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Un mito dal “Mārkaṇḍeya-purāṇa” (adhyāya 81-93)

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seva
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Un mito dal “Mārkaṇḍeya-purāṇa” (adhyāya 81-93)

Messaggio da seva » 08/12/2020, 10:14

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Nigra Sum: Il colore del Sacro nell’India

Alcuni stralci tratti da: Stefano Piano (Univ. di Torino), Il colore del Sacro: uno sguardo sull’Asia, in “Atti del Convegno Internazionale Nigra Sum. Culti, santuari e immagini delle Madonne Nere d’Europa”, Santuario e Sacro Monte di Oropa e di Crea, 20-22 maggio 2010, pp 55-64.

[...]

Per quanto riguarda l’amplissimo tema del colore, usato anche simbolicamente per individuare categorie della realtà, in India assistiamo veramente a un trionfo dei cromatismi più svariati. Si pensi a quella che Guy Deleury ha definito come una “umanità cromatica” con riferimento ai varṇa (categorie sociali funzionali) degli hindū e ai colori che li individuano (bianco per i brāhmaṇa, rosso per gli kṣatriya, giallo per i vaiśya e nero per gli śūdra), ai colori che ricoprono le pareti esterne dei templi e delle loro torri d’accesso (gopura), alle polveri della svariate spezie della cucina, a quelle che, con aggiunta di oli, si applicano sul volto delle persone, così come delle icone sacre nel corso della pūjā, e via dicendo.

In un simile contesto non deve stupire il fatto che si contempli anche una grande varietà di colori del divino: ed è sufficiente non solo uno sguardo alla ricchissima iconografia, specialmente pittorica e miniaturistica dell’India, ma anche – in parallelo – ai numerosi inni dei mille nomi delle diverse forme divine (sahasranāma-stotra), per farci convinti dell’evidenza di questa policromia del sacro.

Nell’ambito di questa realtà religiosa anche il colore nero trova il suo posto. Esso è spesso associato a singoli o gruppi di asura o dānava, o daitya, che sono figure demoniache, nemiche dell’ordine e del bene: fin qui non c’è nulla di strano, soprattutto se teniamo conto del fatto che il colore bianco rappresenta in India la luminosità, la limpidezza e la purezza.

Ma non si deve dimenticare che una della maggiori figure divine della ricca mitologia hindū ha un nome che significa, appunto, “nero”: si tratta di Kṛṣṇa [...], ottava “discesa terrena” (avatāra) di Viṣṇu, le cui vicende sono specialmente cantate nel Bhāgavata-purāṇa e il cui insegnamento è esposto nella Bhagavad-gītā, che è diventata un testo fondamentale per tutti gli hindū, quale che sia la loro iṣṭa-devatā (divinità d’elezione).

In particolare, con riferimento alla figura della Dea (chiamata Kālī nel suo aspetto “terrifico”), è bene ricordare che il nero (kāla) è il colore della terra fertile, ma occorre anche rilevare che la parola kāla – a causa di una coincidenza fonetica e grafica – significa parimenti “tempo”: il colore nero diventa quindi il colore specifico del tempo, con speciale riferimento al tempo della fine, della morte, del simbolico ritorno all’Uno. Le due parole finiscono per sovrapporsi, rendendo assai arduo per lo studioso discernere chiaramente a quale delle due si debba fare ogni volta riferimento. Il nero, dunque, indica di solito il momento della dissoluzione finale dell’universo, inteso come riassorbimento nell’uno indifferenziato. Il nome proprio Kāla, il Tempo (non solo Śiva, ma anche Kṛṣṇa nella Bhagavad-gītā, nel contesto della “visione di Viśvarūpa”, viśvarūpadarśana) trova un corrispettivo femminile nella figura divina di Kālī, che rappresenta l’aspetto terrifico della Devī, quello che solitamente ella assume ogni volta che si accinge a distruggere le forze del male.

Sarà opportuno, dunque, esaminare più da vicino la figura della Dea nella mitologia hindū, prendendo le mosse da quello che a buon diritto può essere considerato il testo fondamentale per quanto riguarda la sua origine, la sua mitologia e le caratteristiche fondanti del suo culto: si tratta del Devī-māhātmya “La magnificazione della Dea”, importante sezione di un testo notevolmente più ampio, il Mārkaṇḍeya-purāṇa (in 207 adhyāya o “letture”), del quale occupa gli adhyāya 81-93. [*] In questo testo si descrivono diverse imprese guerresche contro ogni sorta di esseri demoniaci, le quali hanno come protagonista una figura divina femminile, prodotta a tale scopo dagli Dei luminosi del cielo (deva). Vediamo come questo accadde, seguendo il testo sanscrito che abbiamo citato.

Il narratore, che all’occasione è il saggio (ṛṣi) Mārkaṇḍeya, racconta che in un tempo “antico” (purā) gli avversari (asura) degli Dei luminosi del cielo (deva) avevano completamente sovvertito l’ordine cosmico (dharma) e dominavano sul triplice mondo, dopo aver cacciato i deva dalla loro abituale dimora e averli costretti a vagare sulla terra; il loro capo, il possente Mahiṣa (Bufalo) governava al posto di Indra, il re del cielo. I trenta deva allora si rivolsero alle maggiori figure divine del ricco pantheon hindū, che sono al di sopra e al di là di deva e asura: Śiva e Viṣṇu. A causa della grande ira che i due provarono nell’udire quel racconto, dai loro volti infiammati di collera, e anche da quello di Brahmā, emanò una grande luce (sumahat tejas); il medesimo fulgore emanò anche dai corpi di ciascuno dei trenta deva a cominciare da Indra e tutta quella abbagliante luminosità si fuse in una sola (aikyam) massa di fuoco-luce, simile a una montagna fiammeggiante (jvalantam iva parvatam), capace di riempire tutte le direzioni dello spazio. E quella impareggiabile massa compatta di fuoco-luce si trasformò infine in una donna (tat tejaḥ [...] abhūn nārī) [Devī-māhātmya (DM) 2, 11-13].

La prima apparizione della Dea, quindi, la caratterizza come una gran massa di fuoco-luce, esattamente la condizione opposta a quella della tenebra, simbolicamente evocata dal colore nero. Il testo non lascia dubbi in proposito: la Dea, quindi, è senz’altro bianca, di un candore “senza macchia”, il suo volto è simile al disco della luna piena e risplende come l’oro [DM IV, 13]; ed è un fatto che, anche nelle raffigurazioni pittoriche che alludono a svariati episodi del racconto mitico di cui ci occupiamo, la Dea appare inequivocabilmente di colore bianco, mentre, per esempio, non solo Kṛṣṇa, ma in generale anche Viṣṇu, è sempre raffigurato di colore scuro, quasi sempre di un blu intenso.

A questo punto tutti i deva fanno dono alla Devī di tutte le armi migliori e Himālaya, in particolare, la dota anche di una sua cavalcatura (vāhana), il leone [DM II, 30]. La Devī allora fa risuonare una sua fragorosa risata (nanāda... hāsam) simile a quella di Śiva, che permea l’intero universo, facendo tremare e vacillare tutti i mondi. Pieni di gioia i deva le si rivolgono con un grido: “Vittoria!”. Anche i nemici dei deva sono scossi da questo frastuono e, guidato da esso, il demone Bufalo finalmente “vede” (dadarśa) la Dea e si accinge immediatamente ad affrontare la battaglia, che ben presto infuria ed è vissuta dalla Dea stessa quasi come un “gioco” divino.

[...]

Chiamata nel testo prima Ambikā e poi Caṇḍikā e Bhadrakālī, ella colpisce molti asura, facendone strage, e affronta infine il loro capo, Mahiṣa (il Bufalo), risoluta a ucciderlo: lo attacca con svariate armi, ma Mahiṣa sempre sfugge alla morte, diventando via via leone, uomo, elefante, poi di nuovo bufalo (DM III, 29-33), finché Caṇḍikā lo trafigge con la sua picca (śūla, DM III, 40), tagliando infine con la sua grande spada (mahāsi) la testa dell’asura vero e proprio uscito in forma umana dalle sua fauci spalancate (DM III, 42). Ampiamente elogiata con un inno dai deva, la Dea, qui chiamata ancora Bhadrakālī, promette loro che li proteggerà sempre e scompare.

È solo nel successivo episodio – collocato ancora una volta in un tempo mitico (purā), in cui sono due asura, Śumbha e Niśumbha, ad affliggere l’universo – che troviamo la prima allusione al colore nero dell’incarnato della Dea: il contesto narra che i deva, memori della sua promessa, cantano in suo onore un nuovo inno di lode, nel quale la chiamano Yoganidrā (con allusione al sonno profondo di Viṣṇu alla fine di ogni età del mondo), ma anche “nera” (Kṛṣṇā), “scura” (Dhumrā) [DM V, 14] e “di aspetto ombroso” (Chāyārūpā) [DM V, 21]. Proprio allora dal corpo di Pārvatī, che si era recata al fiume Gange (che è anch’esso una Dea, Gaṅgā) per bagnarsi, sorge un altro aspetto della Dea stessa, Śivā, la “Benefattrice”: per questo il corpo della montanina Pārvatī (detta anche Kauśikī e Ambikā) diventa scuro ed ella appare come “la Nera” (Kṛṣṇā), chiamata di conseguenza Kālikā (DM 5, 48).

Ella possiede una seducente bellezza e questo giunge alle orecchie di Śumbha, che, dopo aver sottratto ai deva ogni tesoro, sente di non poter fare a meno di quella “gemma di donna” (strīratna, DM V, 61), ma non sa che ella ha promesso che non sposerà se non colui che riuscirà a vincerla in combattimento. Ordina quindi di portargli con la forza quella donna, a costo di trascinarla per i capelli (DM VI, 5), ma Ambikā semplicemente si adira a tal punto che il suo volto diventa nero come l’inchiostro (asyā vadanaṃ maṣīvarṇam abhūt tadā): ella aggrotta le ciglia e dalla sua fronte emerge Kālī “dal volto terribile” (karālavadanā) [DM VII, 5-6], armata di spada e di laccio, adorna di una ghirlanda di crani, che uccide e getta nella propria bocca (mukhe cikṣepa, DM VII, 10) i nemici, dilaniandoli coi denti e facendoli a pezzi con svariate armi. Attaccata dai luogotenenti dei grandi asura, Caṇḍa e Muṇḍa, ella scoppia ancora in una fragorosa risata (jahāsa, DM VII, 19) e li uccide con la spada, invocata per questo, da allora in poi, col nome di Cāmuṇḍā (DM VII, 29).

In seguito Caṇḍikā non solo continua a fare strage delle numerose armate istigate contro di lei da Śumbha e Niśumbha, ma anche invia loro come ambasciatore addirittura Śiva, affinché sappiano che i deva devono recuperare il governo del triplice mondo, mentre accanto a lei, detta ora Śivadūtī “Colei che ha Śiva come ambasciatore”, continuano a combattere non solo le śakti (divine potenze) di tutti i deva, ma anche le “sette madri” (saptamātṛkā), in un’orgia di risate e di sangue. A nulla serve perfino la sovrumana, eccezionale potenza dell’asura Raktabīja, da ogni goccia del cui sangue emerge un altro asura di pari taglia e potenza, poiché Cāmuṇḍā, detta anche Kālī, ne beve infine il sangue fino a provocare la sua morte (DM VIII, 70).

Śumbha e Niśumbha, alla fine, sono costretti a lottare in prima persona con alterne vicende, ma Śivadūtī esplode ancora in una colossale risata (aṭṭāṭṭahāsam... cakāra) [DM IX, 23] e riprende una lotta furibonda, finché uccide Niśumbha, e anche la figura umana (puruṣa, DM IX, 35-36) che esce dal suo cuore aperto dalla picca della Dea.

Nel canto successivo Śumbha sfida la Dea a combattere da sola ed è allora che tutte le altre divinità femminili che hanno partecipato alla battaglia si fondono nel corpo di Ambikā, poiché non erano che altre forme della sua irradiante potenza (DM X, 6 e 10). Scoppia lo scontro a due: la Dea spezza tutte le armi dell’asura, poi lo finisce con la lancia ed egli cade infine, facendo tremare tutta la terra coi suoi mari, i suoi continenti e le sue montagne (DM X, 29), cosicché tutto l’universo, liberato finalmente da quel malvagio (durātman), torna a essere sereno e in pace (prasanna, DM X, 30). I deva innalzano ancora un inno di lode alla Dea, detta anche Tāmasī “la Tenebrosa” (DM XI, 24), che “è” tutti gli esseri (sarvabhūtā) e concede loro contemporaneamente “fruizione e liberazione” (bhuktimuktipradāyinī, DM XI, 8). Alla fine del medesimo adhyāya XI la Dea assicura tutti quanti che “rinascerà”, non diversamente da quanto fa Viṣṇu con i suoi avatāra [Bhagavad-gītā IV, 7-8], ogni volta che ancora si manifesteranno nell’universo le forze del male (DM XI, 42 e sgg.).

Abbiamo percorso insieme brevemente il mito della Devī, così come è narrato dal saggio Mārkaṇḍeya nel Devī-māhātmya, e abbiamo così potuto conoscere diversi aspetti della sua complessa simbologia e anche la funzione molto particolare che ha, fra essi, il colorito nero della sua pelle. Sembra quasi di poter concludere che l’anonimo autore del Devī-māhātmya abbia voluto in qualche modo farci intendere che, per uccidere un demone (asura), normalmente immaginato scuro di pelle (in quanto sintesi di tutta una serie di valutazioni negative della sua persona, a cominciare dall’opposizione vedica sat/asat) occorresse sì, una manifestazione straordinaria della divina potenza (śakti), individuata nella Dea, ma anche che la Dea stessa fosse, in quel frangente, “nera”, cioè momentaneamente privata del suo straordinario candore senza macchia alcuna (amala). L’incarnato scuro della Dea assume maggiore importanza col passare del tempo, tanto che, nelle raffigurazioni pittoriche più recenti, come quella che si trova nel tempio śaiva di Jambukeśvara, ella è raffigurata di colorito scuro anche nell’atto di uccidere il demone Bufalo.

[...]

[*] Nel presente saggio, per le citazioni testuali si farà riferimento alla seguente edizione con traduzione francese: Célébration de la Grande Déesse (Devī-māhātmya). Texte sanskrit traduit et commenté par Jean Varenne, Collection “Le monde indien”, Paris 1975.

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yati - forum pitagorico 15/04/2016

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