Ramana Maharshi: Cosa c’è in un nome –
Risposte di Rāmaṇa Mahārṣi
di Ra. Gaṇapati [1]
Ciascuno di noi sa bene che la Via di Rāmaṇa – pervenire alla Consapevolezza per Via diretta – si riferisce a “Quello” che è al di là del nome e della forma. Tuttavia è di grande conforto per l’individualità in cammino vedere come egli riesca ad adattare l’upāsanā del Nome (nāma) e della Forma nella sādhanā-krama di coloro che non sono in grado di seguire la Via diretta, [2] o della diretta Evidenza. Si tratta di un adattamento che può sembrare strano a prima vista, perché cerca di pervenire all’ātman per mezzo dei nomi e delle forme.
Per il momento possiamo limitare il nostro esame al Nome nel modo in cui veniva prospettato da Rāmaṇa. In verità egli ne prende le difese e accetta quindi di adattarsi ad altri sentieri come pochi altri jñāni hanno mai fatto prima di lui. Scopriremo così che egli, in presenza di persone qualificate per questo sentiero, ne consigliava la pratica con un ardore e un fervore non inferiori a dei nāma-siddhantin. [3]
Un advaitin, colui che ha realizzato il “Senza-nome”, che sposa e spiega il nāma marga, il sentiero del Nome! Ma in effetti, un vero advaitin [4] si distingue proprio per questo. Non é forse detto nel Bhāgavata Purāṇa che Suka, il pappagallo simbolo dell’advaita, ripeteva in estasi le glorie del nāma?
Lo stesso Śaṅkara, il grande advaitin, non esitò ad esaltare il potere del Nome. Nel suo bhāṣya al Viṣṇu Purāṇa assegna al nāma-japa [5] un grado superiore rispetto al sacrificio-rito (yajña) e all’adorazione (pūjā), perché si astiene da tutte le inevitabili violenze connesse col sacrificio ed elimina gli elementi esteriori (immagini, candele, incenso, ecc.) richiesti per l’adorazione. Egli fa osservare che per il nāma-japa non è necessario osservare tempi o luoghi particolari e anche per questo è superiore ad altre sādhanā.
Nel Praśnottara-ratnamālikā (Il Gioiello delle domande e delle risposte) [6] composto dall’ācārya, una delle domande poste è: su che cosa si deve meditare? (kim smartavyam puruṣaiḥ) La risposta del maestro dell’Advaita, che non menziona l’ātman impersonale, è alquanto inaspettata: continuamente sul nome di Hari! (hari nāma sadā), cioè su Viṣṇu.
Nella linea degli advaitin troviamo anche Brahmendra Śrī Sadaśiva il quale impose alla propria lingua di ripetere i nomi della divinità, Viṣṇu o Śiva, come Mukunda, Keśava, Mādhava, Kṛṣṇa, ecc. Il più grande sostenitore del nāma-marga nel Sud dell’India era un pontefice a capo del Kāmakoṭipīṭa [7] di Kāñcī, uno dei cinque monasteri-maṭha fondati da Śaṇkara, ed è ricordato con l’appellativo di Bhagavan-nāma-bodha, “colui che ha raggiunto la scienza del nome del Signore”.
Con ciò non si vuole certo dire che questi illustri esponenti dell’Advaita permettessero ai loro aspiranti di perdere di vista quello che era il fine ultimo della conoscenza, vale a dire il Senza-nome. Essi invece non esitavano a sostenere con forza che il nāma-upāsanā, il sentiero degli esercizi devozionali per eccellenza, non distoglieva l’aspirante dal sentiero della conoscenza (jñāna-marga) ma lo conduceva in modo graduale e naturale verso il sentiero superiore favorendo un’adeguata maturità spirituale. Dobbiamo qui ricordare ciò che disse, in modo categorico, Bhagavannāma Bodhendra: «Priva della conoscenza (jñāna), la sola celebrazione dei nomi del Signore (nāmasaṁkīrtana) non può essere causa di liberazione». Ma dobbiamo altresì ricordare che egli, come tanti altri advaitin, consigliava decisamente il sentiero della devozione- bhakti, e quindi la ripetizione dei nomi del Divino (nāma-japa), al fine di pervenire in modo naturale al sentiero jñāna. Al nostro secolo, Bhagavan Rāmaṇa, nella sua nobile solitudine, ne ha tenuta alta la bandiera.
Conosciamo Rāmaṇa come colui che infaticabilmente scagliava il brahmāstra [8] dell’autoindagine verso coloro che gli ponevano mille domande, riuscendo così a portarli al silenzio. Ma al tempo stesso egli era consapevole del fatto che non tutti erano portati o pronti per il Sentiero dei sentieri. Spesso e volentieri lo abbiamo visto indicare e consigliare altri sentieri, incluso ovviamente quello del nāma, a coloro che non erano in grado di praticare la discriminazione-viveka. Per fare qualche esempio, prima di tutto egli ammetteva e riconosceva la necessità di sentieri diversi; poi dimostrava che anche questi sentieri alla fine conducono l’aspirante sul Sentiero diretto; infine esaltava in modo particolare il sentiero del nāma.
Nel “Capitolo sulla Pratica della ripetizione costante” (abhyāsa prakaraṇa) dell’opera Upadeśa Mañjarī (Il bouquet dell’Insegnamento), una raccolta di dialoghi di Rāmaṇa, troviamo scritto: «L’interlocutore chiede se tutti posseggono le qualificazioni per praticare vicāra, il sentiero della ricerca discriminante». Rāmaṇa risponde che per tale sentiero occorre essere dei pakvi, persone spiritualmente mature, altrimenti è meglio praticare altre sādhanā, quelle che sono più confacenti alla propria struttura mentale.
Domanda (D.): quali sono queste altre sādhanā?
Mahārṣi (M.): la preghiera, il japa, il dhyāna, lo yoga, lo jñāna, ecc. [9]
Altrove, riferendosi a se stesso, dice: il Mahārṣi non critica nessuno degli altri metodi esistenti, tutti sono utili alla purificazione della mente. [Talks, 19th May, 1936]
D.: Si dice che il nirguṇa upāsanā sia difficile e rischioso mentre sembra che il saguṇa upāsanā sia più facile.
M.: Seguite quello che per voi è più facile. [Talks, 7th Nov. 1938]
D.: Quale metodo è il migliore?
M.: Dipende dal temperamento dell’aspirante. Ognuno porta con sé, ereditati da vite precedenti, i propri saṁskāra. [10] Un metodo sembrerà facile per alcuni, mentre per altri non lo sembrerà affatto. Non si può dire nulla di preciso a questo proposito. [Talks, 17th Nov. 1938]
D.: Vi è qualche pratica (upāsanā) particolare più efficace di altre?
M.: Sono tutte efficaci allo stesso modo, ma ciascuno deve trovare quella che gli è più congeniale, e ciò a causa delle passate tendenze (vāsanā)». [Talks, 23rd Nov. 1938]
Rāmaṇa fa notare che nello Yogavasiṣṭha [11] l’istruttore dice a Rāma che il Sentiero della discriminazione-viveka, il Sentiero diretto che poggia sulla conoscenza-jñāna, non dovrebbe essere insegnato a coloro che non hanno le necessarie qualificazioni; [12] «Se a un individuo qualunque viene detto che è il Divino, anzi Brahman stesso, e che è già libero, egli potrebbe sospendere ogni disciplina spirituale credendo di essere già ciò che ha sentito dire e non aspirare ad altro. Questa è la ragione per cui molte verità del Vedānta non andrebbero date a persone prive di uno sviluppo spirituale adeguato (anadhikārin)». [Letters from Sri Ramanasramam, 21st Nov. 1947]
Rāmaṇa ci dà ampie assicurazioni sul fatto che anche gli altri sentieri alla fine conducono al Sentiero diretto.
Egli dice: «La discriminazione non è l’unica via. Se si pratica una disciplina spirituale (sādhanā) valendosi del nome e della forma, ossia ripetendo i sacri nomi (japa) o seguendo altri metodi con ferma determinazione e con perseveranza, si perviene a Quello... [Letters, 29th Nov. 1947]
La ripetizione verbale porta alla ripetizione mentale e questa alla fine si dissolve nella vibrazione eterna». [Talks, 14th Dec. 1938]
D.: Si può pervenire alla non-dualità (advaita) per mezzo del japa dei sacri nomi di Rāma, Kṛṣṇa, ecc.? non è questo un mezzo meno importante?
M.: Vi è stato chiesto di “praticare” japa oppure di “parlare” del suo posto nello schema delle cose? [Talks, 18th June, 1935]
Nelle opere originali di Rāmaṇa troviamo, anche se non di frequente, l’elogio del nāma-japa: «La ripetizione udibile del suo Nome o mantra è migliore delle lodi; migliore di quella è la ripetizione sussurrata; ma ancora migliore è la ripetizione mentale (manasika japa) e ciò è meditazione». [Upadesa Saram, 6]
«Non importa sotto quale nome e forma si possa adorare la Realtà assoluta, essi sono solo un mezzo per realizzarla senza nome e forma». [Sad Vidya, 8]
Convinto che il Nome condurrà gradualmente al Senza-nome, Mahārṣi ha cercato di ancorare alcuni praticanti-sādhaka a questo sentiero, sebbene essi avessero scelto di seguire il sentiero della discriminazione. Registrato nelle “Conversazioni” troviamo:
D.: Mentre ero impegnato nell’ātmavicāra (indagine sul Sé) mi sono addormentato. Come posso porvi rimedio?
M.: Pratica il canto del nome del Signore (nāmasaṁ-kīrtana)». [Talks, 30th April, 1938]
Śri Devarāja Mudaliar [Day by Day, 7-12-45] riferisce che Bhagavan (Rāmaṇa) faceva spesso riferimento, dichiarandosi d’accordo con esso, a un articolo sulla “Dignità spirituale del Nome” (nāma māhātmya) nell’interpretazione del santo Nāmadeva e apparso sul Periodico “La Visione” pubblicato dall’āśram di Svāmi Ramdas, uno dei grandi apostoli del nāma nel nostro secolo. Il punto specifico che lì si vuole sottolineare è che il Filosofo-jñānin va ben oltre il concetto secondo cui il nāma costituisce un altro mezzo per la realizzazione del Sé; infatti, vi si afferma che solo colui che è già pervenuto al riconoscimento del Sé può realizzare l’onnipresenza del nāma. La stessa “realizzazione diretta del Sé” (ātma-sākṣātkāra) è considerata strumento per la “realizzazione diretta del Nome” (nāma-sākṣātkāra).
Se meditato a fondo, questo punto risulterà privo di contraddizioni. Bhagavan, come altri advaitin, ha parlato della devozione o bhakti quale mezzo per la conoscenza-jñāna ma non si è limitato a questo; ha anche indicato come la realizzazione del Sé attraverso la conoscenza o jñāna abbia come conseguenza l’espansione della bhakti che, trascendendo la dualità insita nella devozione, approda a una meravigliosa fioritura di Amore. [13] Egli dà a tale conseguimento il nome di jñāna-uttara-bhakti, la devozione che sorge dopo la conoscenza.
Vediamo ora un esempio di come questa “definitiva conclusione sul Nome” (nāma-siddhānta), fedelmente riportata nell’Introduzione alle “Conversazioni” [Talks] del 3 gennaio 1938, veniva intesa da Rāmaṇa.
«Il Sig. Pannalal si trovava di fronte a un dilemma. Il suo guru, “un grande saggio”, gli aveva trasmesso il nome Hari (Viṣṇu-Kṛṣṇa) dicendogli che “esso è tutto in tutto; nessuno sforzo è necessario per la concentrazione della mente, essa si attuerà spontaneamente se persisterai nel harinam”. Prese dunque il nam, ma prima di conseguire la perfezione nella sādhanā il suo guru lasciò il corpo ed egli “si sentì come un battello senza timone in mezzo al mare”. Avendo sentito parlare di Rāmaṇa, si recò presso il suo āśram dove scoprì che il sentiero da lui indicato si fondava sull’ātma-vicāra. Si trovò perciò davanti a un bivio: doveva rinunciare al metodo indicato dal suo guru e adottare quello di Rāmaṇa? Quando Pannalal parlò del suo conflitto, Rāmaṇa fece riferimento all’artico pubblicato sul Periodico “La Visione” ed espose “la filosofia del Nome divino come l’aveva vissuta Nāmadeva” secondo il quale “il Nome permea direttamente l’intero universo... il Nome è immortale... il Nome in sé è forma e la forma in sé è nome... Dio si manifesta assumendo nome e forma; fai attenzione, non c’è altro mantra che il Nome... La natura onnipervadente del Nome può essere compresa solo quando si conosce il proprio Sé... Il Nome è paramātman stesso, non v’è azione che abbia origine dalla dualità”».
Tutto ciò stava certamente a significare che Bhagavan non intendeva indicare al sig. Pannalal di rinunciare al sentiero del Nome (nāma-mārga) ma al tempo stesso non gli precludeva il sentiero della discriminazione (ātma-vicāra).
Rāmaṇa riesce a commuoverci con la breve e delicata storia di Tukaram, il santo del Maharāṣṭra, descrivendo come il Nome onnipervadente penetrasse l’intero suo essere e come le dichiarazioni sulla “ripetizione verbale del nāma... (che alla fine) si dissolve nella vibrazione eterna” venissero da lui incarnate. Raccontava Bhagavan: «Tukaram era solito pronunciare il nome di Śrī Rāma. Una volta, mentre era impegnato a rispondere al richiamo della natura e ripeteva “Ram, Rāma”, un sacerdote ortodosso ne rimase scandalizzato e lo ammonì dicendogli di rimanere in silenzio mentre si trovava in quelle situazioni. Tukaram obbedì, ma all’improvviso il nome di Rāma scaturì da ogni poro del suo corpo con un fragore tale da sconvolgere il sacerdote».
In un’altra occasione, Rāmaṇa dissipò il dubbio di un visitatore che gli aveva chiesto: «La gente dà dei nomi a Dio, dice che il nome è sacro e poi attribuisce alla ripetizione del nome il conferimento di meriti. Può essere vero tutto ciò?».
Bhagavan rispose in modo serio e gioviale (la giovialità ha un suo significato al pari della serietà): «Perché no? Tu hai un nome e rispondi ad esso, ma il tuo corpo non è certo nato con quel nome scritto addosso né ha mai preteso di farsi chiamare in quel modo. Eppure ti è stato dato un nome al quale rispondi perché sei ad esso identificato; dunque il nome sta a significare qualcosa, non è una semplice invenzione. Allo stesso modo, il nome di Dio è reale. Ripetere un nome vuol dire ricordare il suo significato, da qui il suo merito».
Nelle “Conversazioni”, sempre del 1938 [Talks, 3 Oct. 1938], troviamo: «...ma quell’uomo non sembrava soddisfatto. Alla fine volle ritirarsi e pregò Bhagavan di concedergli la sua Grazia. Śri Bhagavan allora disse che alcuni suoni potevano accordare la Grazia solo se si aveva fede in essi. Entrambi risero e il visitatore si congedò». Quello che qui si può rilevare è che la ripetizione del Nome (nāma-upāsana) fatta con fede non può non accordare la Grazia...
Si può senz’altro arguire che Bhagavan accettasse l’opinione secondo cui un nāma-siddhāntin che ripeta il Nome quale puro suono, vale a dire senza conoscerne il significato o esserne consapevole ma con profonda fede nella sua efficacia, ne ottiene il frutto. Vi sono casi in cui Rāmaṇa consiglia il japa dei nomi di Śiva e di Rāma ad alcuni ricercatori. Anche non tenendo conto dell’assonanza tra “Rāmaṇa” e “Rāma nāma”, abbiamo la sua ardente approvazione di questo mezzo che “consente di andare oltre” (tāraka)... [Letters, 2nd May, 1948]
“Quando la mente è irrequieta dovrebbe essere ripresa e tenuta ferma con il pensiero del Sé”. Il visitatore domanda: «per fare questo, la ripetizione del Nome di Rāma è utile?». Risponde Bhagavan: «Certamente, che cosa potrebbe esserci di meglio? La grandezza del japa del nome di Rāma è senza pari». Egli cita anche il rāma-nāma-mahimā (la grandezza del nome di Rāma) immortalato da Hanumān [14] nel poema epico Rāmāyana: «con mente pura e con la beatitudine (ānanda) generata dalla stabile conoscenza del Sé, le due lettere, ra e ma, [15] che sono simili a dei mantra, si ripeteranno entro di te in modo automatico. Che cos’altro mai potrebbe essere necessario a una persona che possiede questa conoscenza?».
In cima a tutte queste sue conferme, possiamo citare questa sua frase: «Il nome è Dio». Egli la associava al primo verso del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio». [Day by Day, 6-12-45 Night]
In svariate occasioni egli incoraggiava i cantori degli bhajan a intonare i nāmāvali (la serie dei nomi della divinità) in sua presenza all’āśram. Una volta due ragazze accompagnarono una signora del Gujarāt [16] alla sua santa presenza e quando i bhajan ebbero inizio la signora sprofondò in uno stato di trance. Bhagavan, riferisce l’autore di “Giorno per giorno”, continuò a godersi la musica e a battere le mani sulle ginocchia per tenere il tempo; e aggiunge: «mai prima d’ora avevo visto Bhagavan così interessato ai canti, di qualunque genere fossero». [Day by Day, 8-12-45 Afternoon]
Gajanan, conosciuto dai devoti di Rāmaṇa come daivarata (“innamorato del Divino”), era stato a lui vicino fin dai tempi del suo soggiorno nella Virupakṣa. [17] Già fin d’allora [1914], Rāmaṇa lo aveva incoraggiato a comporre i bhajan col massimo ardore di cui fosse stato capace in occasione dei giriparikrama, il “cammino intorno alla [sacra] montagna” di Aruṇācala. Ricordando quei giorni, Rāmaṇa diceva con una gioia quasi infantile: «Componeva i bhajan mentre camminava, mentre saltava da un lato all’altro della strada tanto era pieno di vita e di entusiasmo».
Quando Gajanan tornò all’āśram dopo alcuni anni [13th Feb. 1946], rassicurò subito di avere ancora energia e brio per fare i suoi entusiasmanti bhajan. Rāmaṇa ne fu contento e fece organizzare uno spettacolo accertandosi che niente mancasse: «avrà bisogno, disse, di vari strumenti musicali che lo accompagnino». [Day by Day, 13-2-46]
La sera dopo, Gajanan eseguì un bhajan di quasi un’ora mentre Bhagavan era tra il pubblico. Dev’essere stato bello vederlo dolcemente assorto mentre assisteva ai canti, soprattutto ai nāma-kīrtana, e alle danze celebrative. [Day by Day, 3-8-46]
Proviamo ad approfondire. Per quanto possa sembrare strano, Rāmaṇa non solo consigliava il nāma agli altri ma lo praticava lasciandosene completamente assorbire. È stato unico per tanti motivi, e lo è stato anche come praticante della ripetizione dei nomi del Divino (nāma-upāsaka). Era devoto non solo al Nome del Dio-persona ma, e qui tocchiamo qualcosa di enigmatico e paradossale, anche alla parabrahma-mahiṣī, la Sposa dell’Assoluto, l’aspetto femminile del Brahman quale viene glorificato nel Saundaryalaharī [18] di Śaṅkara.
Noi siamo desiderosi di dare un nome perfino al Senza-nome, al Sé impersonale. Il poeta canta, con un linguaggio da sposo, il Dio-persona: «Ella udì per prima cosa il nome, quindi avvertì l’avvenenza della sua forma, in seguito il luogo della sua dimora...». Rāmaṇa parafrasando dice: «Ella udì per prima cosa il Nome che era anche la sua forma e la sua dimora, e si fuse con il suo Essere senza forma».
Chi di noi, suoi devoti, potrebbe dimenticare l’incantesimo che il nome “Aruṇācala” (lo “sposo” e la “dimora”) esercitò sul giovane Rāmaṇa prima che egli rivelasse i segni della spiritualità? Simile a ogni autentico nāma- siddhāntin, lo vediamo sillabare il nome scelto e assegnare a ciascuna sillaba un significato vedāntico: ‘a’, ‘ru’, ‘na’ stanno a significare sat-cit-ānanda (essere-coscienza-beatitudine) e anche il Sé supremo, il sé individuale e la loro identità quale Assoluto nella mahāvākya “Tu sei Quello”; e acala significa “perfezione”. [The Necklet of Nine Gems (Arunachala Nava Mani Malai) St. 2]
Il Nome gli era così caro che lo scarabocchiava ogni qualvolta si accingeva a scrivere e voleva prima provare la sua penna d’oca. Per lui, la parola che esprimeva l’Assoluto non era Om ma Aruṇācala. E come dimenticare la commozione che ci prese quando, poco prima di lasciare questo soggiorno terreno, egli versò lacrime, vere perle di devozione-bhakti provenienti dallo sconfinato oceano della conoscenza-jñāna, nell’udire le parole Aruṇācalaśiva ripetute dai devoti. Possiamo a forte ragione includerlo tra i nāma-premin, gli amanti del nāma.
Passiamo ora all’affascinante nāma dell’impersonale Senza-nome. Per Rāmaṇa, in quanto jñānin, il Nome dei nomi è so ’ham. [19] Spesso egli parla del Sé, e le sue parole sono vibrazioni che provengono dal cuore e si diffondono come acqua che sgorga da una purissima sorgente. Dal momento che i suoni non sono altro che vibrazioni, so ’ham diventa un nome. Rāmaṇa si è espresso assai chiaramente quando ha detto: «L’Uno infinito, totale e indivisibile è divenuto consapevole di sé come so ’ham. Questo è il nome originale; tutti gli altri nomi, compreso l’Om, sono venuti dopo». [Talks, 7th Nov. 1935] [20]
Questo però non è un nāma che si ripete nel japa, esso va ripetuto mentalmente (nāma-smaraṇa). Egli consiglia l’utilizzo di so ’ham come unico nāma-smaraṇa in questi termini: «Riflettete sul so ’ham e tenete fermo questo pensiero escludendo tutti gli altri». [Talks, 21st Oct. 1936]
Come lo smaraṇa su altri nomi conduce alla “realizzazione diretta” (sākṣātkāra) della Divinità, così lo smaraṇa su so ’ham concede il proprio peculiare sākṣātkāra, vale a dire l’autorealizzazione.
Rāmaṇa affermava che una grande mahāvākya [21] era il nome biblico Jehovah il cui significato è “Io sono Colui che sono”; e aggiungeva: «So ’ham, in verità, è un altro nome per il Sé-ātman». [Day by Day, 22-3-46 Afternoon]
Per sostenere questo punto di vista egli era solito citare l’autorità della Śruti: «La Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, parlando di tutti i mantra, afferma che aham è il primo nome di Dio. [22] La prima lettera in sanscrito è “a” e l’ultima è “ha”; perciò aha include tutto dal principio alla fine». [Day by Day, 22-11-45 Afternoon]
Quanto abbiamo detto finora potrebbe essere la risposta di Rāmaṇa all’interrogativo che si poneva Shakespeare: «Che cosa c’è in un nome?». [23] La risposta è: «Perché, che cosa non c’è in un nome? Quello stesso è nel nome». [...]
Note:
1 - L’autore è stato un suo devoto e un assiduo frequentatore del suo āśram.
2 - Upāsanā (lett. esercizi devozionali) è un termine che indica ogni pratica mentale o di altro tipo volta a «portare la consapevolezza verso la natura propria della divinità fino a creare identità con tale natura» (Śaṅkara), quindi non e la Via diretta prospettata da Rāmaṇa e dall’Advaita. Il nome e la forma (nāma-rūpa) per l’Advaita non sono altro che māyā, apparenza fenomenica che vela la realtà. Il termine sādhanā-krama indica il perseverare nelle pratiche individuali di elevazione e realizzazione spirituale.
3 - Un siddhantin è una persona che stabilisce o prova in maniera logica le proprie conclusioni, quindi un convinto e sicuro assertore delle proprie vedute.
4 - Chi ha realizzato il “Non-due” (advaitin) non può contrapporsi a niente perché «non vi é un secondo distinto da lui tale che egli possa vederlo come un altro» (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, IV 3 23).
5 - Il nāma-japa è la ripetizione continua, sussurrata o mentale, dei nomi della divinità.
6 - Il termine praśnottara (praśna = domanda; uttara = ulteriore) indica un verso che consiste di domande e risposte a mo’ di catechismo.
7 - Un piṭha è un seggio, sede autorevole della conoscenza tradizionale rappresentato dal grande monastero Śāradāmaṭha di Kāñcī. Per i maṭha fondati da Śaṅkara, cfr. Glossario Sanscrito. Ass. Ecoculturale Parmenides.
8 - Fulmine, in senso metaforico. L’autoindagine (vicāra) cui Rāmaṇa indirizzava si basava su due sillabe: ko ’ham (chi [sono] io?); egli cioè invitava a scoprire coscienzialmente la propria vera natura di ātman.
9 - Japa è il sussurrare i nomi della divinità o un sacro mantra (come il praṇava, ovvero l’om); dhyāna è la meditazione; lo yoga può essere il bhaktiyoga, il rājayoga, l’haṭhayoga, ecc. Per i vari tipi di yoga, cfr. Raphael, Essenza e scopo della Yoga. Collezione Vidyā.
10 - Sono i “semi”, cause determinanti del comportamento e dell’agire-pensare, generati a loro volta dalle proprie vāsanā, tendenze o “impressioni” psichiche.
11 - Opera, attribuita a Vālmīki, che narra dei dialoghi tra il ṛṣi-saggio Vasiṣṭha e Rāma, incarnazione di Viṣṇu. È chiamata anche Rāmagitā. Cfr. Glossario Sanscrito, cit.
12 - Per queste qualificazioni cfr. Vivekacūdāmaṇi di Śaṅkara, a cura di Raphael. Collezione Vidyā.
13 - Raphael, nel suo Essenza e scopo dello Yoga, chiama parabhakti tale suprema devozione capace di condurre all’unità con il Principio trascendendo perciò la dualità creatura-creatore.
14 - Uno dei più, fedeli, umili e coraggiosi devoti di Rāma.
15 - In sanscrito, ogni consonante dell’alfabeto si pronuncia seguita dalla vocale a.
16 - Stato del nord-ovest dell’India. L’āśram di Rāmaṇa si trova a sud, nella zona di Madurai.
17 - E’ una grotta, dal nome del santo che vi prese dimora e vi fu sepolto, in cui Rāmaṇa visse per qualche tempo. Si trova sulla montagna Aruṇācala. Cfr. A. Osborne, Ramana Maharshi e il sentiero dell’auto-conoscenza. Ubaldini Editore, Roma.
18 - Lett. “L’oceano della Bellezza” della Madre divina.
19 - Sa = Quello, l’ātman; aham = il jīva-io, vale a dire “io [sono] Quello”.
20 - In realtà indicano lo stesso Principio, il Verbo, l’origine della manifestazione (Īśvara o Brahman saguṇa). Di là da questi due v’è l’om non sonoro, simbolo del Fondamento del tutto (Brahman nirguṇa), trascendente sia la manifestazione che il suo Principio.
21 - Un “Grande Detto” vedico-upaniṣadico che, una volta penetrato coscienzialmente, concede l’Identità con il Sé-ātman.
22 - Cfr. Bṛ up. I. IV, 1.
23 - Romeo e Giulietta II.1.43: «Cosa v’è in un nome? Ciò che chiamiamo “rosa” non perderebbe il suo profumo se avesse un altro nome».
(Quaderni Advaita & Vedanta: Quaderno n° 110, 30 Ago. 2015 & Quaderno n° 111, 15 Set. 2015. Dal periodico Vidya di Ott. 2013. – Art. originale in lingua inglese: The Mountain Path, Ott. 1982.)