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riflessione su aham e ahaṃkāra

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cielo
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riflessione su aham e ahaṃkāra

Messaggio da cielo » 21/03/2023, 8:50

Nel discorso del 9 ottobre 1997 Sai Baba spiega in modo chiaro lo scaturire del senso dell'io ahaṃkāra (sono questo e quello) dall'Io o aham (io sono), quale forma sottile dell'ātma, o supremo Sè che è, per così dire, il substrato della manifestazione di un ente nel duale, riconosciuto con nome e forma. Ciò che diviene (il senso dell'io) non è l'Essere (ciò che sono).

Evidenzia come parole come aham, Dio, Coscienza e ātma siano tutti sinonimi. Occorre pertanto disidentificarsi dal senso dell'io, strumento dell'incarnazione o ente che siamo.

Comprendere correttamente l'"Io", domandarsi: “chi sono io?", è la porta per la conoscenza del sé, per essere ciò che si è.
Sperimentare che il senso dell'io nasce con la divisione di ciò che è unito, che in essenza ciò che sono è ātma, pura coscienza costante e indivisa, anche se non lo so e aderisco al senso dell'io (sono nome e forma).

Tutto questo a ricordarci, in un modo o nell'altro, che non siamo altro che attori in uno spettacolo, al pari di tutti gli altri attori e che nel contempo siamo spettatori degli eventi del divenire-mondo a cui la nostra mente dedica attenzione, esteriorizzandosi.
Eppure la vita ci chiede non solo di essere gli attori che entrano ed escono dalla scena (a sorpresa) identificati da nome-forma, ma di indossare, sovrapponendoli al nudo nome-forma, gli abiti corretti per interpretare i diversi ruoli che la vita-il copione, ci chiede di svolgere, interpretando correttamente la nostra "parte".

Su questo “interpretare correttamente la propria parte” sorgono domande; se come attore protesto nello svolgere la mia parte, o non ho capito come recitarla, sono un pessimo attore, oppure se la interpreto troppo appassionatamente fino a dimenticarmi di essere un attore, sarà drammatico uscire di scena, non solo definitivamente (abbandonando la forma), ma anche ogni volta che dovrò cambiare scena e i partner con cui ho recitato.

Chiaramente anche come spettatore, osservatore della scena recitata da altro attore, potrei avere delle problematiche, identificandomi e sostituendomi all'attore recitante o cercando di prepararmi alla mia scena successiva immaginando le battute altrui o peggio, cercando di cambiare il copione.
Quello è il ruolo del regista.
In ogni caso sorgono problematiche, la mente si intrattiene con troppi pensieri e giudica le performances, cominciando da sé stessi quando si ritiene di aver sbagliato copione.

Siamo divisi tra due ruoli: attori e spettatori. La mente recita e interpreta, ci mette del “suo", ma questi tipi di sentimenti della mente sono contro l'unità.
Finché continuerà a giocare il ruolo di “colui che agisce” l'ente sarà destinato a soffrire; finché la mente perdura in questo modo, l'ente non sarà libero, avrà aderito completamente al senso dell'io sono questo e quello e cercherà di pilotare gli eventi, schiantandosi con "l'ineluttabile": il karma maturato dà i suoi frutti, a prescindere perchè è connesso al frutto, all'incarnazione.
Perfino Ramana e Sai Baba lo subirono rompendosi il femore uno a causa di aver cercato di proteggere uno scoiattolo dai cani, l'altro causa saponetta dimenticata sul pavimento da uno studente volonteroso nel servizio di pulizia del bagno...

Per noi comparse semplici il copione è comunque accompagnato da istruzioni di base sul modo “corretto” per interpretare la nostra parte. In primis conosci te stesso, aderisci al ruolo quando necessario, indossalo con "onore" e recita la parte senza aspettarti nulla in cambio.
Compi una azione equanime, quella che rinuncia ai frutti dell'azione, ovvero più radicalmente che rinuncia al soggetto agente. L'attore resta consapevole durante e fino alla fine della scena. Svolge il suo ruolo, ma sa deporlo.

L'azione equanime è quella che si svolge da sè, non per i frutti, non per l'agente di azione, ma per suo equilibrio ed equanimità intrinseca. L'azione che non ha azione (intesa come agente di azione) l'azione libera dall'agente, dalle motivazioni, dai fini e dagli scopi di un agente, l'azione che ha e trova il suo equilibrio in sé stessa e non fuori di se stessa.
L'azione che è libera e non necessitata dai frutti, dagli effetti (che si presuppone seguano la causa), senza causa, senza agente di azione, e quindi senza effetto presunto e supposto.

Personalmente, a conoscere me stessa mi ci perdo nelle scorie che affiorano alla visione dell'osservatore dello spettacolo, ad esempio ho scoperto che l'empatia nei confronti del prossimo è un'arma a doppio taglio.
Per questo mi esercito a osservare in modo imparziale lo spettacolo e soprattutto la mia mente che rabbrividisce a entrare in empatia con la parte recitata da altro attore. Una volta un mio amico si era tagliato un dito, mentre gli altri lo medicavano sono svenuta per aver vibrato col suo dolore fisico e spavento per il sangue. Così da soccorrere quel sabato sera ce ne furono due e fu una comica.

Il mondo ha la sua presenza e mi assorbe, mi porta fuori dall’introspezione.
Gli occhi fisici si possono chiudere per dormire, gli occhi interiori sembra che non si possano chiudere mai perché certe problematiche si ripropongono anche nei sogni a volte. La solita storia di sapere cosa attenzionare di sé stessi mentre si è dentro un sogno terrificante: presenza, chi sono? chi sta sognando? torna al vegliante, testimone del sogno.
A conoscere sè stessi gli occhi sono sempre aperti c'è sempre qualcosa da attenzionare che prima si era trascurato, solo nel sonno profondo la presenza si allarga al puro “sono”: una vibrazione che continua come nota del grande Suono in Essere.

Nei momenti depressivi spinti conforta solo il sapere che prima o poi il coinvolgimento nello spettacolo del mondo finirà, o con la morte o con il distacco totale dall'identificazione.
E nulla si può fare se non placare il flusso mentale

Le "problematiche", però, come mi faceva notare un amico, non sono degli occhi interiori (dell'osservatore), ma dell'attore identificato nella parte. Se c'è una problematica c'è una identificazione (da qualche parte, di qualche parte), quindi dualità, quindi divenire, quindi tempo\spazio, etc.
Non esiste una problematica se si è sia il soggetto che l'oggetto, sia l'aham che l'idam, ovvero l'osservatore, il Testimone.

L'osservatore non ha parti, non ha identificazione in parti contrapposte e quindi in problematiche, le problematiche si hanno solo se se si è parte e non l'intero.
Inoltre è da marcare con forza che la “problematica" è tale per chi la subisce e teme, per chi la osserva e impugna, non è problematica.
Per il senato romano era problematico accogliere possibili generali che avrebbero potuto sovvertire lo stato in essere delle cose del momento, ma per il generale che avesse mai voluto sovvertire lo stato della repubblica e insediare una tirannia in suo nome e potere non era certo problematico l’evento.
Le problematiche sono parti di dualità interfacciate, vivono grazie alla mente che le crea tramite il famoso gioco di attrazione-repulsione che la incatena e la lega col filo dei desideri.

La "problematica" è un timore, una paura, un dolore possibile e incipiente, sempre per chi lo subisce, per la parte che veste quel ruolo di subirlo e temerlo.
Esperienza condivisa sono le notti insonni ad aspettare di sentire la chiave girare e il figlio o figlia che rientra a casa "sano e salvo" il sabato sera, ops, la domenica mattina (ora del caffè).
Cos’è? Empatia o l’angoscia di morte che si risveglia aderendo completamente a una scena (potenzialmente) drammatica di un film che scorre altrove e in cui “io” non sono parte? Una serie televisiva di cui si aspetta con ansiosa curiosità l’ultima puntata?

Finchè si sta nei ruoli si sta nel divenire con tutte le sue problematiche annesse e connesse, per tutte le parti in gioco.

Forse la chiave è proprio quel passaggio di riconoscimento del sorgere del senso dell'io in noi, così da rimanere nel puro senso di esistere, come goccia attratta dal mare in cui si muove. Il mare è in me, anche se qui si nuota.

Hiroshige- Vortice di Naruto
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Fedro
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Re: riflessione su aham e ahaṃkāra

Messaggio da Fedro » 22/03/2023, 8:42

Purtroppo "le problematiche" come le hai giustamente chiamate tu, sono sempre dell'attore.
L'attore è sempre quell'illusorio protagonista dei giochi, che spera di poter, cambiando di ruolo, riflettettendo sulla dinamica di ciò che non è cercare di porsi al comando dello spettacolo, come fosse un regista che dirige se stesso...
È invece un vero cambio di paradigma che, se accade, ha un suo senso diretto e reale, ovvero porsi alle spalle di qualsiasi soggetto esteriore, o in altre parole "un atto di consapevolezza" a alcun soggetto agente inscrivibile.
Anche il credersi non agenti è comunque nell'ambito del credersi, quindi il gioco è sempre aldi fuori dei nostri pensieri: poiché non si può raggiungere ciò che già si è, si può solo smettere di credere ciò che non si è, diceva Bodhananda

cielo
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Re: riflessione su aham e ahaṃkāra

Messaggio da cielo » 26/03/2023, 9:47

Fedro ha scritto:
22/03/2023, 8:42
Purtroppo "le problematiche" come le hai giustamente chiamate tu, sono sempre dell'attore.
L'attore è sempre quell'illusorio protagonista dei giochi, che spera di poter, cambiando di ruolo, riflettettendo sulla dinamica di ciò che non è cercare di porsi al comando dello spettacolo, come fosse un regista che dirige se stesso...
È invece un vero cambio di paradigma che, se accade, ha un suo senso diretto e reale, ovvero porsi alle spalle di qualsiasi soggetto esteriore, o in altre parole "un atto di consapevolezza" a alcun soggetto agente inscrivibile.
Anche il credersi non agenti è comunque nell'ambito del credersi, quindi il gioco è sempre aldi fuori dei nostri pensieri: poiché non si può raggiungere ciò che già si è, si può solo smettere di credere ciò che non si è, diceva Bodhananda
Un vero cambio di paradigma, dici, capire che è un gioco sempre al di fuori dei propri pensieri....

Eppure il gioco è sempre nell'ambito dei propri pensieri. Siamo noi che crediamo, ci illudiamo di essere fuori dal gioco, ci sosteniamo con la certezza che sia possibile tirarsene fuori.

Tirarsene fuori è certamente l'obiettivo, il goal, proprio quel porsi alle spalle di qualsiasi soggetto esteriore, o in altre parole "un atto di consapevolezza" ad alcun soggetto agente inscrivibile.
Giusto! Per usare una metafora calcistica, vediamo la porta, ma per fare goal, ci tocca prendere il pallone, scartare gli ostacoli e tirare in porta, schivando il portiere.
Uno scherzetto. Ognuno è goleador sul proprio campo di pallone, ma le regole sono condivise e non sempre i finali delle partite o dei film corrispondono ai nostri copioni.

Teniamo conto di alcuni intoppi però, proprio perchè sappiamo, per esperienza personale di ognuno, che "le problematiche" sono sempre dell'attore identificato nella parte fino a dimenticarsi di essere anche spettatore.

Ciò che "io" vedo, sento, tocco è una proiezione della mente manasica, quel polipo che va con i suoi tentacoli a tastare l'esterno, che, mentre nuota, percepisce il mondo, lo odora, lo gusta, lo divora e poi lo espelle.
Mollare la presa dei tentacoli, arretrare, stringere i tentacoli a sè.
Trattenere la mente manasica, farla rientrare,calmare i suoi vortici, le sue infinite pieghe. Deviare l'attenzione e introvertirla sul "battito" all'interno della sacca del polipo.

La consapevolezza del film prodotto dalla mia mente, è un passo nella "giusta" direzione.

Eppure la realtà empirica è un film che esiste a prescindere dalla "mia" mente manasica e dalle "mie" sovrapposizioni e proiezioni (figlie del desiderio e nipoti della maya- avidyā di sostanza universale e individuale).

L'errore è credere che il proprio film sia il film di tutti, non accettare che a qualcuno la nostra trama e i nostri finali, farà sorridere o dormire, oppure salire gli zuccheri all'inverosimile.

Decidere che la nostra trama sia vera, che l'illusione dello spettacolo manasico che crediamo "vera per noi" sia una cosa che vale per tutti gli esseri senzienti è ignoranza.
Acquisita la consapevolezza di essere contemporanemente attori e spettatori del film, occorre vedere anche quel desiderio profondo di essere i registi.
Ma lo siamo solo riguardo al film che scorre nella nosra testa, e non dimenticando di essere attori per qualcun altro, una insignificante comparsa nel film di qualcuno che mi incontra sul cammino. Un fotogramma tra i tanti montato e passato, svanito nell'etere.

Quindi? Che si fa?
Diceva anni fa un mio amico che: "Ciò per cui gli esseri umani lottano, gioiscono, uccidono sembra un vecchio film sfocato.". Vero, oggi di più di dieci anni fa. Mi sento spesso uno spettatore legato alla poltrona per tenerlo fermo a guardare certi sceneggiati.

Ognuno vorebbe indovinare cosa nasconde il telo bianco mentre si percepisce l'esistenza dei fotogrammi che scorrono a prescindere.
Ma viene voglia di cambiare il montaggio, intervenire sul film.
Così la mente manasica sogna e programma, facendo scorribande nel tempo, avanti e indietro e di nuovo avanti con una trama rivista dal saggio regista.

Ma la tecnica del cinema ci insegna che i quadri evento sono dei fotogrammi in cui immagini ferme, proposte una dietro l'altra in senso orario, danno l'illusione del divenire. Cartoni animati, per l'appunto. Dura da accettare di non poter influire sull'andamento della trama a parte quella goccia d'acqua che il colibrì volonteroso porta nel becco per contribuire a spegnere l'incendio nella foresta.

L'inquadratura è lo spazio,il susseguirsi delle azioni avviene nel tempo. Tempo, spazio e causalità: il film e la sua trama.

Siamo esseri fluidi che scorrono tra fotogrammi pensiero. Lo yoga (teso a riunire ciò che è separato e a prendere coscienza dei vortici dei pensieri che danno vita ai singoli fotogrammi e alle loro concatenazioni) ci suggerisce di provare a porsi tra un fotogramma e l'altro, tra un pensiero e l'altro.
Ciò potrebbe consentire la visione del Reale: lo schermo.

Osservare senza aderire.

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Fedro
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Re: riflessione su aham e ahaṃkāra

Messaggio da Fedro » 26/03/2023, 11:26

Sinquando si crede che sia un gioco che la mente stessa elabora questo pensiero, quindi con la stessa uscirne fuori... non può che essere lo stesso psradigma a ragionarci e restarne intrappolato: questo cercavo di dire.
La famosa frase zen: l'oca è fuori, mentre la domanda della mente ci fornisce l'oca dentro la boccia che non sa come uscirne, dimostra proprio questo e cioè che, sinquando useremo lo stesso strumento o soggetto che intendiamo vincere, non faremo un solo passo, con l'unica sensazione amara della sconfitta.
Meglio prendere atto di questo ovviamente, piuttosto che immaginarci cosa fare per uscirne.
Stare in ciò che c'è, mi è stato indicato, molto semplicemente, senza giochi o strategie da effettuare, e se il click della consapevolezza di inserisce, la direzione si inverte, la visione arretra e non sta più nell'occhio dentro il cranio, ma vede oltre ciò quei giochi che si combattono. Dunque non c'è alcunché da fare perché codesti giochi cambino, o meglio vengano visti per quello che sono o a quale fittizio soggetto siano riferiti.
Meglio una vera sconfitta che una falsa inutile vittoria.
E la sconfitta è il vedersi dentro la boccia e dibattersi per uscirne. Meglio arrendersi e morire!
Non c'è nulla da fare per quell'oca lì...deve affogare nel suo falso ossigeno senza continuare a dibattersi o cercare alibi fittizi.
Se vuole Vivere deve soltanto morire!

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