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La pratica del chiedere

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cielo
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La pratica del chiedere

Messaggio da cielo » 02/11/2016, 11:18

D. Capita spesso di accorgersi di stare sempre a chiedere e non dare praticamente mai.

D1. Mi fai venire in mente una frase "forte": "Attenti a ciò che desiderate, perchè potreste anche ottenerlo!" (Marion Zimmer Bradley)

R. Nel processo di osservazione, può accadere di notare come il pensiero non sempre sia stato espresso corrispondentemente, se non c'è piena padronanza dell'oggetto (pensiero) o del media (linguaggio).

Del pensiero, se non c'è la comprensione di sé, è difficile vedere ogni ramificazione, ogni implicazione. Mentre, una padronanza del linguaggio permetterebbe di conoscere e modulare le molteplici sfumature di possibile ascolto.

Lo si può verificare nei dialoghi ove gli interlocutori non intendono univocamente un medesimo dire. La causa può essere la mancanza di qualifiche (intelligenza, linguaggio, maturità, esperienza, umiltà, cognizione di sé) indifferentemente di chi espone o di chi ascolta.

Si dicono cose senza sapere di dirle, senza averle pensate, credendo di dirne altre.
Si ascoltano cose senza averle udite, solo avendole pensate, credendo di averne ascoltate altre.

La mancanza di qualificazioni è dovuta all'ignoranza metafisica, l'incapacità di fissare il Reale e comprendere il molteplice manifesto, interiore ed esteriore. La sovrapposizione del molteplice viene vista come reale e i moti interiori prevalgono sull'oggettivo accadere del sensibile. Si giunge credere reale qualcosa che è stato pensato: la credenza.

La credenza identifica l'ignoranza, ove fosse presente la conoscenza non sarebbe possibile la credenza. Parimenti la saggezza non ha credenze, ma "possiede" l'ignoranza: il saggio sa di non sapere; questo perché i più chiamano conoscenze l'insieme di credenze e inferenze comuni, acquisite non attraverso l'esperienza, ma attraverso il linguaggio. Si è già detto delle difficoltà dell'espressione del pensiero.

La credenza e l'inferenza quali necessità del progresso e dalle religioni, nonché nella speculazione di alcuni percorsi, quali non-conoscenza, vanno sostituite con la conoscenza, smettendo di affermare vero qualcosa, senza avere la contezza dei limiti, dell'accessorietà, delle implicazioni, etc. etc.

Occorre comprendere la catena causale che manifesta quella determinata credenza per risolverla.

"Il fuoco è luminoso". Questa credenza priva dell'esperienza del fuoco e quindi del suo bruciare e distruggere ciò che arde, potrebbe spingere ad accenderlo inopportunamente, causando un falò distruttivo in luogo della fruizione della sua bellezza o utilità.

Parimenti, per chiedere occorrerebbe la conoscenza dell'oggetto richiesto e del processo di richiesta, ma se lo si conoscesse, esso non verrebbe richiesto ed ecco che chiedendo ciò che non si conosce, in realtà si chiede altro.

Chiedendo altro, non solo è più difficile averlo, ma si rischia anche di averlo, ma non si avrà quanto si crede di aver richiesto... sarà altro.


D2: Il rischio è dunque l'avere, che quindi non è mai conoscenza?

R. Il rischio sono le conseguenze della non conoscenza, dell'ignoranza metafisica: adesione, sovrapposizione, etc. etc. Nuovi samskara, non risoluzione del processo causale.
D'altra parte perché chiedere qualcosa di diverso da ciò di cui si abbisogna? Se servono occhiali da sole, perché ordinare occhiali da vista?

D. Rispetto a quanto dici allora:
1) è meglio non chiedere?
2) o chiedere facendo un super esame preliminare di ciò che ci spinge a chiedere, desideri, istanze, credenze, sovrapposizioni ecc che poi facilmente riporterebbe al punto 1.
Ad esempio, in questo frangente, io non sono consapevole delle mie credenze e di ciò che desidero sapere. desidero una risposta, questo si, sul tuo pensiero che non so se ho afferrato bene. Onestamente devo mettere in conto che essa (la risposta) potrebbe non essere ciò che mi aspetto che sia, ma per il resto, come dicevi tu se avessi conoscenza non domanderei... mi sa che sono un po' confuso...

R. Chiamiamo la "pratica del chiedere" con l'uso più comune, il termine più in voga: preghiera.

Se si intende preghiera come "chiedere", forse sarebbe opportuno che un aspirante non pregasse, e certamente non per chiedere per sé, se non nel: "Sia fatta la tua volontà, oh Signore", chiedere l'applicazione della propria volontà quando non si sa cosa si vuole, non si ha il controllo della mente e quindi dei suoi desideri, non è che sia opportuno...

L'unico desiderio sempre permesso è l'anelito per il Servizio, per il Divino o per la Conoscenza o per il Dharma. O almeno lo è sino a quando dovrà cadere anch'esso come ultimo.

In realtà la preghiera è un momento di vicinanza equivalente alla meditazione, personalmente non si saprebbe distinguerli se non... però non ci credere, la meditazione è lo stato naturale, sei nell'essere, in bilico fra essere e non essere, in modo da essere "presente" nel mondo senza essere del mondo. La preghiera è porre una maggiore attenzione al mondo, o meglio al suo Principio Creativo (inteso come Isvara o Madre divina), attraverso una sorta di apertura direzionata, infatti il termine che talvolta si usava in luogo di preghiera era "aprirsi alla Vita o evocazione" , portare cioè in sovrapposizione e identità i diversi Principi, mediando sulle loro diverse caratteristiche, il tutto senza tirare troppo sugli aspetti individuati... si tirano e annodano fili di ragnatela.

Desiderare, volere, comandare sono pratiche solitamente da evitare per certi aspiranti... da lì la necessità di aderire al dharma, al vero, all'onore, all'ordine, al controllo dei pensieri, etc. etc.

Altrimenti sarebbe come impugnare un idrante che può annaffiare una margherita o tagliare una lastra d'acciaio con il getto ad alta pressione.
Immagine
Dialogo con Premadharma. Tratto da forum pitagorico, luglio 2010
(i partecipanti al dialogo sono identificati da D., D1 e D2)

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