latriplice ha scritto: ↑09/06/2017, 23:57
cannaminor ha scritto: ↑09/06/2017, 21:44
latriplice ha scritto: ↑08/06/2017, 20:36
cannaminor ha scritto: ↑07/06/2017, 22:03
latriplice ha scritto:
In sostanza fornisci una descrizione della Coscienza nei suoi 3 stadi (io sono questo, io sono, sono) in funzione della presenza o assenza degli oggetti come se la Coscienza ne fosse da questi subordinata.
Veramente pensavo fosse chiaro che è l'inverso semmai, che sono gli "oggetti" eventualmente ad essere subordinati alla coscienza.
Sono gli oggetti, in subordinazione alla coscienza a creare i "3 stadi" di pertinenza. La coscienza è sempre quella, è il contesto dove viene ad applicarsi, se e quando trova applicazione, che crea il contesto ed i 3 stadi.
Quindi presumo che alla fine di questa accurata disamina, in conformità ai propositi del Vedanta, tu abbia dissolto l'ignoranza riguardo te stesso e ti sei riconosciuto in quella coscienza che con estrema competenza e perizia hai descritto.
Insomma se sei illuminato o meno.
Propositi del vedanta? Non so risponderti sui propositi del vedanta; presumo di sì, nel senso che l'istruzione ricevuta (additare cioè, la via ed il viaggio) e quella letta sui testi viene così definita "vedanta"; questo stesso forum ha nome Vedanta.it quindi tutto porta a pensare, presumere, che quanto discusso, esposto e testimoniato sia inerente il vedanta, anche se non lo so per certo quanto ed in che misura ciò mi competa e riguardi.
Così come non so, latriplice, se quella coscienza, quella consapevolezza, quella presenza o i mille altri nomi che nei mille rami tradizionali trova nome, sia l'illuminazione di cui parli. Non te lo sto dicendo per falsa modestia o per dire, meglio domandare a mia volta, come si usa rispondere in questi casi, "chi dovrebbe essere illuminato?"
So solo e posso solo affermare questo; quella presenza, quella coscienza, quella consapevolezza...è sempre presente, latente, sottesa (presente forse è il miglior termine), in me. Spesso e volentieri viene sovrapposta, a vari gradi, di altro, dell'altro, dell'oggetto-oggetti di cui si parlava; spesso e volentieri tende verso una identificazione, individuazione, determinazione, limite e misura, ma sotto, di sotto resta sempre quella presenza , presente, assolutamente presente a sè, a me, me. È la costante che continua, sempre, senza alcuna interruzione di sè, sempre presente, sempre essente.
Tutto il resto, tutto il mondo o i mondi che compaiono (e scompaiono) si sovrappongono, scivolano sopra, leggeri senza mai lasciare alcuna traccia di sè, mai. Per quanto reali, per quanto apparentemente reali, non lo sono mai fino in fondo, essendoci, "in fondo", sempre e comunque presente quella presenza che non viene mai meno. Non saprei come meglio descriverla...
Propositi del Vedanta?
La discriminazione (viveka). E come si pratica?
Essenzialmente tramite l'ascolto dell'insegnamento (shravana) e contemplazione sul suo significato (manana). E oltre la contemplazione, di applicare questa discriminazione su base costante dagli oggetti inconsci che appaiono in te, il soggetto cosciente. Cosa significa? Che se ti ritrovi a pensare che stai invecchiando, che non hai i soldi per pagare le bollette, che sei depresso perché ti senti inadeguato e poco attraente, che tua moglie ti fa i corni, che il tuo caro amico te lo sta mettendo in quel posto lì, insomma tutti i pensieri gettati dal corpo causale (maya) ad ingolfare la tua mente ogni minuto della giornata, di discriminare dall'ignoranza di pensare di essere l'oggetto inconscio che non sei (anatma) e riconoscerti nel soggetto cosciente che sei (atma). E praticare questa discriminazione (sadhana) finché l'ignoranza viene completamente estirpata, e la certezza della tua identità separata dagli oggetti riconosciuta. Questa è moksha, la liberazione, il proposito del Vedanta.
"....So solo e posso solo affermare questo; quella presenza, quella coscienza, quella consapevolezza...è sempre presente, latente, sottesa (presente forse è il miglior termine), in me...."
Se tu avessi espresso questa affermazione in prima persona e oggettivato il me che credi di essere, saresti illuminato. Peccato.
Mi sembra che eri proprio tu, Latriplice, ad affermare che il Vedanta può essere considerato una scienza, pertanto mi domando come mai, pur avendo sufficiente erudizione dei testi, continui ad affermare che le fasi del percorso sono due e non tre: ascolto, riflessione (assimilazione e memorizzazione dei sutra o sacre sentenze: "Io sono Quello", ad esempio) e meditazione-contemplazione quale dissolvimento finale del soggetto percipiente. Con o senza ritorno (savikalpa e nirvikalpa).
Ugualmente Patanjali propone un percorso in otto fasi in cui distingue tra dharana (concentrazione), dhyana (meditazione) e contemplazione (samadhi). Altro darshana, ma le fasi sono sempre tre.
Cambiare le regole del "gioco" non vale. A calcio si gioca con i piedi, non con le mani.
Poi tu vai "oltre la contemplazione" e parli di applicare viveka che, insieme a vairagya (il distacco) è il primo passettino che predispone all'ascolto scevro da attaccamenti e aspettative (visto che nessun fare, neppure il più nobile porta all'Essere) e dici:
"discriminazione su base costante dagli oggetti inconsci che appaiono in te".
Discriminazione su base costante
dagli oggetti inconsci che appaiono in te o
degli?
Cosa vuol dire, in entrambi i casi (dagli o degli) non mi è chiaro, visto che l'ultima discriminazione, l'essenziale, è quella tra sat e asat (attraverso il metodo suggerito: neti neti) e dal progressivo distacco dal transitorio: io sono questo o quello? Contemplare che tutto è impermanente, effimero, sogno nel sogno. Chi sono io?
Solo l'atman è Reale.
Di conseguenza non mi è chiaro neppure che cosa vuoi dire a Cannaminor con la frase finale:
"
"....So solo e posso solo affermare questo; quella presenza, quella coscienza, quella consapevolezza...è sempre presente, latente, sottesa (presente forse è il miglior termine), in me...."
Se tu avessi espresso questa affermazione in prima persona e oggettivato il me che credi di essere, saresti illuminato. Peccato.
Un illuminato si esprime in prima persona, ha ancora un "io dirigente"?
La risposta è ambigua, da subito si risponde no, perchè non c'è un io che esprime, e nessun me in cui credere di essere.
I vestiti sono vestiti, si indossano alla bisogna. Al mare in bermuda e sul Bianco con la tuta impermeabile e gli scarponi.
Nel presente l'illuminato non necessita di un me da oggettivare. La sua resa è Totale. L'autocoscienza massima è quella di Isvara. Se Isvara chiede di agire si agisce. L'esistenza ultima è quella di Dio, suprema autocoscienza dell'"Io sono". L'Essere non viene in esistenza e neppure esce dalla Costante eterna (non nato, non perito). E'.
Il gioco della Vita, dell'esistenza, chiede anche le lacrime. Rama pianse al rapimento dell'amata Sita.
(ex - sistere)
Così l'illuminato, nel presente, che è sempre il suo miglior presente visto che si è arreso alla Vita, compie spontaneamente l'azione dharmica, in qualunque contesto, con qualsiasi interlocutore, dal sudra (povero immigrato nero) al brahmino più influente (Papa Francesco).
E chiaramente, per legge di risonanza l'altro, il povero nero e il Papa, si accorgono dell'armonica che suonano insieme, senza i me che cantano da solisti. E questione di orecchio, la Luce ha un suono. L'abito non fa il monaco, diceva mia nonna.
Oppure la tua frase invece si prende nell'altro verso e allora ci sta.
Sì, un illuminato si esprime in prima persona e ha ancora un "io dirigente,
se serve.
Dice Ramakrishna che Shankara mantenne l'ego della Conoscenza per insegnare all'umanità. Pur avendo raggiunto "Il massimo grado" del percorso yogico - ascetico: il nirvikalpa samadhi in cui ogni legame è sciolto definitivamente dunque chissenefrega del corpo e delle bollette, di moglie, figli, genitori, corna e contro corna, decise consapevolmente di esistere per 32 anni come uomo tra gli uomini.
Il supremo sacrificio, esistere - non Essere.
Siamo noi che abbiamo l'idea che un illuminato dovrebbe dire e fare certe cose e ci immaginiamo noi stessi in quello stato che la mente descrive così bene e in modo tanto convincente (il rischio è quello di crederci, diceva Bo), per poi ripiombare nell'angoscia delle bollette o delle corna appena oggettivato un me, quel me che sta vivendo questa apparenza relativa.
Resta una dicotomia non trovi?
Da una parte l'Assoluto splendido splendente che un super io contempla immerso nell'azzurro imperituro, e dall'altra un tapino che fa i conti della serva per potersi portare a casa la pelle ogni giorno (conti non solo relativi al denaro, dare per avere, avere per non dare...)
Nel Kali yuga gli effetti del karma precipitano a velocità supersonica: oggi la faccio, domani la aspetto. Si dice che dipenda dalla consapevolezza e dalla presenza nell'azione.
Un illuminato non ha più scorie del karma da bruciare, ogni sua azione è purificata dalla consapevolezza suprema, quella di non essere l'artefice.
Ogni frutto del suo dire e del suo fare nutre e ristora.
E' un portatore d'acqua a cui tutti possono accedere.
Le tracce lasciate sono visibili a chi davvero le cerca e ha un'aspirazione ardente a comprendere l'incomprensibile.
Non giudica mai il dire e il fare altrui in quanto non consono o sincronico a scritture e interpretazioni personalizzate da una specifica visione. Tutte le visioni si chiudono a ventaglio, e l'istruzione che impartisce è "mostrare dove inizia il cammino-che-qui-non-esiste"
Rflettiamoci su.