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Jainismo

Lo Jainismo è una corrente filosofica a forti connotazioni religiose affermatasi nel VI secolo B.C. grazie a Vaddhamana (599- 527 B.C.), più noto come Mahâvira "grande eroe" e considerato l'ultimo di un guruparampara o lignaggio di ventiquattro maestri, noti come Jina o "vincitori".

Si ritiene che Vaddhamana abbia tratto il suo insegnamento dal precedente Jina, Paseva, che viene considerato appartenente al IX, VIII secolo B.C. Figlio del ragià Siddharta e di Trisola, Vaddhamana nasce a Kundeggana, sobborgo di Verali (oggi Patna nel Bihar); dopo avere già avuto un figlio, a trent'anni, decide di abbandonare famiglia e regno, donando le sue ricchezze ai poveri e divenendo un asceta.

Vaddhamana aggiunse ai quattro precetti di Paseva (non uccidere, non mentire, non rubare, rinunciare del possesso), la castità e rese obbligatoria la confessione, prima  solo facoltativa.

Raggiunta la suprema conoscenza, dopo dodici anni di penitenza, costituì una comunità non solo di monaci «Yati», seguaci delle regole più severe, ma pure di laici o auditori «savaga». Da documenti a noi pervenuti, apprendiamo che alla sua morte (avvenuta a Pava, presso Patna, all'età di settantadue anni) la comunità da lui fondata comprendeva 14.000 asceti, 36 monache, 159.000 laici, 318.000 laiche.

La sua figura per molti versi coincide con quella del Buddha storico, ed è difficile comprendere se essi siano realmente esistiti o se addirittura coincidano. Chiaramente i posteri hanno saccheggiato nelle leggende dei vari culti al fine di costruire e santifica la figura del loro fondatore. [NdR]

Le 24 tirthankara.
Il Jainismo parte dall'ossessione del karman, di quella sofferenza che è l'esistenza alla quale l'anima umana è condannata dal gioco senza fine della trasmigrazione; ma, mentre il brahmanesimo vedeva la situazione dell'anima senza uscita, il Jainismo intravede l'avvenire con ottimismo: lo stato di santità del tirthankara «il santo perfetto», porta alla liberazione dal karman. Il mondo è sottoposto in effetti a una evoluzione ciclica comprendente fasi alternativamente felici (utsarpini ) e dolorose (avarsarpini); in ogni ciclo si rivelano 24 «santi perfetti»: il primo sarebbe stato Risabha che sarebbe vissuto 8.400.000 anni; il ventitreesimo tirthankara fu Parsva, morto 250 anni prima di Mahâvira (cioè all'incirca nel 776 a.C.). Mahâvira è il ventiquattresimo e ultimo tirthankara.

Siva e Aliva.
La realtà è concepita in una visuale dualistica: essa comprende un principio inanimato, materiale (ajiva) e un principio spirituale (jiva) . La sofferenza dell'anima consiste nell'essere sottomessa a questa composizione, a questo karman , conseguenza delle vite passate; essa è «insudiciata» di materia. Per liberarsi dal «karman», bisogna fare uno sforzo personale d’ascetismo: si raggiunge così lo stato della «non composizione», la beatitudine o, ancora, il nirvana. (Differenza con l'induismo: l'individualità dell'io personale non è assorbita nell'anima universale, ma conservata allo stadio del nirvana).
Si arriva al nirvana rispettando le quattro regole di Parseva e aggiungendovi un quinto comandamento: rinunciare ad ogni proprietà personale. In questa vita di purezza estrema predicata dal Jaina, la regola dell'ahimsâ - la non violenza - è di gran lunga la più importante: dei 18 peccati capitali enumerati nei testi, l'atto di uccidere è il più grave di tutti, anche se la vittima non è che un minuscolo insetto. Un giainista rigoroso non mangia la carne di alcun animale, e filtra persino l'acqua che beve per paura di ingerire piccoli organismi viventi e di uccidere senza saperlo o volerlo.

La dottrina.
L'essenza della condotta jainica è costituita da tre gemme: tri-ratna «la retta fede»; samma-nana «la retta conoscenza»; samma-cariya «la retta condotta». Chi vuole giungere alla liberazione finale «nirvana» deve essere in possesso di tutte e tre queste facoltà.
• La retta fede. Primo contenuto della retta fede è credere nel maestro, quale portatore della verità e trionfatore su ogni ostacolo.  I jainisti considerano l'universo eterno, caratterizzato da un alternarsi di due grandi età (periodi cosmici) che si inseguono senza posa: l'Ossapini (quello che scende) e l'Ussapini (quello che sale); la prima è l'età dell'infelicità e della cattiveria, la seconda è l'opposto.
In ciascuna di queste grandi età vengono al mondo periodicamente oltre a ventiquattro tirthakana (santi perfetti), i dodici cakravantin (monarchi del Bharatavarsa) e ventisette eroi, tre gruppi di nove ciascuno: tutti sessantatré sono chiamati salakapurusa (grandi uomini). Nella dottrina jainica non si contempla un Dio creatore dell'universo, tuttavia è previsto il culto di alcune divinità mutuate al Pantheon brahaminico.
• La retta conoscenza . Strettamente connessa alla retta fede è la retta conoscenza, che può essere diretta o indiretta.
Si considerano facenti parte della conoscenza indiretta e, perciò stesso, imperfetta in quanto mediata:
1) la percezione, o conoscenza attraverso i sensi;
2) la conoscenza attraverso il ragionamento.
Appartengono invece alla conoscenza diretta:
1) la conoscenza trascendentale, o conoscenza dei saggi su presente, passato e futuro;
2) la conoscenza del pensiero altrui;
3) l'onniscienza o conoscenza assoluta, conoscenza propria dei Jina.
Una volta posti questi principi fondamentali, i Jina hanno elaborato un sistema di conoscenza delle situazioni e dei fatti che si definisce dell'indeterminabilità (anckanta-vada), in cui si stabilisce che le cose sono permanenti per quanto riguarda la sostanza, ma transitorie per quanto riguarda la qualità e il loro divenire: cioè ogni realtà può essere vera sotto un aspetto, mentre può essere negata sotto un altro.
L'anima (Jiva), il principio vivente per eccellenza, è in perenne movimento sparsa per l'universo ed è pure illimitata conoscenza. Una volta però imprigionata nel corpo dell'uomo è limitata, a causa dei pensieri e degli atti compiuti dall'individuo o da altri che ne appannano lo splendore quasi come un velo (karman), che si sovrappone condizionandone tutti i movimenti. Solo in seguito a una perfetta osservanza dei precetti della retta condotta da parte dell'uomo, l'anima si libera e può ascendere al nirvana.
• La retta condotta. La retta condotta, terzo elemento essenziale di questa dottrina, riguarda fondamentalmente le due grandi distinzioni tra i seguaci dello Jainismo: quella degli asceti (yati) e quella dei laici (savaga). I primi sono i monaci sottoposti a una vita caratterizzata da una stretta osservanza dei cinque precetti giainici, mentre i secondi sono tutti gli osservanti, i quali, pur riconoscendosi nella dottrina, non sono in grado di sottomettersi alla dura disciplina di questa fede.

Le sculture sacre del Jainismo e gli scismi.
La Parola di Mahâvira fu fedelmente conservata sotto forma di tradizione orale e trascritta circa 300 anni prima di Cristo; ma il testo scritto apparve sotto la sua forma definitiva soltanto nel VI secolo d.C. (la lingua degli scritti jainisti è un antico dialetto dell'India, l'ardhamâgadhi ).
Come ogni altra religione, anche il Jainismo registrò nell'epoca seguente al Mahâvira, scismi, il più importante dei quali fu quello tra il 72 e l'89 d.C., che trova la sua origine in un avvenimento del sesto secolo a.C.
Nel 360 a.C., una parte della comunità jainica, guidata dall'illustre monaco Bhaddabahu, emigrò nel sud a causa di una grande carestia. Al loro ritorno gli emigrati non vollero riconoscere la codificazione dei testi sacri operata dal concilio di Pataliputra, tenutosi nel 30 a.C. dagli antichi correligionari rimasti in patria sotto la guida del monaco Thulabhadda, né vollero adattarsi ad abbandonare la nudità, abitudine favorita dal clima caldo incontrato nel sud, contrariamente agli altri che indossavano una veste bianca. Di qui lo scisma che divise i «vestiti di aria» (digambara) dai «vestiti di bianco» (svetambara).
Con il tempo, anche la redazione del Canone operata nel concilio di Pataliputra, che i digambara avevano rinnegato, venne perdendo diffusione e sarebbe scomparsa se nel quinto secolo dopo Cristo, un monaco non avesse provveduto a una nuova elaborazione. Il Canone, chiamato comunemente Siddharta o Agama, consta di varie parti: i dodici anga (membra); i dodici upanga (sottoanga); i dieci painna (brani sparsi); i sei cheyasutta (regole particolari); i due sutta (regole); i quattro malasutra (regole fondamentali).
La dottrina jainica subì anche l'influenza dell'islamismo, cosa che diede origine alla setta dei lonka, che ripudiò il Canone da cui nel secolo diciottesimo, ebbero origine gli Sthanakvarin, che ripudiarono le immagini e il pellegrinaggio.

Jainismo e Buddismo.
Le principali differenze tra Jainismo e buddismo si riferiscono alla concezione metafisica (anima e indeterminabilità dell'Essere) nonché alla teoria della conoscenza.
Grandissima differenza inoltre si ha nell'idea del nirvana, indeterminato, oscuro, enigmatico nel buddismo, chiarissimo e definito nel Jainismo.

I jainisti, attualmente in numero di circa un milione e mezzo, sono sparsi particolarmente nel Panjab, nel Gujarat, nel Bengala e in generale in tutte le grandi città dell'India.
Lo spirito dei suoi seguaci, non incline ad un'attiva propaganda e ad imprimere il senso di universalità alla loro fede, permise loro (contrariamente a quanto avvenne per il buddismo) di mantenersi in India in numero non troppo diverso dal passato. I loro templi, che sono tra le migliori opere architettoniche dell'India (notevolissimi due di monte Abu nel Rajputana), si innalzano in particolare nell'India settentrionale.
I jainisti, dai quali non è ripudiata l’organizzazione castale, si occupano prevalentemente di banche e di ogni sorta di commercio, che non richieda uccisione di animali o distruzione di vegetali, cioè escludono dalle loro attività l'agricoltura, perché l'aratro semina morte.

 Tratto da Mitologia e dintorni


La nascita del Jainismo.
In accordo alla versione dei Purana, il sistema jaina nasce con il re Rishabha, figlio di Nabhi e Merudevi. I calcoli che riguardano l'epoca della sua permanenza in questo mondo ci conducono a tempi antichissime. Secondo il Bhagavata Purana, egli era una delle numerose incarnazioni di Vishnu.

Il momento culminante della sua vita fu quando conferì il perfetto insegnamento ai suoi figli, durante il quale li mise in guardia contro le illusioni della materia. Rishabha affermò che non si deve sprecare la propria preziosa vita umana dietro le cose di questo mondo, ma che ci si dovrebbe totalmente estraniare da esse. Per dare il buon esempio, alla fine della vita egli divenne un avadhuta (una persona socialmente morta) e lasciò le sue spoglie mortali nell'incendio della foresta nella quale trascorreva gli ultimi anni della sua vita.

Gli insegnamenti di Rishabha vennero praticati e insegnati ad altri dal figlio Bharata, il quale divenne così famoso e rispettato che dai suoi giorni quella che noi oggi conosciamo come India venne chiamata Bharata-varsha (ancora oggi l'appellativo favorito degli indiani per la loro nazione è Bharata). La dottrina di Rishabha e Bharata non si discostava affatto dai fondamentali precetti vedici, ma sottolineava in modo particolare l'importanza dell'austerità e della non-violenza.

In seguito il sacro insegnamento venne ripreso e modificato da un certo re Arhat, il quale visse ai tempi di Rishabha e che lo aveva conosciuto personalmente. In seguito questo monarca cadde vittima dell'illusione materialistica e modificò la dottrina in quel sistema ateo e comunque contrario ai Veda che oggi conosciamo come jainismo. Nel Vishnu Purana c'è la storia di come nacque il movimento eretico jaina.

Secondo invece la versione degli adepti moderni, la dottrina jaina ricevette forma definitiva dal tirthankara (preparatore del guado) Vardhamana, più conosciuto come Mahavira. Certamente il Mahavira storico non poteva essere né Rishabha, né l'ateo Arhat, in quanto le epoche sono decisamente lontane.

Comunque Mahavira nacque vicino Videha, presumibilmente attorno al 450 a.C. e si dice fosse imparentato con Bimbisira, il re di Magadha, che era stato uno dei più importanti patroni del Buddha.

Condusse vita normale fino a 30 anni. Poi, alla morte dei genitori, abbandonò ogni cosa e iniziò a viaggiare per tutta l'India. Presto divenne famoso come Mahavira (o Jina, il vittorioso). I suoi genitori erano stati seguaci di Parshva, che era stato il predecessore di Mahavira, il quale fin da piccolo venne educato agli ideali jaina. Ma egli non si accontentò di osservare le regole insegnategli dai genitori, ma riprese e modificò un po’ tutta l'ideologia.

Certamente all'inizio il jainismo si sviluppò, come il contemporaneo buddhismo, come forma di protestantesimo, una fiera opposizione nei confronti dei Veda. Vista la particolare degenerazione della classe brahmanica del tempo, non ebbe particolari difficoltà ad affermare le sue idee.

C'è chi dice che egli incontrò il Buddha, altri dicono che i due non si videro mai. Comunque stiano le cose, Mahavira predicò tra i Magadha e i Videha e fu in perenne contrasto col fatalista Goshala, quest'ultimo dotato di una dialettica forse più brillante e di una personalità più attraente. Con tutta probabilità morì nel 468 a.C. a Pawa, presso Garibhaja.

La dottrina.
Mahavira non ha scritto nulla. Le idee che gli vengono attribuite sono contenute in un canone scritto in lingua prakrita. Si ritiene che, nei secoli successivi, vi siano state indebitamente aggiunte parecchie teorie nuove. Fino a quel momento gli insegnamenti jaina erano state tramandate oralmente. La lingua usata in parte era prakrita, ma anche il sanscrito venne largamente utilizzato.

Nell'80 d.C. avvenne un importante scisma tra le file jainista, i quali si divisero in svetambara (lett. coloro che si vestono di bianco) e i digambara (lett. coloro che si vestono di cielo, cioè che fanno voto di nudità). In accordo alla storiografia moderna, tutto ciò avviene durante l'epoca del Candragupta della dinastia Gupta.

Il canone attuale jaina viene riconosciuto solo dagli svetambara, mentre gli altri affermano che il canone originale sia andato perduto. Ma è rilevante dire che le due confessioni divergono solo su punti minori. Uno dei pochi scritti su cui tutti si ritrovano d'accordo è il Tattavarthadigama-sutra (Guida all'Intendimento della Vera Relazione tra le Cose) di Umasvati (forse quarto o quinto secolo dell'era cristiana).

Ma vediamo i punti fondamentali della dottrina.

Secondo i jaina esistono sette elementi fondamentali, che sono:

1. jiva, l'anima spirituale,
2. ajiva, l'inanimato, cioè la materia,
3. asrava, gli influssi che gravano sulla jiva,
4. bandha, i legami che la legano all'illusione,
5. samvara, la difesa dalle influenze negative
6. nirjara, l'estirpazione del male e
7. moksha, la liberazione.

Le prime due sono le sostanze che concorrono al divenire della vita, mentre le altre cinque sono differenti situazioni con le quali la jiva deve confrontarsi.

Cos'è una jiva e quali sono le sue caratteristiche?

Mahavira non riesce a discostarsi dai Veda quanto il Buddha e afferma che essa è eterna e individuale, intelligente e attiva. Tutte le anime fanno parte della stessa natura spirituale. Idee dunque prettamente vediche.

Invece per quanto riguarda l'ajiva, l'inanimato, la sostanza di materia, essa è formata da tre specie di etere, che è lo spazio (akasha), il movimento (dharma) e l'inerzia (adharma); e oltre a queste ce ne sono altre due aggiuntive che sono il tempo (kala) e la materia grossolana (pudgala). Quest'ultima è formata da atomi sottilissimi che permettono la manifestazione di tutti i generi di forme esistenti.

Ora, un'idea originale promossa dal Jina fu che la materia e lo spirito potevano compenetrarsi in modo totale. E' da questo contatto che segue una contaminazione che comporta il totale o parziale velarsi delle proprietà naturali dell'anima e il formarsi di un essere, cioè quello che noi siamo al presente. Dunque l'uomo sarebbe una specie di miscuglio di anima e corpo.

Affetto dai corpi materiali che assume, vaga senza meta per il samsara, alla ricerca di felicità. Le anime passano in diversi tipi di corpi, quali possono essere quegli degli dei, dei demoni, degli uomini, degli animali e delle piante. Ma nella logica di questa compenetrazione non esiste materia inerte in assoluto e anche gli oggetti materiali come le zolle di terra e le pietre possiedono anime e sono perciò viventi.

In seguito al movimento di attrazione fra le due energie, la materia viene attirata dentro l'anima e lì diviene karma. Ma come avviene questo processo di graduale contaminazione? E' qualcosa di simile a una scala con otto gradini, composta da:

la materia
velando
1) la conoscenza e 
2) la vista (cioè la coscienza di ciò che è vero) dell'anima;
producendo
3) il senso del piacere e del dolore; 
e turbando
4) la vera fede e la retta condotta; 
conferendo
5) un'esistenza limitata nelle varie specie viventi;
rivestendo
6) l'essere vivente empirico di determinate proprietà fisiche e psichiche;
determinando
7) la situazione che spetta ad ognuno alla nascita (secondo il rispettivo karma);
e ostacolando
8) l'energia che è propria della jiva per sua natura.

Questo meccanismo ad otto momenti vengono descritti e classificati dai filosofi jaina in modo tale che ne scaturiscano centoquarantotto sottospecie. Dunque qui la concezione vedica secondo cui un'azione procura reazioni funeste trova una formulazione decisamente scientifica.

Anche se la materia entra nell'essere stesso della jiva spirituale, la verità ultima rimane sempre di natura superiore. L'energia spirituale rimane sempre la verità e la materia il suo opposto. E' la qualità dell'azione che origina l'afflusso di un karma positivo o negativo, attraverso il quale l'anima si lega (bandha) a una situazione falsa. Dunque il saggio deve impedire al karma di penetrare dentro di sé e nel contempo allontanare quello che si è già insediato nel proprio intimo. Per evitare nuovi danni, viene raccomandata la pratica di una vita virtuosa attraverso l'adempimento di doveri morali. Tutto ciò serve alla difesa (samvara). Invece le pratiche ascetiche sono utili all'estirpazione (nirjara) del karma già presente.

I jaina osservano quattro voti di ordine morale, che sono: 1) non danneggiare la vita (e neanche gli oggetti, in quanto anche questi ultimi hanno un'anima), 2) dire sempre la verità, 3) non rubare, 4) non accumulare ricchezze.

Per gli asceti ci sono altri due voti aggiuntivi che sono: 5) la castità e 6) la nudità. Importantissima è la non-violenza e il rispetto verso la vita. I jaina dovrebbero essere infatti strettamente vegetariani.

Ma per l'ascesi sono necessarie anche delle austerità, che vengono categorizzate in due tipologie: interne ed esterne. Le prime consistono nel digiuno, nello yoga, nella meditazione e nelle asana; il tutto in un luogo nascosto. Le seconde sono costituite dalla contemplazione intensiva. Con questi mezzi il karma è annientato e l'anima si libera.

I jaina adorano quelli che vengono chiamati i Tre Gioielli, che sono: la retta fede, la retta azione e la retta morale.

Chi ha saputo eliminare le cause della schiavitù col mondo (che sono la fede in qualcosa di errato, la dissolutezza e la passione) e chi è stato in grado di purificarsi da ogni forma di karma, conquista in questa stessa vita la santità e la liberazione.

Tale essere perfetto, sebbene sia ancora dentro un corpo fatto di elementi materiali, è chiamato sayogi kevalin, un onnisciente dotato ancora di attività terrene. Se al momento della morte ha saputo eliminare totalmente ogni karma, egli sale al vertice del mondo e si ritrova nel luogo dove sono gli esseri privi di difetti, spiriti senza corpo. Lì si ottiene la completa beatitudine della quiete.

Tutto ciò è così perché questo è l'insegnamento dei santi realizzati.

Alcuni commenti.
Per difendersi dagli attacchi dei loro detrattori, che li accusavano di eccessiva dogmaticità, fin dall'antichità i jaina dovettero occuparsi anche di problemi di logica e di dialettica. Celebre è infatti la teoria della relatività nota come syad-vada, che dice che il reale ha un numero infinito di attributi e che perciò può essere vera sia una cosa che il suo esatto opposto. Questa syadvada era un'arma tanto tagliente che poteva benissimo ritorcersi contro chi la usava.

Come per molti fra i più importanti sistemi indiani, il jainismo fa fatica a distaccarsi completamente dalla sua origine vedica, che risulta abbastanza evidente. La cosa che più di tutte colpisce è l'assenza quasi totale di una menzione dell'elemento divino, cioè di un Dio. Per questa ragione i vedantisti li giudicano, al pari dei sankhya e dei buddhisti, atei e macchiati di forti tinte mayavadi.

Anonimo

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