La descrizione di questo processo come evidenziato dalla Meta Upanishad, della mente che si polarizza nei due termini di soggetto-oggetto e l'eventuale conflitto che da questa interazione può nascere, avviene spontaneamente. Questo moto proiettivo apparente è alla base di ciò che si definisce comunemente come coscienza poiché permette l'esperienza del conoscere. Inizialmente viene a stabilirsi questo rapporto duale a livello di rappresentazioni mentali tra l'osservatore e l'osservato, in seguito assistiamo ad una inversione dei termini in cui l'osservatore si identifica con l'osservato.
La funzione della mente è essenzialmente quella di separare ed opporre, l'anatomia del problema stesso. Si è portati a pensare che la mente sia formata da pensieri ed immagini, ma una definizione più accurata concepisce la mente come una tendenza (vasana), che si traduce in un automatismo dettato dall’abitudine, a separare ed opporre laddove c'è soltanto l'Unità.
I confini tra spirito e materia realmente non esistono; se si assumesse radicalmente il concetto di energia vibrante come parametro unitario del nostro modus pensandi si potrebbero superare le nette e antitetiche contrapposizioni tra spirito invisibile e imponderabile e materia pesante e tangibile. La concezione dell'Essere come energia con i suoi molteplici livelli vibratori può assai meglio spiegare la natura del mondo che ci circonda e del nostro stesso essere profondo.
Hai provato ad osservare il passerotto sul davanzale restando consapevole della tendenza della mente di separare l'evento dell'osservazione in soggetto ed oggetto distinti ed in opposizione? Nell'essere consapevoli non si intende un fare, uno sforzo che impedisca che questo accada. La tendenza proiettiva della mente, che è la mente stessa, sorge spontaneamente ed il semplice fatto di essere presenti e consapevoli di tale movimento la indebolisce fino a dissolverla e ciò che resta è l'incanto dell'unione: il tu che fa l'esperienza cessa di assillarti e scompare, e scopri di essere l'esperienza stessa della visione. Ed è in questo contesto che le distanze si annullano e le distinzioni cessano e si realizza che è già tutto lì come da sempre, e che non ha senso parlare di qualcuno che ottiene qualcosa. Non esiste, non è mai esistito e mai esisterà un individuo illuminato perché è una contraddizione in termini. L'illuminazione o la realizzazione è l'assenza di me in quanto individuo separato e distinto. Che cos'è la mente in fondo, se non una “tendenza” spontanea di scindersi in soggetto ed oggetto in contrapposizione, causa apparente del senso di separazione? È questo moto proiettivo che è alla base della modalità percettiva che ci rende coscienti in quanto testimoni, della presenza di oggetti, siano essi pensieri, emozioni, sensazioni o percezioni. Ora, se ci poniamo di fronte ad osservare un qualsiasi oggetto o persona restando consapevoli di tale movimento percettivo, “osserveremo” che questa relazione duale tra sperimentatore ed esperito (in questo caso l'oggetto della percezione) perde di consistenza fino a dissolversi, lasciando al suo posto l'esperienza stessa in assenza del concetto di separazione. Scopriamo, o meglio intuiamo (senza che vi sia qualcuno che intuisce) che nella trinità osservatore – osservare – osservato, soltanto l'osservare in sé è reale e che non c'è veramente alcuna entità a cui ricondurre la paternità di tale esperienza percettiva, se non nell'immaginazione. In assenza di una visione dualistica la percezione visiva a cui si faceva riferimento perde la sua connotazione caratteristica e si riassorbe nella Totalità dal quale apparentemente era emersa. È la visione del risvegliato come citato nella Bhagavad Gita:
L'allegoria di Adamo ed Eva che mangiarono il frutto dall'albero della conoscenza del bene e del male da cui scaturì il peccato originale e la cacciata dall'Eden, a parte il significato teologico che si attribuisce, indica chiaramente che aderire alla tendenza della mente di creare distinzioni è ciò che conduce al vivere separato e alla sofferenza che ne consegue.
La proiezione mentale che si esprime nella modalità soggetto-oggetto ha origine dal corpo causale in cui passiamo un terzo delle nostre vite, cioè dal sonno profondo, una condizione esistenziale universale che tutti indistintamente condividiamo. Nel momento stesso che sorge un pensiero, deve per forza essere presente la triade Conoscitore-conoscenza-conosciuto, che ovviamente nel sonno profondo è assente ma flebilmente prende vita nello stato di sogno per poi consolidarsi nella veglia. Non è al pensiero in quanto fenomeno presente nella triade a cui si deve rivolgere l'attenzione, ma al sostrato stesso da cui ha origine la stessa triade. È la sostanza una ed indivisa (sat) presente nel sonno profondo che apparentemente si scinde e si manifesta nella triade Conoscitore-conoscenza-conosciuto tipica del sogno e della veglia. Scopo dell’auto-indagine è quella di accedere coscientemente allo stato di ignoranza che contraddistingue il sonno profondo, il vegliare dormendo per intenderci, tale da trasformare codesta ignoranza in conoscenza privata dei due estremi conoscitore-conosciuto, che risulta in conoscenza d'identità.
Identità con cosa? Con la totalità vibratoria dell’Essere (sat). Non è ancora realizzazione, ma nella contemplazione di quella beatitudine (ananda) tipica del sonno profondo in cui la proiezione mentale è assente, donde non sorgono domande né risposte da dare, può baluginare per grazia divina l'intuizione di non essere solo l'“oggetto” della contemplazione ma anche il “soggetto” ultimo, la Consapevolezza (cit).
4. Io - il Non Manifesto - pervado l'intero universo. Tutte le creature risiedono in Me, ma Io non sono in esse.
L’osservazione dei fenomeni che appaiono e sperimentiamo durante il sogno e la veglia in conseguenza all’apparente scissione dell’Essere uno ed indiviso presente nel sonno profondo che dà vita alla triade conoscitore-conoscenza-conosciuto, sono soltanto proiezioni della mente, mai la mente stessa. Sono pensieri, emozioni, sensazioni, e percezioni. Non la mente. Nonostante si dica che sia possibile osservare la mente con le sue inferenze, ed in virtù di questa osservazione discriminare l'osservatore dalla mente stessa, ciò non corrisponde al vero per il semplice fatto che quello che apparentemente sta accadendo è la mente che osserva sé stessa. È come scambiare l'effetto per la causa. Il Principio differenziatore, cioè la mente giace a monte, nel momento stesso nel quale avviene l'apparente scissione della sostanza vibratoria dell’Essere che dà vita a quella relazione duale del soggetto osservante e dell'oggetto osservato. L' uno appare due, e quest'ultimo è la mente.
Affermare che sia possibile osservare la mente e da questa emanciparsi è il gioco della mente che intrattiene sé stessa credendo reali le sue stesse proiezioni a tal punto da convincersi di dover da quest'ultime distaccarsene. È il cane che si morde la coda. Ridicolo se non tragico. Tragico nel senso che può impegnare una vita intera.
Ora la pratica consiste non nell'estroflettere l'attenzione sul dato di osservazione come vanno raccontando con partecipata immedesimazione nei circoli spirituali, alimentando così l'illusorio senso di separazione allontanandoti dalla tua vera essenza non duale, ma nell'introflettere l'attenzione e dirigerla alla sua sorgente nell'esatto punto in cui il Principio differenziatore si origina.
In tal senso la mente si può definire come attenzione focalizzata sugli oggetti che con la sua estroversione apparentemente crea, ed in virtù della loro interdipendenza, all'oggetto corrisponde sempre un soggetto il quale trae da questa relazione il proprio sostentamento. Nell'invertire il flusso dell'attenzione ponendolo sul soggetto invece, quest'ultimo perde vigore dal momento che l’associazione all'oggetto viene meno. In questo processo di riassorbimento dell'attenzione alla sua sorgente, l'oggetto svanisce dalla sfera coscienziale ed il soggetto recede fino a scomparire e la mente che si era “sostanziata” da questi due termini si dissolve. Ciò che rimane è il sostrato incontaminato dell’Essere uno ed indiviso su cui questa allucinazione proiettiva (rajas) e velante (tamas) dei due termini si era sovrapposto. Questo sostrato (sat) essendo a questo punto non più perturbato dalla presenza proiettiva della mente (satva), agisce come superficie riflettente della presenza radiante della consapevolezza (cit), e nella pura contemplazione (ananda) di tale riflesso si perviene alla reale visione di quello che giace al di là delle condizioni di veglia, sogno e sonno, in altre parole giungi finalmente a conoscere te stesso nella tua pienezza ed espressione realizzando il Brahman nella sua totalità trascendente ed immanente (sat cit ananda).
In sintesi, la tendenza abitudinaria (vasana) che agisce da corpo causale alla base della proiezione mentale avvertibile dalla presenza, a volte incessante, del chiacchiericcio interno è il seguente:
1) Ignori di essere l’impersonale, l’immutabile, l’illimitata e ordinaria Coscienza (Brahman) non nata, non agente e non duale, e a causa di questa ignoranza (tamas), immagini (rajas) di essere ciò che in realtà non sei.
2) La rappresentazione mentale derivante genera l’apparente alterità che ci sia qualcos’altro oltre a te, che sia universo, persona o cosa, inclusa la mente stessa.
3) Pertanto il credere (satva) al rapporto duale di soggetto-oggetto, tu e l’altro che questa proiezione mentale comporta, costituisce l'elemento fondante a sostegno dell'intero spettacolo a cui segue l'identificazione con l’oggetto proiettato e l'inevitabile comparsa dell'ego-sperimentatore sul palcoscenico della vita (jiva).
Il credere infatti, cioè prendere per vero il proprio immaginario, è quell'elemento che conferisce alla proiezione mentale realtà che è pertinente all'Essere, grazie al quale la dualità soggetto-oggetto si sostiene e si alimenta. L'Essere, il verbo in assenza di sostantivi è la verità, ciò che è e non può essere negato a differenza dei concetti sostenuti dall'opinione come per esempio l'esistenza di Dio, del karma o delle vite passate. Tutto quello che sappiamo con fermezza è che “sono” e che “so” di essere. Che io esisto, sono, e so di essere, che sono aspetti inscindibili dello stesso principio (Brahman), non possiamo assolutamente negarlo essendo l'unica certezza della nostra esperienza che non è un concetto. Nella triade testimone-testimoniare-testimoniato, di reale nella nostra diretta esperienza c'è solo il Verbo, il testimoniare. Gli altri due sono i sostantivi di nome e forma che utilizziamo per rappresentarci in un contesto duale l'esperienza del Verbo.
Il Verbo è la totalità vibratoria dell'Essere a diversi livelli di condensazione ed espressione, dal più sottile al più grossolano che, in associazione alla proiezione mentale (maya), vengono espressi come attributi (guna) di intelligenza (satva), energia (rajas) e materia (tamas) che contraddistinguono il creatore e la creazione (Brahman saguna). La mancata conoscenza (avidya) del processo mentale coinvolto invece, conduce all'identificazione da parte del soggetto con l'oggetto proiettato generando l'apparente entità separata ed indipendente (jiva). La chiara visione del processo mentale coinvolto costituisce pertanto la conoscenza risolutiva (jnana) dall'ignoranza.
In altre parole rajas è il potere proiettivo del soggetto e dell’oggetto che costituisce la maya che risulta in Io sono ed il “quello” (gli oggetti della percezione) distinto da me, il Brahman saguna. Tamas è il potere velante dell’identificazione del soggetto con l’oggetto che costituisce l’avidya che risulta in Io sono questo, il jiva. Satva invece è il potere rivelante il sostrato che emerge dalla disattivazione del principio differenziatore che conduce al Sono, il Brahman nirguna.
Nel contesto storico delle tradizioni spirituali, il Buddismo per esempio tende a privilegiare l'aspetto legato all’esperienza, cioè il raggiungimento di uno stato di non mente (nirvana) attraverso pratiche tipiche dello yoga, mentre l'induismo nella fattispecie l’Advaita Vedanta privilegia la conoscenza, la sola che può dissipare l'ignoranza. L'una si basa sullo sforzo e sul mantenimento di quello stato illuminato, mentre l'altro risolve il problema della mente alla radice, asserendo la sua vacuità e stabilendo a priori che l'Essere è già realizzato. Da questa prospettiva è soltanto l'ignoranza ad essere d'ostacolo. Il serpente (mente) della classica metafora sovrapposta alla corda (Essere) è sempre la corda che ha assunto apparentemente una specifica conformazione, e una volta svelato l'inganno tramite la conoscenza, il serpente svanisce come nebbia al sole, scoprendo che in verità non è mai esistito.
Se siamo interessati a svolgere una indagine sulla natura dell'esperienza, il consiglio è quello di sbarazzarci di tutto ciò che abbiamo letto e appreso che fa parte del nostro retaggio culturale, azzerare tutto e partire da ciò che possiamo essere assolutamente certi qui e ora, senza appoggiarci a considerazioni, inferenze, opinioni espresse nel passato. Dal momento che tutta la conoscenza accumulata è una forma di ignoranza istruita, ci conviene fare tabula rasa su tutto, e svolgere questa indagine attenendoci strettamente a ciò che è presente nella nostra esperienza adesso.
Pertanto dobbiamo partire con qualcosa di cui siamo assolutamente certi. Di che cosa siamo assolutamente certi? Ovvio, che c'è l'esperienza. Stanotte ho dormito come un ghiro (sonno). La notte precedente ho avuto un incubo terribile (sogno). Oggi è una giornata stupenda (veglia). Ecco, non sappiamo di che cosa si tratta, potrebbe benissimo trattarsi di una allucinazione. Non lo sappiamo. Ma sappiamo che “qualcosa” abbiamo sperimentato o che stiamo sperimentando. Sappiamo che c'è l'esperienza. Costante nella sua espressione, indipendente da ciò che le proiezioni mentali ci raccontano (maya).
L'esperienza è, ha esistenza, essere (sat). Siamo assolutamente certi che qualcosa è. Di che cos'altro potremmo essere certi? Bé, ci sarebbe “qualcos'altro” di cui essere certi. Difatti come possiamo essere così certi che c'è l'esperienza, l'esistenza, l'essere? Semplicemente perché l'essere (sat) è conosciuto (cit). La ragione per la quale puoi dire che c'è l'essere è perché lo sai, lo conosci. Altrimenti se non fosse conosciuto o sperimentato non potresti asserirlo. Pertanto c'è l'esperienza e la conoscenza di tale esperienza.
La conoscenza è, ha esistenza, essere (cit). Come vedi entrambi condividono l'esistenza, sono aspetti indissolubili dello stesso esistere (ananda). L'esistenza che appartiene a questo conoscere e l'esperienza che sappiamo esistere.
È ciò che definiamo Brahman. Oltre a questo Brahman, a questa realtà, che cosa c'è che conosci con assoluta certezza? Niente? Bene. Ora vai direttamente a questa esperienza del conoscere (cit) il tuo essere (sat) e dimmi se riscontri alcun limite? Nessuno? Bene. Ora chiediti, senza appoggiarti alla mente che di questa esperienza non ne sa nulla ma spesso viene chiamata in causa con le sue inferenze, se hai mai sperimentato l'assenza di essere? Lo sto chiedendo a te, consapevolezza. Sei mai sparito? Hai mai sperimentato la tua assenza? E se fosse possibile, chi l'avrebbe sperimentato?
Ovviamente, se associamo la nostra vera identità all'apparato psicosomatico che appare e scompare, l'esperienza che ne risulta sarà falsata da un vizio di forma inerente a tale identificazione. Da ciò derivano concetti surreali come “sono nato ed un giorno morirò” e castronerie del genere.
Eppure è da questa associazione con il corpo-mente, da questa prospettiva allucinata, che siamo portati a ritenere l'intima, ordinaria e costante esperienza del conoscere il proprio essere, come un avvenimento eccezionale tale da scomodare illustri e sapienti saggi per averne una descrizione sommaria. In altre parole conosco me stesso, attraverso me stesso perché sono (indubbiamente) me stesso.
Questa è in sintesi la parabola della consapevolezza al mattino quando ci svegliamo: Sono, ...vengo a sapere che Io Sono....questo, un individuo nel mondo:
differenziarsi e vedersi altro da sé.
1. La mente per quanto una ed indistinta nella sua essenza, manifestandosi appare scissa in soggetto ed oggetto in contrapposizione, alimentando così l'illusorio senso di separazione ed il conseguente conflitto d'identità derivante dall'immedesimazione del soggetto osservante con l'oggetto osservato, poiché pensarsi ciò che non si è genera sofferenza.
2. Questa apparente dualità in quanto effetto del moto proiettivo della mente, ha il potere di velare la sottostante realtà indifferenziata della stessa, favorendo in questo modo la fallace esperienza della percezione e quindi contribuendo alle relative ideazioni di nome e forma che nell'insieme vanno a generare ciò che i saggi indicano con la parola Maya, semplice fenomeno immaginario.
3. Il mondo dei nomi e delle forme che così nella sua molteplicità espressiva giunge in esistenza sussiste fino a che, grazie al risveglio, il moto pensativo e le percezioni inerenti non si riassorbono del tutto consentendo alla verace natura del sostrato di emergere e di palesarsi in quanto Brahman, l'Assoluto incondizionato.
4. Dalla prospettiva del Brahman invece, ogni eventuale proiezione mentale che possa spontaneamente sorgere e sovrapporsi viene dissolta per quello che è veramente: Brahman, l'Uno senza secondo, ed in ciò si cela se viene colto, il segreto del risveglio.
Brahman soltanto è reale. Credere che ci possa essere qualcos'altro al di fuori di Brahman (sat cit ananda), è pura ignoranza. Questa ignoranza è la causa di ogni possibile pena. Ma l'ignoranza non è reale. Infatti, ogni insegnamento e ogni pratica spirituale (sadhana) si occupa soltanto di attività di sogno che, in ultima analisi, sono solo macchinazioni mentali illusorie. In verità, ogni essere è già libero e per sempre rimane libero, pari a Brahman sotto qualsiasi aspetto e in alcun modo diverso. Non c'è né schiavitù né ignoranza che deve essere rimosso, o che può essere rimosso con la pratica spirituale. Ogni insegnamento e ogni pratica spirituale è solo uno sforzo che avviene in un sogno proprio come bere l'acqua del sogno per spegnere la sete nel sogno. Il suo scopo all'interno del sogno è quello di rimuovere la nozione errata che ossessiona il personaggio di sogno, cioè che egli è qualcosa di diverso dall'eternamente puro e immutabile Brahman. La pratica spirituale lo libera dall'idea ipnotica che ci possa essere qualcos'altro al di fuori del Brahman, che ci possa essere un mondo o degli individui che sono reali. Ma individui separati non sono reali e mai lo sono stati. Tutti gli sforzi e gli insegnamenti all'interno del sogno hanno valore relativo solo per gli esseri relativi. Non hanno alcun valore reale nella Verità, perché l'eternamente libero Atman (il vero Sé) non è influenzato da alcuno sforzo che avviene nel sogno da parte di un personaggio illusorio convinto che attraverso lo sforzo egli possa appunto, trascendere il sogno stesso. Insieme al risveglio, quando accade all'interno di un sogno di risveglio, la storia assume l'aspetto di una consapevolezza spirituale e sforzo spirituale. In un tale sogno, il risveglio e la pratica spirituale sono legati vicendevolmente, con quest’ultima che sembra essere la causa del risveglio. Ma in realtà non c'è un tale collegamento, perché queste attività non hanno alcuna esistenza reale e pertanto nulla sta veramente accadendo. Soltanto che nella storia che appare nel sogno, l'elevato sforzo e consapevolezza esercitato dall'individuo sembra essere la causa del risveglio. Ma, sebbene la pratica e il risveglio sembrano correlate, sono molto simili al posarsi di un corvo su una palma nel momento in cui una noce di cocco si stacca e cade. Non vi è alcun nesso di causalità tra di loro. Si tratta di eventi casuali all'interno di una storia illusoria, che appaiono essere causalmente correlate. In realtà né la pratica né il risveglio hanno alcun effetto o un qualsiasi significato. C'è da sempre soltanto un senso a tutto, e questo è Brahman. La Realtà non ha nulla a che fare con sogni di risveglio, o di individui e delle loro esperienze, o di un mondo in cui essi esistono separati da Brahman. La Realtà è lo stesso Brahman soltanto. Non c'è nient'altro. Brahman non è la causa di nulla. Egli non crea. Non trasforma sé stesso in irrealtà. Non diventa qualcos'altro. È da sempre tutto ciò che c'è. I sogni illusori possono manifestarsi per un momento, apparire e scomparire come nuvole passeggere. Puoi credere che tu sia un individuo e che tu e gli altri abitate un mondo che si estende intorno. Ma questo è un totale inganno. Non può essere. Tutto quello che c'è è Brahman e Brahman soltanto. Egli da solo è ciò che tu sei. È l'unico Sé, l'Atman, che è un’altro nome per Brahman e pertanto esattamente come Brahman. L'Atman non ha nulla a che fare con gli individui, corpi, menti, o circostanze. È te stesso, il vero te stesso. Non puoi non esserlo. Non puoi essere qualcos'altro. Non sei mai nato. Non morirai mai. Rimani come Brahman soltanto. Immodificato. Immutabile. E questo è tutto ciò che c'è. Da sempre.