inizio dell'ultima fase, durante la quale lo conobbe Frydman.
Sono trascorsi trent'anni dalla morte di Ramana, ed ora, anche la vecchia bocca di Maharaj, a 85 anni, in un corpo assalito dallo stesso male del Maharshi, si avvia al silenzio.
Forse il modo meno impervio di accostare Io sono Quello è ripercorrere lo stesso tragitto del giovane Maruti alle prese con la sua realizzazione accanto al maestro.
Intontito dalle pratiche yoga che da qualche tempo gli procurano estasi sporadiche, visioni e abbagli subitanei, Maruti un giorno si reca da Maharaj, gli si accoccola ai piedi, e attende. Non sa che quella volta sarà l'ultima, non solo perché il maestro di lì a poco cesserà di vivere, ma anche perché ciò che sta per dirgli è la massima condensazione dell'Advaita Vedanta, e insieme la via diretta all'esperienza metafisica: "Tu sei il Supremo... agisci in conformità". E aggiunge: "Credilo con fermezza, non dubitarne mai, ricordalo senza intermissione". A Maruti non restò che obbedire. "Continuai la mia solita vita, ma ogni momento libero lo passavo a ricordare il maestro e le sue parole. Poiché non le ho dimenticate, mi sono realizzato". Così dice oggi Nisargadatta, a chi lo interroga sulla sua iniziazione. E scende nella stanza, mentr'egli parla con sconcertante umiltà del "grande passo", un silenzio profondo, come quando in un crocchio all'improvviso si scatena un epilettico e gli astanti, raggelati, si fanno muti. Quando il vecchio dichiara: "Sono il Supremo", è fatale che qualcuno, tra gli astanti, lo sogguardi con un'ombra di malcelata ironia, e il vecchio, sollecito, gli si volge sorridendo: "Lo so, è difficile crederlo. Ma se ti dico: metti a fuoco l'"io sono", non puoi esimerti. L'"io sono" è la tua prima percezione al risveglio. Domandati da dove viene o osservalo quieto. Immancabilmente scoprirai tutto ciò che non sei: il corpo, i sentimenti, i pensieri, le idee, le proprietà esterne e interne. Sono tutte auto-identificazioni infedeli. Per causa loro, ti prendi per ciò che non sei".

"Ma io, chi sono?".
Per spiegare l'inspiegabile Maharaj finge di narrare una fiaba: "Nell'immensità della coscienza appare una luce, un puntolino veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e concetti, come la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti ricrei ogni volta il mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va' dentro, e vedrai che quel punto luminoso è l'"io sono", come il riflesso nel corpo dell'immensità della luce. Solo la luce è, tutto il resto appare".
"Durante la veglia, la coscienza si sposta di continuo da una sensazione all'altra, di percezione in percezione, da un'idea all'altra, senza fine. La consapevolezza è dell'interezza e della totalità della mente penetrate direttamente. La mente è come un fiume che scorre nel letto del corpo, per un momento t'identifichi con un'onda e la chiami "il mio pensiero". Tutti i tuoi oggetti di coscienza fanno la mente; la consapevolezza è lo stato in cui la coscienza è colta nella sua interezza".
L'interrogante vive, mentre ascolta, una strana esperienza: le parole sono semplici, non c'è quasi ridondanza nel fraseggiare di Maharaj. Scarse le consuete metafore vedantine, mute le belle storie della letteratura ascetica. Campito nella nudità del sistema, il solo apologo di Janaka, alle prese col suo sogno di mendicante:
- Quando si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io un re che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere re?". E il maestro: " Né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro. Voi siete e insieme non siete ciò che pensate di essere! Lo siete perché agite in conformità. Non lo siete perché non dura. Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto muta. Ma voi siete ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse Janaka: "Sì, non sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato" -.
L'ascolto ininterrotto e quieto scava, tra il senso delle parole e il loro riverbero nella coscienza, un varco impercettibile, una cesura sottolineata appena, come le linee di biancore sotto gli occhi dei santi imbambolati, in certe icone bizantine, scatenano la contemplazione del vuoto nella forma.
Così s'innescano nell'ascolto la ribellione della mente ghermita dal silenzio nella parola e il tumulto del cuore, perché tra la parola e il silenzio c'è di mezzo la tempesta della vita, l'abiezione della malinconia, l'impotenza di raggiungere la quiete costante. E l'innocua triade: mente, coscienza, consapevolezza; il positivo memento: "Sono"; il saggio consiglio: "Se vuoi vivere una vita felice, cerca ciò che sei", si convertono, al mero ascoltare, in puntute saette che trapassano il comune buon senso. L'"io sono" assume le sembianze di un drago apocalittico che ingoia il tempo risputando la persona a pezzetti; il cosmico metronomo: mondo fisico, mentale, supremo, in andata e ritorno, con forma e senza-forma, diviene il sordo rimbombo dei colpi di martello in un'officina metallica dove un mitico Fabbro, adirato e ossesso, grida Sono Quello!
Smarrito, sconvolto, lacerate le sue credenze più salde, "Sono nato e morirò", l'interrogante ricorre all'estremo tentativo di contestare una parola che l'ha morso e lo attanaglia alla gola: "Perché parlate?".
Maharaj, a quel punto, convoca il Buddha - ed è una delle rarissime volte in cui cita qualcuno, a parte il maestro -. Chiama in causa l'Illuminato per spiegare: l'annuncio è la grande arma. Propagare che possiamo raggiungere, che siamo già pronti per il salto oltre il nome e la forma, la nascita e la morte, il pensiero di essere e l'assillo del non-essere, rende automaticamente immortali; ed è l'unico esperienza d'immortalità consentita nella condizione umana. Ora l'interrogante è placato. Ha vissuto nell'ascolto il supplizio del bardo, la vicenda dell'anima catapultata nello stato intermedio dopo la morte. Quanto tempo è trascorso? Attimi, minuti, ore? "Com'ero stamattina, prima di ascoltare? E ciò che ho appreso finirà nel mucchio tra le altre nozioni, o lo dimenticherò? E che cosa ricordare prima: "Sono", "Non sono la persona", "Sono Quello"?". Al valico della domanda "Chi sono?" si affaccia Quello. L'universo (paramakasa) è la sua sterminata espansione oltre l'essere e il non-essere; l'interno testimone (avyakta) è la sua infinitesima concentrazione oltre il corpo e l'io-persona; il quarto stato (turiya) è la sua indenne dimora, oltre la veglia, il sogno e il sonno profondo. Come sostanza realissima è essere (sat); come consapevolezza autofondata è coscienza (cit); come gioia della completezza è beatitudine (ànanda). Il vero maestro (sadguru) è la scoperta dell'"Io sono Lui", mentre il molteplice, fuori e dentro di me, è solo apparenza. L'unica efficace disciplina (sadhana) è l'imperterrita contemplazione di Lui; qualsiasi altro sforzo gioverà solo per raggiungere lo sfinimento oltre il quale è il non-fare, il non-attendere i frutti dell'azione, il non-desiderare quello che già si ha essendo Lui, il non-dipendere dagli schiavi del tempo: il piacere come attesa e il dolore come ricordo.
Alla domanda: quando s'intona un mantra, che cosa realmente accade, Maharaj risponde: "Il suono crea la forma per accogliere il Sé".
Avvezzo come ogni indù a convertire le più vertiginose astrazioni in materia palpitante e concreta, ai suoi occhi il Sé è letteralmente più vicino del respiro, è il battito stesso del cuore - atman su, atman giù - ma sempre e solo qui-ora.
Che cos'è questo Arcano che lampeggia nei Veda, riemerge nel Vedanta, ritma gli inni, i dialoghi, i canti, gli introiti alla sapienza?
Il punto al centro del mandala, la "cella" ombelicale nel tempio, il battito del piede segnatempo, il ritmo ininterrotto del tamburo, la pupilla saettante e il dito puntato sul cuore della danzatrice irrigidita, tutti questi mezzi efficaci dell'arte rituale accennano all'Arcano Maggiore, mortificato dal nome che riceve in traduzione - trascritto minuscolo o maiuscolo -: sé, Sé, o nei linguaggi buddhisti: non-sé (anatman).
Da quali sconfinati abissi della memoria emerge nella sapienza indiana l'Arcano del Sé?
In un libro di grande valore, ingiustamente ignorato, Maryla Falk tentò lo scandaglio del mito psicologico nell'India antica, e quasi ne fu sopraffatta. Stasi dell'estasi osò definire la Falk il vertiginoso indiamento che largisce al meditante l'esperienza del Sé. Un'esperienza in cui "domina la coscienza dell'infinità, ... della cosmicità, e allo stesso tempo la coscienza dell'io, ma con un carattere di vastità smisurata che non conosce i limiti della coscienza quotidiana dell'"io" ".
Ed è lì, sullo scrimolo che distingue nella veglia la prima dalla terza persona, e nel sogno l'identità del sognatore rispetto al sognato, e nel sonno profondo, invece, li rimescola nella placenta dell'oblio, su quel lembo sottile di coscienza calcata dall'orma della persona, è il confine insidioso tra follia e sapienza, il discrimine che sconcerta i "sani" e trascina il folle nei suoi intontimenti orgiastici, nei cupi deliri, nelle malinconie di pietra. La fredda, pallida conversione dell'oniromante nel moderno analista è l'unico tentativo di ripristinare l'antica sequenza: l'io incatenato, il Sé rispecchiante, l'analista-specchio.
L'ultimo Jung, sfiorando il pensiero di Ramana Maharshi, fu conquistato da questa quarta dimensione dell'indiamento, pur riscontrandovi una sorta d'impareggiabile contraddizione: "... L'India è pre-psicologica. Quando cioè parla del "Sé", pone un "Sé". La psicologia non fa così. Non che neghi l'esistenza del conflitto drammatico, ma si riserva la povertà, o la ricchezza, d'ignorare il Sé. Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Sé; ma siamo consci del fatto che percepiamo, con mezzi limitati, qualcosa di sconosciuto e lo esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui ignoriamo se siano o no conformi alla natura di ciò che dev'essere conosciuto ".
Jung non ha incontrato Maharaj. Se si fossero parlati, è quasi certo che il vecchio gli avrebbe chiesto: "Chi formula la domanda? E chi c'è dietro la persona che la formula?".
"In realtà non ci sono persone, ma fasci di memorie e abitudini...";
"Il Supremo è un unico blocco compatto di realtà";
"La condizione indisturbata dell'essere è la beatitudine. La condizione disturbata è ciò che appare come mondo. Nella non-dualità c'è la beatitudine; nella dualità, l'esperienza...";
"La realtà è oltre la descrizione. La conosci solo se sei essa";
"...Il mio silenzio canta, la mia pienezza è colma, non mi manca niente. Non puoi conoscere la mia terra finché non ci sei dentro".
E in quel dire il vecchio aduna una forza di gigante, come se dal piccolo corpo, accartocciato e corroso dagli anni, si levasse una lingua di fiamma o un brivido di energia che gli elettrizza lo sguardo.
"Non avete paura di morire?".
"Ti racconterò com'è morto il mio maestro. Dopo aver annunciato che la sua fine era prossima, smise di mangiare, senza modificare il ritmo della vita quotidiana. All'undicesimo giorno, nell'ora della preghiera, stava cantando e batteva vigorosamente le mani, all'improvviso morì, tra un battere e un levare, come una candela subito spenta".
                                                                                Grazia Marchianò
(Io sono Quello - Rizzoli Editore )

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