Evidenzia come parole come aham, Dio, Coscienza e ātma siano tutti sinonimi. Occorre pertanto disidentificarsi dal senso dell'io, strumento dell'incarnazione o ente che siamo.
Comprendere correttamente l'"Io", domandarsi: “chi sono io?", è la porta per la conoscenza del sé, per essere ciò che si è.
Sperimentare che il senso dell'io nasce con la divisione di ciò che è unito, che in essenza ciò che sono è ātma, pura coscienza costante e indivisa, anche se non lo so e aderisco al senso dell'io (sono nome e forma).
Tutto questo a ricordarci, in un modo o nell'altro, che non siamo altro che attori in uno spettacolo, al pari di tutti gli altri attori e che nel contempo siamo spettatori degli eventi del divenire-mondo a cui la nostra mente dedica attenzione, esteriorizzandosi.
Eppure la vita ci chiede non solo di essere gli attori che entrano ed escono dalla scena (a sorpresa) identificati da nome-forma, ma di indossare, sovrapponendoli al nudo nome-forma, gli abiti corretti per interpretare i diversi ruoli che la vita-il copione, ci chiede di svolgere, interpretando correttamente la nostra "parte".
Su questo “interpretare correttamente la propria parte” sorgono domande; se come attore protesto nello svolgere la mia parte, o non ho capito come recitarla, sono un pessimo attore, oppure se la interpreto troppo appassionatamente fino a dimenticarmi di essere un attore, sarà drammatico uscire di scena, non solo definitivamente (abbandonando la forma), ma anche ogni volta che dovrò cambiare scena e i partner con cui ho recitato.
Chiaramente anche come spettatore, osservatore della scena recitata da altro attore, potrei avere delle problematiche, identificandomi e sostituendomi all'attore recitante o cercando di prepararmi alla mia scena successiva immaginando le battute altrui o peggio, cercando di cambiare il copione.
Quello è il ruolo del regista.
In ogni caso sorgono problematiche, la mente si intrattiene con troppi pensieri e giudica le performances, cominciando da sé stessi quando si ritiene di aver sbagliato copione.
Siamo divisi tra due ruoli: attori e spettatori. La mente recita e interpreta, ci mette del “suo", ma questi tipi di sentimenti della mente sono contro l'unità.
Finché continuerà a giocare il ruolo di “colui che agisce” l'ente sarà destinato a soffrire; finché la mente perdura in questo modo, l'ente non sarà libero, avrà aderito completamente al senso dell'io sono questo e quello e cercherà di pilotare gli eventi, schiantandosi con "l'ineluttabile": il karma maturato dà i suoi frutti, a prescindere perchè è connesso al frutto, all'incarnazione.
Perfino Ramana e Sai Baba lo subirono rompendosi il femore uno a causa di aver cercato di proteggere uno scoiattolo dai cani, l'altro causa saponetta dimenticata sul pavimento da uno studente volonteroso nel servizio di pulizia del bagno...
Per noi comparse semplici il copione è comunque accompagnato da istruzioni di base sul modo “corretto” per interpretare la nostra parte. In primis conosci te stesso, aderisci al ruolo quando necessario, indossalo con "onore" e recita la parte senza aspettarti nulla in cambio.
Compi una azione equanime, quella che rinuncia ai frutti dell'azione, ovvero più radicalmente che rinuncia al soggetto agente. L'attore resta consapevole durante e fino alla fine della scena. Svolge il suo ruolo, ma sa deporlo.
L'azione equanime è quella che si svolge da sè, non per i frutti, non per l'agente di azione, ma per suo equilibrio ed equanimità intrinseca. L'azione che non ha azione (intesa come agente di azione) l'azione libera dall'agente, dalle motivazioni, dai fini e dagli scopi di un agente, l'azione che ha e trova il suo equilibrio in sé stessa e non fuori di se stessa.
L'azione che è libera e non necessitata dai frutti, dagli effetti (che si presuppone seguano la causa), senza causa, senza agente di azione, e quindi senza effetto presunto e supposto.
Personalmente, a conoscere me stessa mi ci perdo nelle scorie che affiorano alla visione dell'osservatore dello spettacolo, ad esempio ho scoperto che l'empatia nei confronti del prossimo è un'arma a doppio taglio.
Per questo mi esercito a osservare in modo imparziale lo spettacolo e soprattutto la mia mente che rabbrividisce a entrare in empatia con la parte recitata da altro attore. Una volta un mio amico si era tagliato un dito, mentre gli altri lo medicavano sono svenuta per aver vibrato col suo dolore fisico e spavento per il sangue. Così da soccorrere quel sabato sera ce ne furono due e fu una comica.
Il mondo ha la sua presenza e mi assorbe, mi porta fuori dall’introspezione.
Gli occhi fisici si possono chiudere per dormire, gli occhi interiori sembra che non si possano chiudere mai perché certe problematiche si ripropongono anche nei sogni a volte. La solita storia di sapere cosa attenzionare di sé stessi mentre si è dentro un sogno terrificante: presenza, chi sono? chi sta sognando? torna al vegliante, testimone del sogno.
A conoscere sè stessi gli occhi sono sempre aperti c'è sempre qualcosa da attenzionare che prima si era trascurato, solo nel sonno profondo la presenza si allarga al puro “sono”: una vibrazione che continua come nota del grande Suono in Essere.
Nei momenti depressivi spinti conforta solo il sapere che prima o poi il coinvolgimento nello spettacolo del mondo finirà, o con la morte o con il distacco totale dall'identificazione.
E nulla si può fare se non placare il flusso mentale
Le "problematiche", però, come mi faceva notare un amico, non sono degli occhi interiori (dell'osservatore), ma dell'attore identificato nella parte. Se c'è una problematica c'è una identificazione (da qualche parte, di qualche parte), quindi dualità, quindi divenire, quindi tempo\spazio, etc.
Non esiste una problematica se si è sia il soggetto che l'oggetto, sia l'aham che l'idam, ovvero l'osservatore, il Testimone.
L'osservatore non ha parti, non ha identificazione in parti contrapposte e quindi in problematiche, le problematiche si hanno solo se se si è parte e non l'intero.
Inoltre è da marcare con forza che la “problematica" è tale per chi la subisce e teme, per chi la osserva e impugna, non è problematica.
Per il senato romano era problematico accogliere possibili generali che avrebbero potuto sovvertire lo stato in essere delle cose del momento, ma per il generale che avesse mai voluto sovvertire lo stato della repubblica e insediare una tirannia in suo nome e potere non era certo problematico l’evento.
Le problematiche sono parti di dualità interfacciate, vivono grazie alla mente che le crea tramite il famoso gioco di attrazione-repulsione che la incatena e la lega col filo dei desideri.
La "problematica" è un timore, una paura, un dolore possibile e incipiente, sempre per chi lo subisce, per la parte che veste quel ruolo di subirlo e temerlo.
Esperienza condivisa sono le notti insonni ad aspettare di sentire la chiave girare e il figlio o figlia che rientra a casa "sano e salvo" il sabato sera, ops, la domenica mattina (ora del caffè).
Cos’è? Empatia o l’angoscia di morte che si risveglia aderendo completamente a una scena (potenzialmente) drammatica di un film che scorre altrove e in cui “io” non sono parte? Una serie televisiva di cui si aspetta con ansiosa curiosità l’ultima puntata?
Finchè si sta nei ruoli si sta nel divenire con tutte le sue problematiche annesse e connesse, per tutte le parti in gioco.
Forse la chiave è proprio quel passaggio di riconoscimento del sorgere del senso dell'io in noi, così da rimanere nel puro senso di esistere, come goccia attratta dal mare in cui si muove. Il mare è in me, anche se qui si nuota.
Hiroshige- Vortice di Naruto
