Il gruppo che cura Vedanta.it inizia ad incontrarsi sul web a metà degli anni 90. Dopo aver dialogato su mailing list e forum per vent'anni, ha optato per questo forum semplificato e indirizzato alla visione di Shankara.
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Sri Ramana Maharshi - Brani, citazioni, etc.

Antichi e moderni
seva
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Sri Ramana Maharshi - Brani, citazioni, etc.

Messaggio da seva » 01/10/2016, 14:54

La via della montagna
Pensando al mondo, vediamo come siano le grandi forze a plasmarlo, i terremoti, i maremoti, gli uragani. Poi ci sono le masse, si pensi alle conquiste romane, all'invasione mongola, alle conquiste arabe, alla potenza britannica, a quella americana, al risveglio dell'Asia. Ma se osserviamo vediamo anche che queste trasformazioni sono poi destinate comunque a perire, a scomparire, a rimanere solo nei libri e nelle memorie di qualche storico. Sono altre le cose che rimangono e plasmano veramente l'uomo.

In Occidente i detti di un paio di greci1 e un falegname2 palestinese. In India un bovaro3 e poi un principe4 irrequieto. Con queste cinque persone potremmo definire l'essenza dell'uomo, la sua trasformazione e le sue mete. Erano singole persone e hanno cambiato il mondo.

Sri Ramana Maharshi ha realizzato il Sé verso i diciassette anni e dopo un po', incapace di continuare la solita esistenza, che gli appariva oramai vuota e non più adeguata, si diresse verso Arunachala, la sacra collina il cui nome l'aveva affascinato. Da lì non si mosse più.

Qualcuno si sarà chiesto com'era vivere accanto ad un Platone, ad un Plotino, ad uno Shankara, ad un Buddha, ad un Cristo... com'è vivere accanto ad un Maestro, ad un Illuminato? Quali sono i ritmi? Come fluisce l'insegnamento? È solo non duale o c'è spazio anche per la devozione e il servizio? La sua è stata una vita pubblica, così "pubblica" che non riusciamo nemmeno ad immaginarlo. Tranne i primi momenti in cui la sua coscienza aveva un'estrema difficoltà nel fissarsi sulla percezione sensoriale del veicolo grossolano, poi la sua vita è sempre stata accompagnata da persone che compresero il suo elevato stato coscienziale e che ebbero estrema cura del suo corpo, nutrendolo e curandolo, evitando cioè che venisse logorato più di tanto.

Nonostante Sri Ramana abbia lasciato un preciso insegnamento non duale, accanto a lui, ai piedi di Arunachala, si raccolse subito un nutrito gruppo di sadhu. Da allora ci furono sempre dei ricercatori che si accompagnarono a Bhagavan, il saggio della montagna.

Qual'è la caratteristica del suo insegnamento? È l'essenza del Vedanta: la Via della Montagna.

Se dai quattro punti cardinali ci dirigessino verso il centro dove sorge Arunachala, in realtà staremmo percorrendo la via verso il Nord, la via verso il Sud, la via verso l'Est e la via verso l'Ovest. Ognuno sta andando in una direzione diversa dagli altri, eppure tutti staremmo andando nel medesimo luogo. Così è nel Vedanta, benché tutti stiamo partendo da diversi punti, tutti andiamo nello stesso luogo. Poi, col tempo, dopo una certa parte del cammino, scopriremo che in realtà nessuno cammina, non c'è alcun luogo da raggiungere, né alcuno che debba raggiungere alcunché. Dopo ancora si scopre che già si è ciò che si credeva di voler raggiungere. Ma sono tutte scoperte che è possibile maturare attarverso il percorso stesso e le trasformazioni che esso comporta.

Accanto a Sri Ramana hanno trovato posto le diverse dinamiche interiori e i diversi cammini. Le testimonianze sono varie, prevalentemente tese a mostrare il suo insegnamento non duale, il medesimo di Shankara, ma è più ampio il ventaglio della quotidianità, l'insieme deli aneddoti sulle piccole cose, essenzialmente il rapporto fra Bhagavan e i devoti, sia saltuari che assidui che ci arriva attraverso i diari, i ricordi, le trascrizioni, i giornali e i filmati.

C'è un altro fattore che rende Sri Ramana Maharshi subito gradito al diffidente ricercatore occidentale: a partire da lui nessuna chiesa o movimento ha preso corpo. Il Ramanasramam si occupa di pubblicare le opere sul Maestro e a mantenere vivo il ricordo e i luoghi della sua vita, senza che nessuno si proponga come discepolo preposto a proseguire l'opera del Maestro.

Questo se da un lato affascina, dall'altro sarebbe un problema se lo stesso Sri Ramana non avesse marcato nelle sue opere, nei suoi atti e nei suoi lasciti verbali l'importanza di Arunachala, la montagna sacra a Shiva.

[1] Socrate e Platone; [2] Gesù Cristo; [3] Krishna; [4] Buddha.


Bodhananda, Forum Pitagorico, 30.06.2008

Nota: per un approfondimento su Sri Ramana si raccomanda il sito dell'Associazione Italiana Ramana Maharshi

yati
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REALTA’ DEL MONDO (teorie sulla creazione)

Messaggio da yati » 01/10/2016, 14:58

REALTA’ DEL MONDO (teorie sulla creazione)

Sri Ramana aveva scarso interesse per l’aspetto teorico della spiritualità. Il suo principale interesse era portare le persone a una consapevolezza del Sé e, per raggiungere questo fine, sostenne sempre che la pratica era più importante della speculazione. Scoraggiava le domande di natura teorica rimanendo silente quando venivano formulate o chiedendo all’interlocutore di trovare la sorgente dell’”io” che stava ponendo la domanda.
Occasionalmente si addolciva e dava dettagliate esposizioni di vari aspetti della filosofia, ma se i suoi interlocutori insistevano troppo nei loro quesiti o se la conversazione si dirigeva verso uno sterile intellettualismo, cambiava argomento e dirigeva l’attenzione dei suoi interlocutori su questioni più pratiche.
Molte di queste conversazioni filosofiche si concentravano sulla natura e l’origine del mondo fisico, poiché Sri Ramana era noto per le sue opinioni totalmente in disaccordo con la comune opinione del mondo. Come con molti altri argomenti, egli adattava le sue affermazioni affinché si conformassero ai diversi livelli di comprensione che incontrava nei suoi interlocutori, ma anche così, quasi tutte le sue idee erano radicali confutazioni dei concetti della realtà fisica condivisi dalla maggior parte delle persone.
Sri Ramana adottò tre diversi punti di vista quando parlò della natura del mondo fisico. Egli li patrocinò tutti in momenti differenti, ma dai commenti che in genere esprimeva sull’argomento è chiaro che considerava vere o utili solo le prime due teorie qui descritte:

1. AJATA VADA
(Teoria della non causalità). Questa è un’antica dottrina indù che afferma che la creazione del mondo non avvenne mai. E’ un completo diniego di tutta la causalità del mondo fisico. Sri Ramana appoggiò quest’opinione dicendo che secondo l’esperienza del ‘jnani’ nulla viene mai in esistenza o cessa di essere perché solo il Sé esiste come la sola e immutabile realtà. Un corollario di questa storia è che il tempo, lo spazio, la causa e l’effetto, i componenti essenziali di tutte le teorie della creazione, esistono soltanto nelle menti degli ‘ajnani’ e che l’esperienza del Sé rivela la loro non esistenza.
Questa teoria non è un diniego della realtà del mondo, ma solo del processo creativo che lo portò in esistenza. Parlando della sua stessa esperienza, Sri Ramana disse che il jnani è consapevole che il mondo è reale, non come una riunione di materia ed energie interagenti, ma come un’apparizione senza motivo nel Sé. Egli sviluppò questo dicendo che siccome la natura reale o il substrato di questa apparizione è identica all’esistenza del Sé, necessariamente partecipa alla sua realtà.
Ciò significa che il mondo non è reale per il jnani semplicemente perché appare, ma solo perché la natura reale dell’apparizione è inseparabile dal Sé.
L’ajnani d’altra parte è totalmente inconsapevole della natura unitaria e della sorgente del mondo e, come conseguenza, la sua mente costruisce un mondo illusorio di oggetti separati interagenti, fraintendendo continuamente le impressioni sensoriali che riceve. Sri Ramana indicò che questa visione del mondo non ha maggiore realtà di un sogno poiché sovrappone una creazione della mente alla realtà del Sé. Egli riassunse la differenza fra il punto di vista del jnani e dell’ajnani dicendo che il mondo è irreale se viene percepito dalla mente come un insieme di oggetti distinti ed è reale quando viene sperimentato direttamente come un’apparizione del Sé.

2. DRISHTI-SRISHTI VADA
Se i suoi interlocutori trovavano impossibile da assimilare l’idea di ‘ajata’ o non causalità, egli insegnava loro che il mondo veniva in esistenza simultaneamente con l’apparizione del pensiero “io” e che cessa di esistere quando il pensiero “io” è assente. Questa teoria è nota come ‘drishti-srishti’, o creazione simultanea e in effetti afferma che il mondo che appare a un ajani è il prodotto della mente che lo percepisce e che in mancanza di quella mente cessa di esistere.
La teoria è vera quando la mente crea un mondo immaginario per se stessa, ma dal punto di vista del Sé, un “io” immaginario che crea un mondo immaginario non è affatto una creazione, così la dottrina di ajata non è sovvertita.
Sebbene Sri Ramana a volte abbia detto che drishti-srishti non era la verità ultima sulla creazione, incoraggiò i suoi seguaci ad accettarla come un’ipotesi di lavoro. Giustificò quest’approccio dicendo che se si può considerare il mondo coerentemente come una creazione irreale della mente, allora esso perde la sua attrazione e diventa più facile mantenere senza distrazioni la consapevolezza del pensiero “io”.

3. SRISHTI-DRISHTI VADA
(Creazione graduale). Questa è l’opinione del senso comune che afferma che il mondo è una realtà oggettiva governata dalle leggi di causa ed effetto che possono essere fatte risalire a un singolo atto di creazione. Essa include virtualmente tutte le idee occidentali sull’argomento, dalla teoria del “big bang” al resoconto biblico della Genesi. Sri Ramana si appellò a teorie di questa natura solo quando stava parlando con interlocutori che erano restii ad accettare le implicazioni delle teorie ‘ajata’ e ‘drishti-srishti’. Anche allora, solitamente indicava che tali teorie non dovrebbero essere prese troppo seriamente poiché erano promulgate solo per soddisfare la curiosità intellettuale.

Letteralmente, ‘drishti-srishti’ significa che il mondo esiste solo quando è percepito, mentre ‘srishti-drishti’ significa che il mondo esisteva prima della percezione di chiunque. Sebbene la prima teoria sembri viziosa, Sri Ramana sostenne che i veri ricercatori dovevano esserne soddisfatti, sia perché è un’approssimazione vicina alla verità, sia perché è l’attitudine più benefica da adottare se si è seriamente interessati a realizzare il Sé.


D: Com’è avvenuta ‘srishti’ (creazione)? Qualcuno dice che è predestinata. Altri dicono che è il ‘lila’ o gioco del Signore. Qual è la verità?
R: Nei libri vengono forniti vari resoconti. Ma c’è una creazione? Solo se c’è la creazione dobbiamo spiegare com’è avvenuta. Possiamo non conoscere tutte queste teorie, ma certamente sappiamo che esistiamo. Perché non conoscere l’”io” e quindi vedere se c’è una creazione?

D: Nel Vedanta di Sri Shankaracharya, il principio della creazione del mondo è stato accettato per amore dei principianti, ma per il progredito viene esposto il principio della non creazione. Qual è la tua opinione su quest’argomento?
R: “Non c’è dissoluzione o creazione, nessuno è in schiavitù, né qualcuno sta perseguendo delle pratiche spirituali. Non c’è chi desidera la liberazione, né alcun liberato. Questa è l’assoluta verità”. Questo ‘sloka’ appare nel secondo capitolo del ‘karika’ di Gaudapada. Chi è stabilito nel Sé vede questo per mezzo della sua conoscenza della realtà.

D: Il Sé non è forse la causa di questo mondo che vediamo attorno a noi?
R: Lo stesso Sé appare come il mondo di nomi e forme diverse. Comunque, il Sé non agisce come una causa efficiente (‘nimitta karana’), creandolo, sostenendolo e distruggendolo. Non chiedere: “Perché sorge la confusione del Sé, non conoscendo che in verità esso stesso appare come mondo?”. Se invece indaghi: “Chi sperimenta questa confusione?”, si scoprirà che nessuna simile confusione è mai esistita per il Sé.

D: Mi sembri un esponente della dottrina ‘ajata’ dell’Advaita Vedanta.
R: Non insegno solo la dottrina ‘ajata’. Io approvo tutte le scuole. La stessa verità dev’essere espressa in modi differenti per adattarsi alla capacità di colui che l’ascolta.
La dottrina ‘ajata’ dice: “Nulla esiste eccetto l’unica realtà. Non c’è nascita né morte. Né proiezione né ritiro. Né cercatore, né schiavitù, né liberazione. Esiste solo l’unica unità”.
Per coloro che trovano difficile afferrare questa verità e chiedono: “Come possiamo ignorare questo mondo solido che vediamo tutto attorno a noi?”, viene indicata l’esperienza del sogno e viene detto loro: “Tutto ciò che vedi dipende da “colui che vede”. Non c’è un oggetto visto separato da colui che vede”. Questa è chiamata la ‘drishti-srishti vada’ o l’argomento secondo il quale uno prima crea dalla propria mente e quindi vede ciò che la mente stessa ha creato.
Alcune persone non possono afferrare nemmeno questo e continuano ad arguire nei seguenti termini: “L’esperienza del sogno è così breve, mentre il mondo esiste sempre. L’esperienza del sogno era limitata a me. Però il mondo è visto e percepito non soltanto da me, ma da così molti altri. Non possiamo chiamare un tale mondo non esistente”.
Quando le persone arguiscono in questo modo, a esse può essere data una teoria ‘srishti-drishti’, per esempio: “Dio innanzitutto creò quella tal cosa, da quel tale elemento, e quindi qualcos’altro fu creato, e così via”. Questo tipo di persone verrà soddisfatto solo da ciò. Le loro menti altrimenti non saranno appagate e si chiederanno: “Come possono essere completamente false tutta la geografia, tutte le mappe, tutte le scienze, le stelle, i pianeti e le regole che vi presiedono, o che sono in relazione a questi, e tutta la conoscenza?”. A questi è meglio dire: “Sì, Dio creò tutto questo e così tu lo vedi”.

D: Ma tutto ciò non può essere vero. Può essere vera soltanto una dottrina.
R: Tutte le teorie servono solo ad adattarsi alla capacità di colui che apprende. L’assoluto può essere soltanto uno.
Il Vedanta afferma che il cosmo sorge alla vista simultaneamente a “colui che vede” e che non c’è un dettagliato processo di creazione. Questo è chiamato ‘yugapat-srishti’ (creazione istantanea). E’ del tutto simile alle creazioni del sogno dove lo sperimentatore sorge simultaneamente agli oggetti di esperienza.
Quando viene detto questo, alcune persone non sono soddisfatte perché sono profondamente radicate nella conoscenza oggettiva. Cercano di scoprire come possa esserci una creazione improvvisa. Arguiscono che un effetto deve essere preceduto da una causa. In breve, essi desiderano una spiegazione per l’esistenza del mondo che vedono attorno a loro. Allora le ‘sruti’ (scritture) cercano di soddisfare la loro curiosità con le teorie della creazione. Questo metodo di trattare il soggetto della creazione viene chiamato ‘krama-srishti’ (creazione graduale).
Ma il vero cercatore può essere appagato da ‘yugapat-srishti’, la creazione istantanea.

D: Qual è lo scopo della creazione?
R: E’ di far sorgere questa domanda. Indaga la risposta a questa domanda e alla fine dimora nel supremo o piuttosto nella sorgente primordiale di tutto, il Sé. L’investigare si risolverà in una ricerca del Sé e cesserà solo dopo che il non Sé verrà separato e si realizzerà il Sé nella sua purezza e gloria.
Possono esserci innumerevoli teorie della creazione. Tutte si estendono all’esterno. Non ci sarà limite a esse perché il tempo e lo spazio sono illimitati. Esse sono comunque soltanto nella mente. Se vedi la mente, il tempo e lo spazio vengono trascesi e il Sé viene realizzato.
La creazione è spiegata scientificamente o logicamente per la propria soddisfazione. Ma c’è qualche finalità in questo?
Tali spiegazioni vengono chiamate ‘krama-srishti’ (creazione graduale). D’altra parte, ‘drishti-srishti’ (creazione simultanea) è ‘yugapat-srishti’. Senza colui che vede non ci sono oggetti da vedere. Scopri “colui che vede” e la creazione è compresa in lui. Perché guardare all’esterno e continuare a spiegare fenomeni che sono senza fine?

D: I Veda contengono resoconti contraddittori sulla descrizione della cosmogonia. In un punto si dice che la prima creazione è l’etere; in un altro l’energia vitale (prana); qualcos’altro in un altro ancora; l’acqua in un altro ancora, e così via. Come si possono riconciliare questi? Non danneggiano la credibilità dei Veda?
R: Differenti veggenti videro differenti aspetti della verità in momenti differenti, enfatizzando ciascuno la propria visione. Perché ti preoccupi delle loro affermazioni contraddittorie? Lo scopo essenziale dei Veda è insegnare la natura dell’atman imperituro e mostrarci che siamo quello.

D: Sono soddisfatto di quella parte.
R: Allora tratta tutto il resto come ‘artha vada’ (argomenti ausiliari) o esposizioni a beneficio dell’ignorante che cerca di rintracciare la genesi delle cose.

D: Faccio parte della creazione e così rimango dipendente. Non posso risolvere l’enigma della creazione finché non divento indipendente. Tuttavia chiedo a Sri Bhagavan: non può egli rispondere alla domanda per me?
R: Sì. E’ Bhagavan che dice”Diventa indipendente e risolvi l’enigma tu stesso. Sta a te farlo”. Inoltre, dove sei nel momento in cui poni questa domanda? Sei nel mondo, o il mondo è all’interno di te? Devi ammettere che il mondo non è percepito nel sonno, sebbene tu non possa negare la tua esistenza allora. Il mondo appare quando ti risvegli. Così, dov’è?
Chiaramente il mondo è il tuo pensiero. I pensieri sono tue proiezioni. Innanzitutto viene creato l’”io” e quindi il mondo. Il mondo è creato dall’”io” che a sua volta sorge dal Sé. L’enigma della creazione del mondo è così risolto se risolvi la creazione dell’”io”. Così io dico, scopri il tuo Sé.
Ancora, il mondo viene forse a chiederti: “Perché esisto? Come fui creato?”. Sei tu che poni la domanda. Colui che interroga deve stabilire la relazione tra il mondo e se stesso. Deve ammettere che il mondo è la sua propria immaginazione. Chi lo immagina? Che egli ancora scopra l’”io” e quindi il Sé.
Inoltre, tutte le spiegazioni scientifiche e teologiche non si armonizzano. Le diversità in tali teorie mostrano chiaramente l’inutilità di cercare tali spiegazioni.
Queste spiegazioni sono puramente mentali o intellettuali e nulla di più. Tuttavia, tutte sono vere secondo il punto di vista dell’individuo. Non c’è creazione nello stato di realizzazione. Quando si vede il mondo, non si vede se stessi. Quando si vede il Sé, il mondo non è visto. Così, vedi il Sé e realizza che non c’è stata creazione.

D: “Brahman è reale. Il mondo (‘jagat’) è illusione” è la frase base di Sri Shankaracharya. Tuttavia altri dicono: “Il mondo è realtà”. Chi ha ragione?
R: Entrambe le affermazioni sono vere. Si riferiscono a stadi di sviluppo differenti e sono enunciate da punti di vista differenti. L’aspirante (‘abhyasi’) comincia con la definizione che quello che è reale esiste sempre. Quindi elimina il mondo come irreale perché è mutevole. Il cercatore alla fine raggiunge il Sé e là scopre l’unità come nota prevalente. Allora, quello che originariamente era stato rifiutato come irreale si scopre che è parte dell’unità. Essendo assorbito nella realtà, anche il mondo è reale. Nella realizzazione del Sé c’è soltanto essere e null’altro che essere.

D: Sri Bhagavan dice spesso che ‘maya' (illusione) e la realtà sono la stessa cosa. Come può essere?
R: Shankara fu criticato per le sue opinioni su ‘maya’ senza essere compreso. Egli disse che:
1) Brahman è reale,
2) l’universo è irreale,
3) l’universo è Brahman.
Non si fermò al secondo, perché il terzo spiega gli altri due. Ciò significa che l’universo è reale se è percepito come il Sé, ed è irreale se viene percepito come separato dal Sé. Perciò maya e la realtà sono la stessa cosa.

D: Così il mondo non è realmente illusorio?
R: Al livello del cercatore spirituale si deve dire che il mondo è un’illusione. Non c’è altro modo. Quando un uomo dimentica di essere Brahman, di essere reale, permanente e onnipresente e si illude pensando di essere un corpo nell’universo riempito di corpi transitori e si affanna sotto quell’illusione, gli deve essere ricordato che il mondo è irreale e che è un’illusione.
Perché? Perché la sua visione, dimentica del suo stesso Sé, sta dimorando sull’universo esterno, materiale. Non si volgerà all’interno nell’introspezione a meno che non gli venga impresso che tutto questo universo esterno, materiale è irreale.
Una volta che egli realizza il suo stesso Sé, conoscerà che non c’è null’altro se non il suo Sé e verrà a considerare l’intero universo come Brahman. Non c’è universo senza il Sé. Finché un uomo non vede il Sé che è l’origine di tutto, ma considera il mondo esterno come realtà permanente, gli si dovrà dire che tutto questo universo esterno è un’illusione. Non si può farne a meno.
Prendi un giornale. Vediamo solo il testo, e nessuno nota la carta su cui è scritto. La carta è presente, sia che il testo su di esso ci sia o meno. A coloro che considerano il testo come reale, devi dire che è irreale, un’illusione, poiché è “scritto” sulla carta. Il saggio considera la carta e il testo come uno; come pure per quanto concerne Brahman e l’universo.

D: Così il mondo è reale quando è sperimentato come il Sé e irreale quando è visto come nomi e forme separate?
R: Proprio come il fuoco è oscurato dal fumo, la luce splendente della coscienza è oscurata dall’insieme di nomi e forme, il mondo. Quando per mezzo della compassionevole grazia divina la mente diventa chiara, la natura del mondo verrà conosciuta essere non le forme illusorie, ma soltanto la realtà.
Solo quelle persone la cui mente è priva del malvagio potere di maya, avendo abbandonato la conoscenza del mondo ed essendo distaccata da essa, avendo perciò conseguito la conoscenza della realtà suprema autorisplendente, possono conoscere correttamente il significato dell’affermazione “Il mondo è reale”. Se il proprio modo di vedere è stato trasformato nella natura della conoscenza reale, il mondo dei 5 elementi, a partire dall’etere, sarà reale, essendo la suprema realtà che è la natura della conoscenza.
Lo stato originale di questo vuoto mondo, che è sbalorditivo e affollato da molti nomi e forme, è beatitudine, che è una, proprio come il tuorlo dell’uovo di un pavone dai molti colori è solo uno. Conosci questa verità dimorando nello stato del Sé.

D: Non posso dire che mi sia tutto chiaro. Il mondo che è visto, percepito e sentito da noi in così molti modi è qualcosa come un sogno, un’illusione?
R: Non c’è alternativa per te se non accettare il mondo come irreale se stai cercando la verità e la verità soltanto.

D: Perché?
R: Per la semplice ragione che finché non abbandoni l’idea che il mondo sia reale, la tua mente lo seguirà sempre. Se consideri reale l’apparizione non conoscerai mai il reale stesso, anche se quello che esiste è soltanto il reale. Questo punto viene illustrato dall’analogia del serpente e della corda. Puoi essere ingannato nel credere che un pezzo di corda sia un serpente. Mentre immagini che la corda sia un serpente, non puoi vedere la corda come corda. Il serpente non esistente diventa reale per te, mentre la corda reale sembra totalmente inesistente come tale.

D: E’ facile accettare sperimentalmente che il mondo in ultima analisi non è reale, ma è difficile avere la convinzione che sia veramente irreale.
R: Anche il tuo mondo di sogno è reale mentre stai sognando. Finché il tuo sogno dura, ogni cosa che vi senti e vedi è reale.

D: Allora il mondo non è migliore di un sogno?
R: Cosa c’è di errato nel senso di realtà che hai mentre stai sognando? Puoi sognare qualcosa del tutto impossibile, per esempio di avere una bella conversazione con una persona morta. Giusto per un momento puoi dubitare nel sogno dicendo a te stesso: “Non era morto?”. Ma in qualche modo la tua mente si riconcilia con la visione del sogno e la persona è come se fosse viva al fine del sogno. In altre parole, il sogno come sogno non ti permette di dubitare della sua realtà.
E’ lo stesso nello stato di veglia, poiché sei incapace di dubitare la realtà del mondo che vedi mentre sei sveglio. Come può la mente che ha creato il mondo accettarlo come irreale? Questo è il significato del paragone fatto tra il mondo dello stato di veglia e il mondo del sogno. Entrambi sono creazioni della mente e finché la mente è assorbita in uno di questi, si troverà incapace di negarne la realtà. Non può negare la realtà del mondo del sogno mentre sta sognando e non può negare la realtà del mondo della veglia quando è sveglia. Se al contrario, ritiri completamente la tua mente dal mondo e la volgi all’interno, dimorandovi, cioè se ti trovi sempre conscio del Sé, che è il substrato di tutte le esperienze, scoprirai che il mondo di cui sei ora consapevole è irreale, come il mondo in cui vivevi nel tuo sogno.

D: Noi vediamo, sentiamo e percepiamo il mondo in così tanti modi. Queste sensazioni sono le reazioni agli oggetti visti e percepiti. Non sono creazioni mentali come nei sogni che differiscono non solo da persona a persona, ma anche in riferimento alla stessa persona. Non è questo sufficiente a provare la realtà oggettiva del mondo?
R: La coscienza è sempre coscienza del Sé. Se sei conscio di qualcosa, sei essenzialmente conscio di te stesso. Esistenza non conscia di se stessa è una contraddizione di termini. Non è affatto esistenza. E’ semplicemente esistenza attribuita, laddove la vera esistenza, il ‘sat’, non è un attributo, è la sostanza stessa. E’ il ‘vastu’ (realtà). La realtà è perciò conosciuta come ‘sat-cit’, essere-coscienza, e mai solamente uno a esclusione dell’altro. Il mondo non esiste da se stesso, né è conscio della sua esistenza. Come puoi dire che un tale mondo sia reale? E qual è la natura del mondo? E’ cambiamento perpetuo, un continuo, interminabile flusso. Un mondo dipendente, non conscio di se stesso, sempre mutevole, non può essere reale.

D: I nomi e le forme del mondo sono reali?
R: Non li troverai separati dal substrato (adhishtana). Quando cerchi di arrivare a nome e forma, scopri soltanto la realtà. Perciò consegui la conoscenza di ciò che è reale in ogni tempo.

D: Perché lo stato di veglia sembra così reale?
R: Vediamo molte cose sullo schermo del cinema, ma non sono reali. Là nulla è reale eccetto lo schermo. Allo stesso modo, nello stato di veglia non c’è null’altro se non ‘adhishtana’ conoscenza del conoscitore del mondo (‘jagat-prama’ è il ‘prama’ di ‘jagat-pramata’). Entrambi scompaiono nel sonno.

D: Perché vediamo permanenza e costanza nel mondo?
R: E’ vista a causa di idee errate. Quando qualcuno dice che ha fatto il bagno due volte nello stesso fiume è in errore, perché quando si bagnò la seconda volta il fiume non era lo stesso di quando si bagnò la prima. Guardando due volte lo splendore di una fiamma un uomo dice che vede la stessa fiamma, ma quella fiamma sta cambiando in ogni momento. Così è lo stato di veglia. L’apparenza stabile è un errore di percezione.

D: Dov’è l’errore?
R: ‘Pramata’ (il conoscitore).

D: Come venne il conoscitore?
R: A causa dell’errore di percezione.
Infatti il conoscitore e le sue errate percezioni appaiono simultaneamente e quando viene ottenuta la conoscenza del Sé, scompaiono simultaneamente.

D: Da dove sono venuti il conoscitore e tutte le sue errate concezioni?
R: Chi sta ponendo la domanda?

D: Io.
R: Scopri quell’”io” e tutti i tuoi dubbi saranno risolti. Proprio come in un sogno sorgono la falsa conoscenza, un falso conoscitore e un falso conosciuto, nello stato di veglia opera lo stesso processo. In entrambi gli stati, nel conoscere questo “io” si conosce ogni cosa e non resta più niente da conoscere. Nel sonno profondo il conoscitore, la conoscenza e il conosciuto sono assenti. Allo stesso modo, al momento di sperimentare l’”io” reale essi non esisteranno. Qualunque cosa vedi accadere nello stato di veglia accade soltanto al conoscitore e poiché il conoscitore è irreale, in effetti non accade mai nulla.

D: La luce che dà l’identità al senso dell’”io” e dà la conoscenza del mondo, è ignoranza o cit, coscienza?
R: E’ soltanto la luce riflessa di cit che fa credere all’”io” di essere diverso dagli altri. Questa luce riflessa di cit fa anche creare all’”io” degli oggetti, ma affinché ci sia questo riflesso dev’esserci una superficie su cui il riflesso possa avvenire.

D: Cos’è quella superficie?
R: Realizzando il Sé scoprirai che il riflesso e la superficie su cui avviene in realtà non esistono, ma entrambi sono l’unico e il medesimo ‘cit’. c’è il mondo che richiede una collocazione per la sua esistenza e luce per renderla percepibile. Entrambi sorgono simultaneamente. Perciò l’esistenza fisica e la percezione dipendono dalla luce della mente che viene riflessa dal Sé.
Come le immagini al cinema possono essere visibili da una luce riflessa, e soltanto nell’oscurità, così anche le immagini del mondo sono percepibili soltanto grazie alla luce del Sé riflessa nell’oscurità di ‘avidya’ (ignoranza). Il mondo non può essere visto né nella totale oscurità dell’ignoranza, come nel sonno profondo, né nella suprema luce del Sé, come nella realizzazione o ‘samadhi’.

Tratto da: “Sii ciò che sei” - ‘Ramana Maharsi e il suo insegnamento’, a cura di David Godman, Ed. ‘Il Punto d’Incontro’.

A cura di Yati

seva
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Sulla solitudine

Messaggio da seva » 01/10/2016, 15:02

D.: La solitudine è di aiuto per la pratica?
M.: Cosa intendi per solitudine?
D.: Stare lontano dagli altri.
M.: Perché lo si dovrebbe fare? Lo si fa solo per paura. Anche nella solitudine c’è il timore dell’intrusione altrui e che così la solitudine venga perduta. Inoltre, come si possono cancellare i pensieri in solitudine? Non lo si dovrebbe fare nell’ambiente in cui ci si trova?
D.: Ma la mente adesso è distratta.
M.: Perché lasci andare la mente? La solitudine consiste nel rendere calma la mente e questo lo si può fare anche in mezzo alla folla. La solitudine non può cancellare i propri pensieri. È la pratica a farlo. La stessa pratica può essere fatta anche qui.

Talks, 156. Versione Francese, Trad. Bua.

A cura di Teano, tratto dal forum pitagorico


yati
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Sri Ramana Maharshi - Il ragno

Messaggio da yati » 01/10/2016, 16:40

Dopo essere partita dal sogno su Hanuman fatto qualche tempo fa – e accuratamente descritto nel Forum Satya Sai Baba in 'Nove vie per la devozione' -, quest'oggi Sky ha concluso il suo interessante excursus su 'Il Ragno nelle Upanisad' nel Forum Filosofia Vedanta (un sentito ringraziamento a Sky per il suo notevole lavoro di ricerca). :)



Anche Sri Ramana ebbe modo di parlare del Ragno in un versetto de “The Marital Garland of Letters” in 'Collected Works of Sri Ramana Maharshi':
103.
Watching like a spider to trap me in the web (of Thy grace),
Thou didst entwine me and when imprisoned
feed upon me, Oh Arunachala!
che in italiano suona pressapoco così:
103.
Per intrappolarmi nella rete (della Tua grazia), simile a un ragno
Tu mi hai avviluppato e, dopo avermi imprigionato,
Ti sei nutrito di me, Oh Arunachala!

In questo sutra è il Divino/Sé/Siva stesso che, esattamente uguale a un Ragno, tende la sua tela e noi ci cadiamo dentro proprio come succede agli insetti; Egli ci avvolge col Suo filo e, una volta che ci ha 'imbozzolati', simile a un Ragno si nutre di noi. La Sua è una rete fatta di Grazia incessante e avvolgente: come potremmo resistere?

Siamo ormai lontani, qui, dalla Bhakti di quando, rivolgendoci al Divino/Sé/Siva, sussurravamo a mezza voce: 'Tu dimmi cosa devo fare, e io lo faccio!', intendendo con questo affermare sia la volontà di agire conformemente alla Sua Legge, sia la disponibilità a rinunciare ai frutti dell'azione, in quanto essi non ci appartenevano, essendo tutti a Lui dedicati.



Leggiamo ancora un altro versetto da “The Marital Garland of Letters”, dove, seppur indirettamente, questo discorso viene ripreso e ampliato:
28.
(a) Let me, Thy prey, Surrender unto Thee and be
consumed, and so have peace, Oh Arunachala!

(b) I came to feed on Thee, but Thou hast fed on me; now
there is peace, Oh Arunachala!
che tradotto in italiano dice circa così:
28.
(a) Ti prego, lascia ch'io mi abbandoni a Te e venga assorbito in Te,
e possa così raggiungere la pace, Oh Arunachala!

(b) Sono venuto per nutrirmi di Te, ma sei stato Tu a cibarti di me;
ora c'è pace, Oh Arunachala!

Da notare la frase: 'Sono venuto per nutrirmi di Te, ma sei stato Tu a cibarti di me'.
Più usufruiamo della Sua Grazia, più siamo indotti a compiere nuove rinunce e austerità, ma più queste aumentano, più il Divino/Sé/Siva ci riempie della Sua Grazia, finché ...non resterà che Lui!

L'io appropriativo ci porta a pensare di dovere/potere attingere a piene mani alla Fonte della Sua Grazia, ci induce a ritenere di poterci impossessare del Divino/Sé/Siva e delle Sue prerogative a nostro piacimento; invece è il contrario, perché è il Divino/Sé/Siva che si impossessa di noi, cancellando pian piano la nostra individualità, facendoci Suoi (per sempre).


Quando si giunge alla consapevolezza di non essere più solo strumento del Divino/Sé/Siva, quando si ha la presa di coscienza che è il Divino/Sé/Siva stesso a risiedere in noi, ecco che ci si sente finalmente vicini alla pacificazione.
E' a questo punto, alla luce di questa nuova Consapevolezza, che la nostra Bhakti compie un salto di qualità, divenendo Para-bhakti.

Yati, forum pitagorico

seva
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Re: Sri Ramana Maharshi - Il ragno

Messaggio da seva » 01/10/2016, 16:42

Om Namo Bhagavathe Sri Ramanaya

Who Am I? - (Nan Yar?)

8. What is the nature of the mind?

What is called 'mind' is a wondrous power residing in the Self. It causes all thoughts to arise. Apart from thoughts, there is no such thing as mind. Therefore, thought is the nature of mind. Apart from thoughts, there is no independent entity called the world. In deep sleep there are no thoughts, and there is no world. In the states of waking and dream, there are thoughts, and there is a world also. Just as the spider emits the thread (of the web) out of itself and again withdraws it into itself, likewise the mind projects the world out of itself and again resolves it into itself. When the mind comes out of the Self, the world appears. Therefore, when the world appears (to be real), the Self does not appear; and when the Self appears (shines) the world does not appear. When one persistently inquires into the nature of the mind, the mind will end leaving the Self (as the residue). What is referred to as the Self is the Atman. The mind always exists only in dependence on something gross; it cannot stay alone. It is the mind that is called the subtle body or the soul (jiva).


8 . Qual è la natura della mente?

Ciò che è chiamato "mente" è un meraviglioso potere che risiede nel Sé. Essa provoca l'apparire di tutti i pensieri. Eliminati i pensieri scompare anche la mente. Quindi il pensiero è la natura della mente. Eliminati i pensieri non c'è un'entità separata chiamata mondo. Nel sonno profondo non ci sono pensieri, e non c'è mondo. Nello stato di sogno ci sono pensieri e c'è anche un mondo. Proprio come un ragno emette il filo (della ragnatela) fuori di sé e poi lo ritira in sé, così la mente proietta il mondo fuori di sé e poi lo riporta in sé. Quando la mente esce dal Sé il mondo appare.Quindi, finché il mondo appare (essere reale), il Sé non appare, e quando il Sé appare (rifulge), il mondo scompare.
Quando una persona si interroga costantemente sulla natura della mente, la mente se ne va, lasciando il Sé. Ciò che viene chiamato "Sé" è l'Atman.
La mente esiste sempre solamente in quanto legata a qualcosa di materiale. Non può esistere da sola. Questa mente viene chiamata "corpo sottile", o anima (jiva).

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Sri Ramana Maharshi - La parabola dei dieci sciocchi

Messaggio da seva » 01/10/2016, 16:46

La parabola dei dieci sciocchi


I dieci sciocchi della parabola guadarono un corso d'acqua e dopo aver raggiunto l'altra sponda vollero assicurarsi di aver tutti attraversato il guado senza danni. Uno dei dieci cominciò a contare, ma mentre contava gli altri lasciò fuori se stesso.

"Ne vedo solo nove; di sicuro ne abbiamo perduto uno. Chi può essere ?" disse. "Hai contato bene ?", chiese un altro, e cominciò a contare. Ma anch'egli contò solo nove. Uno dopo l'altro ciascuno dei dieci contò solo nove, dimenticando se stesso."Siamo soltanto nove", furono tutti d'accordo; "Ma chi manca ?", si chiesero. Ogni sforzo che fecero per scoprire l'individuo "mancante" fallì. "Chiunque sia quello che è affogato", disse il più sentimentale dei dieci sciocchi, "lo abbiamo perduto". Così dicendo scoppiò in lacrime e gli altri lo imitarono.

Vedendoli piangere sulla sponda del fiume, un viandante compassionevole ne chiese loro il motivo. Essi raccontarono cos'era accaduto e dissero che persino dopo essersi contati parecchie volte non poterono contarsi più di nove. Nell'udire la loro storia, ma vedendoli tutti davanti a lui, il viandante intuì ciò che era accaduto. Al fine di far conoscere loro di essere realmente dieci e che tutti erano sopravissuti al guado, disse loro:

"Che ognuno di voi conti se stesso, ma uno dopo l'altro, in serie, uno, due, tre e così via, mentre io darò un colpo a ciascuno, così sarete sicuri di essere tutti inclusi nel conteggio...e inclusi una volta solamente. Allora il decimo uomo mancante verrà trovato". Udendo ciò, essi si rallegrarono alla prospettiva di ritrovare il loro compagno "perduto" e accettarono il metodo suggerito dal viandante. Mentre il gentile viandante dava a turno un colpo a ognuno dei dieci, quello che veniva colpito contava se stesso ad alta voce. "Dieci", disse l'ultimo uomo mentre riceveva l'ultimo colpo. Meravigliati, si guardarono l'un l'altro. "Siamo dieci", dissero con una sole voce e ringraziarono il viandante per aver rimosso la loro angoscia.

Questa è la parabola. Da dove fu introdotto il decimo uomo ? Era mai stato perduto ? Venendo a sapere che egli era stato sempre là, impararono forse qualcosa di nuovo ? La causa della loro angoscia non era la perdita di qualcuno, ma era la loro stessa ignoranza o, piuttosto, la semplice supposizione che uno di loro fosse stato perduto.

Tale è il tuo caso. In verità non c'è alcuna ragione per te di essere miserabile ed infelice. Tu stesso imponi delle limitazioni alla tua vera natura di essere infinito e quindi ti lamenti di essere una creatura finita. Quindi intraprendi questa o quella pratica spirituale per trascendere limitazioni inesistenti. Ma se la tua stessa pratica spirituale ammette l'esistenza delle limitazioni, come può aiutarti a trascenderle ?

Sappi che tu sei realmente l'infinito puro essere, il Sè. Tu sei sempre quel Sè e nient'altro che quel Sè. Quindi non puoi mai essere realmente ignorante del Sè. La tua ignoranza è semplicemente un'ignoranza immaginaria, come l'ignoranza dei dieci sciocchi a proposito del decimo uomo perduto. E' questa ignoranza che provocò la loro angoscia.

Sappi allora che la vera conoscenza non crea per te un nuovo essere, rimuove soltanto la tua ignorante ignoranza. La beatitudine non viene aggiunta alla tua natura, viene semplicemente rivelata come il tuo vero stato naturale, eterno ed immortale. Il solo modo per liberarti della tua angoscia è conoscere ed essere il Sè. Come può essere irraggiungibile ciò ?

Tratto da "Sii ciò che sei" a cura di David Godman
Edizioni "Il Punto d'Incontro" pag 33-34-35

A cura di Namarupa, forum pitagorico

seva
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Atma-Vichara (estratti da "Sii ciò che sei")

Messaggio da seva » 01/10/2016, 23:52

Pag 62 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Da dove sorge questo "io" ? Cercatelo all'interno; esso allora svanirà. Questa è la ricerca della saggezza. Quando la mente indaga incessantemente la propria natura, trapela che non esiste una cosa come la mente. Questo è il sentiero diretto per tutti. La mente è semplicemente pensieri. Di tutti i pensieri il pensiero "io" ne è la radice. Perciò la mente è solo il pensiero "io".

La nascita del pensiero "io" è la nostra propria nascita, la sua morte è la morte della persona. Dopo che è sorto il pensiero "io", sorge l'errata identificazione col corpo. Liberatevi dal pensiero "io". Fino a che è vivo l'"io" c'è angoscia. Quando l'"io" cessa di esistere non c'è più angoscia.

Pag 63 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Sebbene il concetto dell' "io" o "io sono", per consuetudine sia conosciuto come aham-vritti, non è realmente una vritti (modificazione) come le altre vritti della mente. Perchè a differenza di altre vritti che non hanno essenziale interdipendenza, l'aham-vritti è ugualmente ed essenzialmente in relazione ad ogni singola vritti della mente.
Senza l'aham-vritti non ci possono essere altre vritti, ma l'aham-vritti può sussistere da sola senza dipendere da nessun'altra vritti della mente. L'aham-vritti è perciò fondamentalmente differente da altre vritti. Così la ricerca della sorgente dell'aham-vritti non è meramente la ricerca della base di una delle forme dell'ego, ma della fonte stessa da cui sorge l' "io sono".

Pag 67 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

D. Perchè soltanto l'autoindagine dovrebbe essere considerata il mezzo diretto per jnana ?
R. Perchè ogni tipo di sadhana, eccetto quella dell'atmavichara (autoindagine), quale strumento per portare avanti la sadhana, presuppone il trattenere la mente e, senza la mente, i vari tipi di sentiero non possono essere praticati. L'ego può assumere forme differenti e più sottili in differenti stadi della propria pratica, ma non viene mai distrutto.

Pag 68 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

La realtà è semplicemente la perdita dell'ego. Distruggi l'ego cercandone l'identità. Poichè l'ego non è un'entità, svanirà automaticamente e la realtà risplenderà da se stessa. Questo è il metodo diretto, laddove tutti gli altri metodi vengono eseguiti soltanto mantenendo l'ego.
In quei sentieri sorgono molti dubbi e alla fine rimane da affrontare l'eterna questione "Chi sono io ?". Ma in questo metodo la questione finale è l'unica ed è sollevata dall'inizio. Nessuna sadhana è necessaria per impegnarsi in questa ricerca.

Pag 71 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

D. Dici che si può realizzare il Sè cercandolo. Qual'è la natura di questa ricerca ?
R. Tu sei la mente o pensi di essere la mente. La mente non è altro che i pensieri. Ora dietro ad ogni pensiero particolare c'è un pensiero generale che è l' "io", che sei tu. Chiamiamo questo "io" il primo pensiero. Attaccati a questo pensiero "io" ed esaminalo per scoprire cos'è. Quando questa domanda si impossessa di te non puoi pensare ad altri pensieri.

Pag 72 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Se la mente diventa introversa tramite l'indagine sulla sorgente dell'aham-vritti le vasana si estinguono. La luce del Sè cade sulle vasana e produce il fenomeno del riflesso che chiamiamo mente. Così, quando le vasana vengono estinte scompare anche la mente, che viene assorbita nella luce della sola realtà, il Cuore. Questa è la somma e la sostanza di tutto ciò che un aspirante ha bisogno di sapere. Ciò che gli viene imperiosamente richiesto è una fervida e focalizzata indagine sulla sorgente dell'aham-vritti.

La mente si calmerà soltanto per mezzo dell'indagine "Chi sono io ?". Il pensiero "Chi sono io ?", distruggendo tutti gli altri pensieri, verrà esso stesso distrutto, come il bastone usato per attizzare la pira funeraria.

Pag 79 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Cerca la sorgente del pensiero "io". Questo è tutto ciò che si deve fare. L'universo esiste a causa del pensiero "io". Se questo ha termine, termina anche la miseria. Il falso "io" finirà soltanto quando verrà cercata la sua sorgente.

Pag 80 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

D. Nel rivolgere la mente all'interno non stiamo ancora impiegando la mente ?
R. Naturalmente stiamo inpiegando la mente. E' ben risaputo ed ammesso che la mente può essere uccisa soltanto con l'aiuto della mente. Ma invece di partire dicendo che c'è una mente e che vuoi ucciderla, comincia a cercare la sorgente della mente e scoprirai che la mente non esiste affatto. La mente, volta all'esterno, si risolve in pensieri e oggetti. Volta all'interno, diventa essa stessa il Sè.

Pag 83 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

D. I dubbi sorgono sempre. Perciò sorge la mia domanda.
R. Sorge un dubbio ed è chiarito, ne sorge un altro e viene chiarito facendo spazio ad un altro ancora e così via. Perciò non c'è possibilità di chiarire tutti i dubbi. Vedi a chi sorgono i dubbi. Vai alla loro sorgente e rimani in essa. Allora smettono di sorgere. Ecco come i dubbi devono essee chiariti.

L'indagine sul Sè non è certamente una formula vuota ed è più della ripetizione di qualunque mantra. Se l'indagine "Chi sono io ?" fosse una semplice domanda mentale, non avrebbe molto valore. Il vero scopo dell'autoindagine è di focalizzare l'intera mente sulla sua sorgente. Non è perciò il caso di un "io" che cerca un altro "io". Tanto meno l'autoindagine è una formula vuota, poichè coinvolge un'intensa attività di tutta la mente per mantenerla stabilmente in equilibrio nella pura consapevolezza del Sè.

Pag 85 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Il tuo dovere è essere, non essere questo o quello. "Io sono quello che sono" riassume l'intera verità

Pag 89 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

La verità non può essere indicata direttamente. Perciò questo processo è intellettuale. Vedi, colui che elimina tutto il "non io" non può eliminare l' "io". Per dire "Io non sono questo" o "Io non sono quello" deve esserci un "io". Questo "io" è soltanto l'ego, o il pensiero "io". Dopo il sorgere di questo pensiero "io" vengono tutti gli altri pensieri. Perciò il pensiero "io" è pensiero radice. Se la radice viene strappata, tutte le altre verranno sradicate contemporaneamente. Cerca quindi la radice "io" e chiediti: "Chi sono io ?". Scopri la sorgente, ed allora tutte le altre idee svaniranno e resterà il puro Sè.

Pag 90 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

D. Devo continuare a ripetere "Chi sono io ?" in modo da farne un mantra ?
R. No. "Chi sono io ?" non è un mantra. Significa che devi scoprire dove sorge in te il pensiero "io", che è la sorgente di tutti gli altri pensieri.

Scopri la sorgente. Devi raggiungere la sorgente senza fallire. Il falso "io" sparirà e l'"io" reale verrà realizzato. Il primo non può esistere separato dal secondo. Ora c'è un'erronea identificazione del Sè col corpo, i sensi, eccetera. Tu procedi a scartarli, e questo è neti. Ciò si può fare solo trattenendo ciò che non si può scartare. Quello è iti, quello che è.

Pag 93 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Dici che "Chi sono io ?" diventa japa. Non si intende che tu debba procedere chiedendoti: "Chi sono io ?". In quel caso il pensiero non morirebbe così facilmente. Nel metodo diretto, come lo chiami tu, nel chiederti "Chi sono io ?" ti viene detto di concentrarti all'interno di te stesso dove sorge il pensiero "io", la radice di tutti gli altri pensieri. Poichè il Sè non è esterno, ma è all'interno di te, ti viene chiesto di tuffarti all'interno invece di andare all'esterno.
Cosa può essere più facile dell'andare verso te stesso ? Ma rimane il fatto che a qualcuno questo metodo sembrerà difficile e poco attraente. Questo è il motivo per cui sono stati insegnati così tanti metodi diversi. Ciascuno di essi attirerà qualcuno come il migliore ed il più facile. Ciò avviene secondo la loro pavka o idoneità. Ma per qualcuno nulla sarà attraente eccetto il vichara marga (il sentiero dell'indagine).
Essi chiederanno: "Tu vuoi che io conosca o veda questo o quello. Ma chi è il conoscitore, colui che vede" ? Qualunque altro metodo venga scelto, ci sarà sempre un agente. Non si può sfuggire a ciò. Si deve scoprire chi è l'agente. Fino ad allora, la sadhana non avrà termine. Così alla fine tutti devono arrivare a scoprire "Chi sono io ?"

Pag 138 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

Questo sentiero (l'attenzione all' "io") è il sentiero diretto; tutte le altre vie sono indirette. La prima conduce al Sè, le altre altrove. Ed anche se queste ultime arrivano al Sè è soltanto perchè alla fine conducono al primo sentiero che poi le porta alla meta. Così, alla fine, gli aspiranti devono adottare il primo sentiero. Perchè non farlo ora ? Perchè sprecare tempo ?

Pag 207 "Sii ciò che sei" a cura di David Godman

R. Non c'è altro modo di avere successo se non quello di riportare indietro la mente ogni volta che si volge all'esterno e fissarla nel Sè. Non c'è bisogno di meditazione o mantra o japa o nessun'altra cosa del genere, perchè questa è la nostra reale natura. Tutto ciò che è necessario è smettere di pensare ad oggetti diversi da Sè.
La meditazione non è tanto pensare al Sè, quanto abbandonare il pensiero del non-Sè. Quando abbandoni il pensiero degli oggetti ed impedisci alla mente di andare all'esterno volgendola all'interno e fissandola nel Sè, rimane solo il Sè.

Estratti da: "Sii ciò che sei", a cura di David Godman
Edizioni: Il Punto di Incontro (terza edizione)

A cura di Namarupa, Forum Pitagorico

yati
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Il "clou"

Messaggio da yati » 01/10/2016, 23:54

...prima qualche fatterello di 'vita vissuta'... ;)


Come ho avuto modo di dire una volta qui sul forum in un dialogo con Laura, fino a qualche anno fa non avevo mai letto/frequentato/conosciuto libri/ambienti/ricercatori che avessero a che fare con lo yoga e simili, per cui l'autoindagine che ho condotto per i tanti anni precedenti l'incontro con lo yoga e la comparsa del Maestro ha avuto necessariamente una connotazione personale.

Quando ho incontrato gli scritti di Sri Ramana la mia autoindagine era già in atto da molti anni e, pur riscontrando che gli elementi fondamentali combaciavano con l'Atma-Vichara, non ho però avuto un'esperienza di base direttamente improntata su di essa.

Ho comprato il libro 'Sii ciò che sei' sugli insegnamenti di Ramana Maharshi (che per me fino a quel momento era uno sconosciuto) solo pochi anni fa e ...mi sono fermata per qualche mese sul titolo, senza leggerne alcun brano, interrogandomi su che cosa significasse per me l'espressione 'essere ciò che si è'.

Anche in seguito, pur leggendo il libro e ampliando il campo d'indagine sugli scritti di Sri Ramana ad altri testi variamente reperibili, mi sono sempre soffermata a lungo sulla singola frase (o anche su una sola parola) per me significativa, vuoi perché magari dovevo vagliare un'esperienza fatta in precedenza, oppure vuoi perché, avendo scoperto in essa il prossimo passo da compiere, avevo bisogno del tempo necessario per assimilarla e 'renderla mia'.

Questa lunga premessa è per dire a Namarupa che mi scuso con lui per non aver risposto positivamente al suo post in 'Ahamvritti' circa la possibilità di raccogliere insieme i suoi e i miei brani sull'Atma-Vichara di Sri Ramana estratti da 'Sii ciò che sei'.

Non era mia intenzione negare collaborazione o disponibilità, molto semplicemente non ho mai fatto raccolte di brani simili alle sue. Quando propongo degli scritti di Sri Ramana (e questo vale anche per gli altri testi che trascrivo) la scelta degli estratti avviene in quel momento, a seconda del tema che intendo sviluppare.



...poi si arriva – finalmente! - al 'clou'... :D


L'argomento vero del post è però un altro. Leggendo i brani trascritti da Namarupa sull'Atma-Vichara, mi è venuto spontaneo richiamare alla memoria il motivo per cui si comincia a svolgere un'autoindagine. Ovviamente, ne posso parlare soltanto dal punto di vista di chi prima l'ha esperita e poi ne ha trovato le tracce e i riscontri nei testi e nelle testimonianze.

La ricerca lungo il sentiero jnana non è naturalmente l'unica possibilità che ci sia data, e anzi è questa una via spesso giudicata più complessa delle altre. Non è difficile capirne la ragione: è un cammino in cui l'azione è molto concentrata e solo interna, perché si lavora su se stessi, in se stessi e per mezzo di se stessi e questo è di certo più arduo che non farlo utilizzando anche degli aspetti esteriori.


Come si legge in un brano di Sri Ramana tra quelli trascritti da Namarupa, tutti i cammini giungono prima o poi al sentiero jnana, ma un conto è arrivarci già parzialmente 'sgrezzati' dopo aver svolto una parte della sadhana in altri percorsi, un altro è invece intraprendere il jnana fin dall'inizio.

In genere, nelle varie vie c'è la possibilità della condivisione di rituali, canti e preghiere comuni da rivolgere al Divino in un tempio o in una chiesa, o c'è l'opportunità dell'esecuzione di asana e pranayama da svolgersi collettivamente in un'aula di yoga, o ci sono comunque due parole e un sorriso da scambiare con chi condivide con noi il servizio.

Questi aspetti esteriori e comunitari, riscontrabili in tutti quei cammini che adottino anche un approccio esterno, non si ritrovano nel jnana marga, che è da considerarsi quindi una via tendenzialmente solitaria, adatta a chi sia in grado di badare esclusivamente all'essenziale.


Il rischio maggiore che ho ravvisato nel sentiero jnana è quello che il ragionamento diventi fine a se stesso e prenda il sopravvento, e si finisca così per fare 'esercizi di stile', anziché mantenere la riflessione focalizzata sull'obiettivo prefissato.

D'altra parte, il perdere di vista la finalità è connaturato a qualsiasi sentiero: il bhakta può disperdersi nei mille rivoli dell'esteriorità rituale, l'hatha yogi può attenzionare troppo la perfezione del corpo, il karma yogi può indugiare sulla gratificazione derivante dal servizio.

Poiché 'essere ciò che si è' non dovrebbe costituire un'impresa impossibile e dovrebbe anzi rappresentare un'opportunità concreta e la possibilità di dare un senso alla propria esistenza terrena, sembrerebbe assurdo non sfruttare fino in fondo le proprie potenzialità per realizzare una felicità duratura, secondo quella che è la nostra reale natura. Perché è evidente che, qualunque sia la propria via, lo scopo per il quale la s'intraprende è identico per tutti: si cerca la felicità.


Nel corso delle sue conversazioni, Sri Ramana ha spesso evidenziato che l'aspirazione alla felicità costituisce il 'motore' che dà l'avvio alla ricerca della verità ed ha più volte rimarcato che attraverso l'Atma-Vichara si può giungere al riconoscimento della beatitudine del Sé, che è sempre presente sebbene ce ne manchi la consapevolezza.

Leggiamo dunque le parole di Sri Ramana inerenti alla ricerca della felicità in alcuni brani tratti dalla traduzione italiana di 'Talks with Sri Ramana Maharishi':


“Ognuno nel mondo desidera essere sempre felice, libero dalla macchia del dolore; desidera liberarsi delle malattie fisiche che non fanno parte della sua vera natura. Ognuno nutre per se stesso il più grande amore, e quest'amore non è possibile in mancanza di felicità. Nel sonno profondo, sebbene privi di ogni altra cosa, si è felici; tuttavia, per l'ignoranza della vera natura del proprio essere, che è la stessa felicità, la gente si dibatte nell'immenso oceano dell'esistenza materiale, dimentica la retta via che conduce alla felicità e agisce credendo erroneamente che la via alla felicità consista nell'ottenere i piaceri di questo e dell'altro mondo.”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 349, vol. II, pag. 14, Ed. Vidyananda.]


“Ogni uomo cerca la felicità, ma la confonde erroneamente con il piacere che è inseparabile dal dolore. Questo tipo di felicità è transitoria. Le azioni sbagliate procurano all'uomo soltanto piaceri di breve durata. Piacere e dolore si alternano nel mondo. Saper discriminare tra ciò che procura piacere e ciò che procura dolore, e limitarsi soltanto alla ricerca delle cose che danno felicità è 'vairagya'. Che cos'è che non viene seguito dal dolore? L'uomo deve intraprendere la ricerca della verità e praticare il 'vairagya', altrimenti resterà con un piede sulla terra (in cerca dei piaceri mondani) e un altro piede nel cielo (alla ricerca dei piaceri spirituali), senza fare alcun progresso in nessuno dei due campi.”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 302, vol. I, pag. 269, Ed. Vidyananda.]


“Si prova felicità contemplando spettacoli piacevoli, ecc. si tratta della felicità insita nel Sé che non vi è estranea né lontana. Ogni volta che vi trovate in circostanze che considerate piacevoli v'immergete nel puro Sé. Questa immersione rivela l'esistenza della Beatitudine del Sé, però la vostra associazione d'idee attribuisce questa beatitudine ad altre cose o avvenimenti. In effetti, è dentro di voi. In queste occasioni v'immergete nel Sé, anche se inconsciamente. Desidero che v'immergiate coscientemente nel Sé, cioè nel Cuore.”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 254, vol. I, pag. 218, Ed. Vidyananda.]


“Diciamo che c'è felicità quando vi è un contatto desiderabile o se ne ha memoria, e quando si è liberi da contatti indesiderabili o dai loro ricordi. Tale felicità è relativa e sarebbe meglio chiamarla piacere.
Gli uomini desiderano la felicità assoluta e permanente, che non risiede negli oggetti, ma nell'Assoluto. E' la Pace libera dal dolore e dal piacere, è uno stato neutro.

La Felicità Perfetta è Brahman. La Pace Perfetta è quella del Sé. Quello soltanto esiste ed è cosciente. Si perviene alle stesse conclusioni con il ragionamento metafisico e attraverso la via della devozione (bhakti marga).”


[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 28, vol. I, pag. 40, Ed. Vidyananda.]


“Se un uomo pensa che la sua felicità dipenda da cause esteriori e da ciò che possiede, è ragionevole concludere che la sua felicità debba aumentare quando possiede più cose e diminuire in proporzione al loro decrescere. Di conseguenza, se fosse privo di possessi, la sua felicità sarebbe zero. Qual è la vera esperienza dell'uomo? E' conforme a questo?
Nel sonno profondo l'uomo non possiede nulla, neppure il proprio corpo, ma invece d'essere infelice, è molto felice. Tutti desiderano dormire profondamente. Se ne conclude che la felicità appartiene all'uomo e non è dovuta a cause esteriori. Per accedere all'immensa riserva della pura felicità bisogna realizzare il Sé.”


[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 3, vol. I, pag. 11, Ed. Vidyananda.]


“Presto andrete a dormire. Quando domattina vi sveglierete, direte: “Ho dormito bene e felicemente”. Ciò che è accaduto nel sonno, lo stato di benessere che avete avvertito, è la vostra vera natura. E continua anche in questo momento, nello stato di veglia, altrimenti non sarebbe la vostra vera natura.
(…) Forse non esistete nel sonno? Siete consapevole di qualche forma in quello stato? Avete una forma? Eppure esistete lo stesso. L' 'io' che esiste nel sonno è presente anche in questo momento. Nell'esperienza fatta nel sonno, non v'identificate col corpo. In questo momento voi siete la stessa di prima.”


[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 304, vol. I, pag. 271, Ed. Vidyananda.]


“Come stavate nel sonno? Allora non c'era il pensiero 'io' ed eravate felice. Mentre al risveglio del pensiero-radice 'io', i pensieri riemergono nel jagrat [stato di veglia] e nascondono la vostra felicità innata. Liberatevi dei pensieri, che sono gli ostacoli alla felicità. Il vostro stato naturale è la felicità, come vi è palese nel sonno.”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 321, vol. I, pag. 291, Ed. Vidyananda.]


“Il desiderio di felicità (sukha prema) è una prova della felicità eterna del Sé; altrimenti come potrebbe sorgere in voi tale desiderio? Se il mal di testa fosse naturale agli esseri umani, nessuno cercherebbe di liberarsene; ma chiunque abbia un mal di testa cerca di liberarsene, perché ha conosciuto momenti in cui non l'aveva. Si desidera soltanto lo stato che ci è naturale; allo stesso modo, si desidera la felicità perché ci è naturale. Essendo naturale, non è acquisita. Gli sforzi dell'uomo possono essere diretti solo a liberarsi dell'infelicità; fatto questo, si percepisce la beatitudine sempre presente. La beatitudine originaria è oscurata dal non-sé, che è sinonimo di non-beatitudine o infelicità. La perdita dell'infelicità equivale ad ottenere la felicità. La felicità mista ad infelicità è solo infelicità.

Quando si elimina l'infelicità, si ottiene la beatitudine sempre presente. Il piacere che termina nel dolore è infelicità. L'uomo desidera evitare tale piacere. I piaceri sono 'priya', 'moda' e 'pramoda'. Quando un oggetto desiderato è a portata di mano, c'è 'priya'; quando lo si possiede c'è 'moda', quando se ne gode prevale 'pramoda'. Il motivo per cui questi stati sono piacevoli è perché un pensiero esclude tutti gli altri, e infine anche questo singolo pensiero si fonde nel Sé. Questi stati si godono solo nell' 'anandamaya kosha'. Di regola il 'vijnanamaya kosha' prevale nella veglia. Nel sonno profondo tutti i pensieri scompaiono e lo stato d'oscuramento è pieno di beatitudine; là il corpo che prevale è l' 'anandamaya'. Questi corpi sono solo rivestimenti e non il Centro, che è al loro interno e si trova oltre la veglia, il sogno e il sonno profondo. Esso è la Realtà ed è fatto di vera beatitudine (nilananda).”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 619, vol. II, pag. 275, Ed. Vidyananda.]


“Essendo fatti per natura di felicità, perché si continua a desiderarla? Essere liberati da quel desiderio è di per sé la salvezza. Le sacre scritture dicono: “Tu sei Quello”. Il loro scopo è impartire questa conoscenza. La realizzazione consiste nello scoprire chi siete e nel rimanere 'Quello', cioè il Sé. Ripetere 'io sono questo' o 'non sono quello' è solo una perdita di tempo. Per il vero discepolo il lavoro sta dentro e non fuori.”

[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 227, vol. I, pag. 192, Ed. Vidyananda.]


“Chi desidera la liberazione? Tutti vogliono soltanto la felicità, che si trova anche nei piaceri dei sensi. Questa domanda fu posta a un guru, che rispose: “Proprio così. La felicità che proviene dai piaceri dei sensi è la stessa della liberazione. Il desiderio di liberazione è uno dei quattro requisiti necessari per ottenerla. Ciò vale per tutti. Così ciascuno di noi può aspirare a questa conoscenza, la conoscenza del Sé”.
In effetti, è probabile che nel mondo non si trovi un solo individuo che possieda perfettamente tutte le qualità necessarie ad un aspirante spirituale, come richiesto negli Yoga Sutra, ma non bisogna abbandonare la ricerca della conoscenza del Sé.
Ciascuno è il Sé per esperienza diretta, ma non ne è consapevole poiché identifica il Sé con il corpo e si sente infelice. Questo è il più grande di tutti i misteri. Ognuno è il Sé. Allora perché non rimanere il Sé e sbarazzarsi delle sofferenze?
All'inizio l'aspirante ha bisogno di sentirsi dire che non è il corpo, perché crede di essere unicamente il corpo. Invece egli è il corpo più tutto il resto. Il corpo è solo una parte. Che lo capisca alla fine. Dapprima deve distinguere la coscienza dall'incoscienza ed essere soltanto coscienza. Questa è la discriminazione (viveka). La discriminazione iniziale deve essere mantenuta sino al termine. Il suo frutto è la liberazione.”


[Discorsi con Sri Ramana Maharshi, Talk 192, vol. I, pag. 164, Ed. Vidyananda.]


yati

seva
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Sogniamo?

Messaggio da seva » 01/10/2016, 23:57

Sogniamo?

Persino il pensiero “Io non realizzo” è un ostacolo. In effetti, il Sé soltanto è. La nostra natura reale è mukti (liberazione). Ma stiamo immaginando di essere vincolati e stiamo compiendo vari strenui tentativi per diventare liberi, mentre nel frattempo lo siamo già. Ciò verrà compreso soltanto quando raggiungeremo quello stadio. Saremo sorpresi di vedere che stavamo cercando freneticamente di conseguire qualcosa che siamo sempre stati.

Un esempio chiarirà questo punto. Un uomo va a dormire in questa sala. Sogna di essere partito per un viaggio intorno al mondo, sta vagando per valli e colline, foreste e campagne, deserti e mari, attraverso vari continenti e dopo molti anni di viaggi duri e faticosi torna in questo paese, arriva a Tiruvannamalai, entra nell’ ashram e cammina nella sala. Proprio in quel momento si sveglia e scopre che non si è mosso di un centimetro, ma che stava dormendo dove si era sdraiato. Non è tornato in questa sala dopo grande sforzo, ma è ed è sempre stato in questa sala.

E’ esattamente così. Se viene chiesto: “Perché, essendo liberi immaginiamo di essere prigionieri?”, io rispondo: “Perché essendo nella sala immaginate di essere in viaggio intorno al mondo, attraverso valli e colline, deserti e mari ? E’ tutto mente o maya (illusione)”



Da “Sii ciò che sei” di Ramana Maharshi


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seva
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Jagat

Messaggio da seva » 01/10/2016, 23:58

Dai Talks:

33
V.: Shankaracharya ripeteva sempre: "Lo spirito Supremo (Brahman) è Reale. Il mondo (Jagat) è un'illusione. Altri però dicono: "Il mondo è reale. Quale delle due afermazioni è vera?
M.: Entrambe le affermazioni sono vere. Si riferiscono a fasi differenti di sviluppo e sono espresse da punti di vista differenti. L'aspirante (abhyasi) parte con la definizione: cio' che è Reale esiste per sempre. Poi elimina il mondo come irreale, perchè è mutevole.Non puo' essere reale: "né questo né quello"! Infine il ricercatore raggiunge il Se', e trova come nota dominante l'unità. Allora scopre che quel che prima era stato rifiutato come irreale fa parte dell'unità. Essendo assorto nella Realtà, anche il mondo è Reale. Nella realizzazione del Sé vi è solo essere, niente altro che essere. Si può anche impiegare il termine Realta' in un altro senso; certi pensatori lo applicano in maniera inappropriata agli oggetti. Essi dicono che la Realtà riflessa (adhyasika) ha dei gradi che chiamano:
1) Vyavaharika satya (la vita quotidiana): io vedo questa sedia, che è reale.
2) Pratibhasika satya (la vita illusoria): l'illusione di vedere un serpente in una corda arrotololata su se stessa. L'apparenza del serpente è reale per colui che ci crede. Si tratta di un fenomeno limitato nel tempo e dipendente da certe circostanze.
3) Paramartika satya (lo stato ultimo): la Realtà è quella che rimane sempre la stessa e non cambia mai.
Se il termine Realtà viene usato nel senso più ampio, si può dire che il mondo comprende la vita quotidiana e i diversi gradi di vita illusoria. Alcuni però negano anche la realtà della vita quotidiana e la considerano solo una proiezione della mente; per essi non è altro che un'illusione.

65
V.: "Il mondo (Jagat) è percepito anche dopo la realizzazione del Sé?
M.: Chi pone questa domanda? Un jnani o un ajnani?
V.: Un ajnani.
M.: Realizzate a chi sorge la domanda. E' possibile avere la risposta se la domanda viene posta dopo aver saputo chi la pone. Può il mondo o il corpo dire che esistono? Oppure è lo spettatore a dire che jagat e il corpo esistono?
Per vedere lo spettacolo è necessario che ci sia uno spettatore. Scoprite prima chi è lo spettatore. Perchè preoccuparvi adesso di ciò che sarà nell'aldilà?
Che importa se jagat è percepito o meno? Avete guadagnato qualcosa dalla percezione attuale di Jagat? Avete perso qualcosa percependo il mondo adesso? Guadagnate qualcosa quando non lo percepite durante il sonno? Non ha alcuna importanza che il mondo venga percepito o no.
L'ajnani vede che il jnani è attivo e ne rimane confuso. Entrambi percepiscono Jagat, ma il loro modo di vedere è differente. Prendete l'esempio del cinema. Delle immaginisi muovono sullo schermo. Se cercate di prenderle, che cosa afferrerete? Soltanto lo schermo. Quando le immagini scompaiono, che cosa resta? Ancora lo schermo. Lo stesso accade qui.
Quando il mondo appare cercate di vedere a chi appare. Afferrate il sostrato dell'IO. Una volta afferrato il sostrato, che importa se il mondo appare o scompare? L'ajnani pensa che il mondo sia reale, mentre il jnani lo vede solo come una manifestazione del Sé. Non ha alcuna importanza che il Sé si manifesti o smetta di farlo.

[...] continua

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yati
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Surrender (abbandono)

Messaggio da yati » 02/10/2016, 0:06

SURRENDER (abbandono)

Dall'Introduzione di David Godman
Molte delle tradizioni religiose del mondo patrocinano l'abbandono a Dio come mezzo per trascendere il sé individuale. Sri Ramana accettava la validità di un tale approccio e spesso disse che questo metodo era efficace come l'autoindagine. Tradizionalmente il sentiero dell'abbandono è associato a pratiche devozionali dualistiche, ma tali attività erano di importanza secondaria per Sri Ramana. Invece egli enfatizzava il fatto che il vero abbandono trascendeva l'adorazione di Dio in una relazione soggetto-oggetto, poiché esso poteva essere realizzato con successo solo quando colui che immaginava di essere separato da Dio cessava di esistere. Per raggiungere questa meta egli raccomandava due distinte pratiche:

1) Aggrapparsi al pensiero “io”finché colui che immagina di essere separato da Dio scompare.

2) Abbandonare completamente tutta la responsabilità della propria vita a Dio o al Sé. Affinché tale autoabbandono sia efficace, non si devono avere volontà o desideri propri e si deve essere completamente liberi dall'idea che vi sia una persona individuale capace di agire indipendentemente da Dio.

Il primo metodo è chiaramente l'inchiesta sul Sé mascherata sotto in diverso nome. Sri Ramana uguagliava spesso le pratiche dell'abbandono e dell'indagine dicendo che erano nomi diversi dello stesso processo, o che erano i sue soli mezzi efficaci con i quali si potesse raggiungere la realizzazione del Sé. Questo è del tutto coerente con la sua opinione secondo la quale qualunque pratica che coinvolgesse la consapevolezza del pensiero “io” era un percorso valido e diretto verso il Sé, laddove tutte le pratiche che non comportavano questa consapevolezza non lo erano. Questa insistenza sulla consapevolezza soggettiva dell'”io” come unico mezzo per raggiungere il Sé caratterizzava la sua attitudine verso le pratiche della devozione ('bhakti') e dell'adorazione, che sono solitamente associate all'abbandono a Dio. Egli non scoraggiava mai i suoi devoti dal seguire tali pratiche, ma indicava che ogni relazione con Dio (devoto, adoratore, servo, eccetera) era illusoria, poiché esiste soltanto Dio. La vera devozione, diceva, è quella di rimanere come si è realmente, nello stato d'essere in cui tutte le idee sulle relazioni con Dio hanno cessato di esistere.

Il secondo metodo, l'abbandonare a Dio la responsabilità della propria vita, è anch'esso in relazione all'indagine sul Sé perché mira a eliminare il pensiero “io” separandolo dagli oggetti e dalle azioni con cui si identifica costantemente. Nel seguire questa pratica ci dovrebbe essere una costante consapevolezza che non c'è un “io” individuale che agisce o desidera, solo il Sé esiste e non c'è nulla di separato dal Sé in grado di agire in modo indipendente. Seguendo questa pratica, ogni volta che si diventa consapevoli di assumersi la responsabilità dei pensieri e delle azioni – per esempio “io voglio” o “io sto facendo questo” - si dovrebbe cercare di ritirare la mente dai suoi contatti esterni e fissarla nel Sé. Questo è analogo al trasferimento dell'attenzione che avviene nell'autoindagine quando si realizza che si è persa l'autoattenzione. In entrambi i casi lo scopo è isolare il pensiero “io” e farlo scomparire nella sua sorgente.

Sri Ramana stesso ammetteva che il completo e spontaneo abbandono dell'”io” con questo metodo era una meta irraggiungibile per molte persone, così egli a volte consigliava ai suoi seguaci di intraprendere degli esercizi preliminari che avrebbero coltivato la loro devozione e controllato le loro menti. La maggior parte di queste pratiche comportava il pensare o il meditare su Dio o sul 'guru' ripetendone costantemente il nome ('japa') o visualizzandone la forma. Egli diceva ai suoi devoti che se veniva fatto regolarmente con amore e devozione, allora la mete si sarebbe assorbita senza sforzo nell'oggetto della meditazione. Una volta che ciò è stato raggiunto, il completo abbandono diventa molto più facile. La consapevolezza costante di Dio impedisce alla mente di identificarsi con altri oggetti e aumenta la convinzione che esiste Dio soltanto. Produce anche un reciproco flusso di potere, o grazia, dal Sé che indebolisce la presa del pensiero “io” e distrugge le 'vasana' che perpetuano e rafforzano la sua esistenza. Alla fine il pensiero “io” è ridotto a proporzioni minime e con un po' di autoattenzione può essere fatto sprofondare temporaneamente nel Cuore.

Come con l'indagine sul Sé, la realizzazione finale è provocata automaticamente dal potere del Sé. Quando tutte le tendenze esteriorizzanti della mente sono state dissolte nelle ripetute esperienze dell'essere, il Sé distrugge il residuo pensiero “io” così completamente che non sorgerà mai più. Questa distruzione finale dell'”io” avviene solo se l'abbandono è stato completamente disinteressato. Se è fatto col desiderio della grazia e della realizzazione del Sé, non può mai essere più di un parziale abbandono, una transazione d'affari in cui il pensiero “io” compie uno sforzo con l'aspettativa di ricevere una ricompensa.




D: Che cos'è l'abbandono incondizionato?

R: Se ci si abbandona non ci sarà nessuno a porre domande o a essere pensato. O i pensieri vengono eliminati aggrappandosi al pensiero radice “io”, oppure ci si abbandona senza condizioni al potere supremo. Questi sono i due soli modi per raggiungere la realizzazione.

D: L'abbandono totale o completo non richiede che non rimanga neppure il desiderio della liberazione o di Dio?

R: Il completo abbandono richiede che tu non abbia un tuo proprio desiderio. Devi essere soddisfatto di qualunque cosa Dio ti dà e ciò significa non avere desideri propri.

D: Ora che sono soddisfatto su questo punto, desidero sapere attraverso quali passi posso raggiungere l'abbandono.

R: Ci sono due modi. Uno è cercare la sorgente dell'”io” e fondersi in quella sorgente. L'altro è sentire: “Io sono impotente, Dio solo è onnipotente e non ho altra via di salvezza se non affidarmi completamente a Lui”. Attraverso questo metodo si sviluppa gradualmente la convinzione che Dio solo esiste e che l'ego non conta nulla. Entrambi i metodi conducono alla stessa meta. Il completo abbandono è un altro nome di 'jnana' o liberazione.

D: Trovo che il metodo dell'abbandono sia più facile. Ho intenzione di adottare questo sentiero.

R: Attraverso qualunque sentiero tu proceda, dovrai perderti nell'Uno. L'abbandono è completo quando raggiungi lo stadio “Tu sei tutto” e “Sia fatta la Tua volontà”. Lo stato non è differente da 'jnana'. In 'soham' (l'affermazione “io sono lui”) c'è 'dvaita' (dualismo). Nell'abbandono c'è 'advaita' (non dualismo). Nella realtà non ci sono né 'dvaita' né 'advaita', ma ciò che è. L'abbandono sembra facile perché le persone immaginano che, una volta che dicono con le labbra “Mi abbandono” e pongono i loro fardelli sul loro Signore, esse possono essere libere e fare ciò che desiderano. Ma il fatto è che non puoi avere attrazioni e repulsioni dopo il tuo abbandono; la tua volontà dovrebbe diventare assolutamente inesistente, venendo sostituita dalla volontà del Signore. La morte dell'ego in questo modo procura uno stato che non è diverso da 'jnana'. Così, attraverso qualunque sentiero tu possa procedere, devi arrivare a 'jnana' o unità.

D: Qual è il modo migliore per uccidere l'ego?

R: Il modo migliore è quello che a ogni persona sembra più facile o che l'attira di più. Tutte le vie sono ugualmente buone, dato che conducono alla stessa meta, che è la fusione dell'ego nel Sé. Ciò che il 'bhakta' (devoto) chiama abbandono, dall'uomo che pratica 'vichara' viene chiamato 'jnana'. Entrambi stanno soltanto cercando di ricondurre l'ego alla sorgente da cui è sorto e di farvelo immergere.

D: La grazia non può affrettare questa capacità in un cercatore?

R: Lascia questo a Dio e abbandonati senza riserva. Una delle due cose deve essere fatta. O ti abbandoni perché ammetti la tua incapacità e chiedi che un potere più alto ti aiuti, oppure indaga la causa della miseria andando alla sorgente e immergendoti nel Sé. In entrambi i modi sarai libero dalla miseria. Dio non abbandona mai chi si è abbandonato.

D: Attraverso il costante desiderio di abbandonarmi spero che venga sperimentato un aumento della grazia.

R: Abbandonati una volta per tutte e falla finita col desiderio. Finché si trattiene il senso di essere colui che agisce, ci sarà desiderio. Quello è anche la personalità. Se quello se ne va, il Sé viene scoperto risplendere puro. La schiavitù è il senso di essere chi agisce, non le azioni stesse. "Sii calmo e sappi che io sono Dio”. Qui la calma è totale abbandono senza ombra di individualità. La calma prevarrà e non ci sarà agitazione mentale. L'agitazione mentale è la causa del desiderio, del senso di essere chi agisce e della personalità. Se ciò viene arrestato c'è la quiete. Là “conoscere” significa “essere”. Non è conoscenza relativa che implica la triade conoscenza, conoscitore e conosciuto.

D: Può essere d'aiuto il pensiero “Io sono Dio” o “Io sono l'essere supremo”?

R: ”Io sono quello che sono”. “Io sono” è Dio, non il pensare “Io sono Dio”. Realizza l'”Io sono” e non pensare “Io sono”. E' detto: “Sappi che io sono Dio” e non “Pensa che io sono Dio”. Tutti i discorsi sull'abbandono sono come pezzetti di zucchero presi da un'immagine di zucchero del Signore Ganesh per offrirli come 'naivedya' (offerta di cibo) allo stesso Signore Ganesh. Dici di offrire a Dio corpo, anima e possessi. Sono forse tuoi perché tu possa offrirli? Tutt'al più potrai dire solamente: “Finora ho immaginato falsamente che tutte queste cose che sono tue fossero mie. Ora realizzo che sono tue. Non agirò più come fossero mie.” Questa conoscenza secondo cui non c'è altro se non Dio o il Sé, che “io” e “mio” non esistono e che esiste solo il Sé, è 'jnana'. Perciò non c'è differenza tra 'bhakti' e 'jnana'. 'Bhakti' è 'jnana mata' o la madre di 'jnana'.

D: Da uomini mondani quali siamo, proviamo una forma o l'altra di angoscia e non sappiamo come uscirne. Preghiamo Dio e tuttavia non siamo soddisfatti. Come possiamo fare?

R: Confidare in Dio.

D: Ci abbandoniamo, tuttavia non c'è aiuto.

R: Sì. Se vi siete abbandonati, dovete essere in grado di conformarvi al volere di Dio e non lagnarvi di ciò che può non piacervi. Le cose possono risultare diverse da come possono sembrare in apparenza. Il dolore spesso conduce gli uomini alla fede in Dio.

D: Ma noi siamo uomini mondani. C'è la moglie, ci sono i figli, parenti e amici. Non possiamo ignorare la loro esistenza e affidarci al volere divino senza trattenere un po' della nostra personalità.

R: Ciò significa che non vi siete abbandonati come avete dichiarato. Dovete solo confidare in Dio. Abbandonatevi a Lui e conformatevi alla Sua volontà, sia che Egli appaia o svanisca. Aspettate il Suo piacere. Se gli chiedete di fare come piace a voi, non è abbandonarsi a Lui, ma un dare ordini. Non potete averlo ai vostri ordini e tuttavia pensate di esservi abbandonati. Egli sa ciò che è meglio, quando e come farlo. Lasciate ogni cosa interamente a Lui. Il fardello è Suo, voi non avete più alcuna preoccupazione. Tutti i vostri pesi sono Suoi. Tale è l'abbandono. Questa è la 'bhakti'. Oppure, scoprite 'a chi' sorgono queste domande. Tuffatevi profondamente nel Cuore e rimanetevi come il Sé. Una di queste vie è aperta per l'aspirante.

D: L'abbandono è impossibile.

R: Sì. Il completo abbandono all'inizio è impossibile. L'abbandono parziale è certamente possibile per tutti. Nel corso del tempo esso porterà al completo abbandono. Ebbene, se l'abbandono è impossibile, cosa si può fare? Non c'è pace di mente. Sei incapace di provocarla. Può essere creata solo con l'abbandono.

D: L'abbandono, di per sé, è sufficiente a permetterci di raggiungere il Sé?

R: E' sufficiente abbandonarsi. L'abbandono è affidarsi completamente alla causa originale del proprio essere. Non illuderti immaginando che tale sorgente sia un Dio fuori di te. La tua sorgente è all'interno di te stesso. Abbandonati a essa. Ciò significa che dovresti cercare la sorgente e fonderti in essa.

(…)

D: Swami, è bene amare Dio, non è così? Allora perché non seguire il sentiero dell'amore?

R: Chi ha detto che non dovresti seguirlo? Puoi farlo. Ma quando parli di amore c'è dualità; non c'è forse la persona che ama e l'entità chiamata Dio che è l'amato?L'individuo non è separato da Dio. Perciò amore significa che si prova amore nei confronti del proprio Sé.

D: Questo è il motivo per cui sto chiedendoti se Dio può essere adorato attraverso il sentiero dell'amore.

R: Questo è esattamente ciò che stavo dicendo. L'amore stesso è l'effettiva forma di Dio. Se dicendo: “Non amo questo, non amo quello” respingi ogni cosa, ciò che rimane è 'swarupa', cioè la reale forma del Sé. Quella è pura beatitudine. Chiamala pure beatitudine, Dio 'atma', o ciò che vuoi. Quella è devozione, quella è realizzazione e quella è ogni cosa. Se in questo modo respingi ogni cosa, ciò che resta è solo il Sé. Quello è amore reale. Chi conosce il segreto di quell'amore trova che il mondo stesso è pieno di amore universale. Solo l'esperienza del non dimenticare la coscienza è lo stato di devozione ('bhakti'), che è la relazione del reale amore imperituro, perché la vera conoscenza del Sé, che risplende come l'indivisa e suprema beatitudine stessa, si erge come la natura dell'amore. Solo se si conosce la verità dell'amore, che è la natura reale del Sé, verrà sciolto l'ingarbugliato nodo della vita. Soltanto se si consegue l'apice dell'amore verrà conseguita la liberazione. Tale è il cuore di tutte le religioni. L'esperienza del Sé è soltanto amore, che consiste nel vedere solo amore, udire solo amore, sentire soltanto amore, gustare soltanto amore e odorare soltanto amore, che è beatitudine.

(…)

D: Ho fede in 'murti dhyana' (adorazione della forma). Non mi aiuterà a ottenere 'jnana'?

R: Sicuramente lo farà. 'Upasana' (meditazione) aiuta la concentrazione della mente. Quindi la mente è libera da altri pensieri ed è piena della forma meditata. La mente allora diventa una con l'oggetto della meditazione, questo la rende del tutto pura. Quindi pensa chi è l'adoratore. La risposta è “io”, cioè il Sé. In questo modo, alla fine, è ottenuto il Sé. Adorare la realtà informale col pensiero non pensato è il miglior tipo di adorazione. Ma quando non si è idonei a tale adorazione di Dio senza forma, solo l'adorazione della forma è appropriata. L'adorazione senza forma è possibile soltanto per le persone prive della forma dell'ego. Sappi che tutta l'adorazione fatta da persone che possiedono la forma dell'ego è soltanto adorazione della forma. Solo il puro stato dell'essere uniti alla grazia (Sé), che è uno stato privo di ogni attaccamento, è il proprio stato di silenzio, libero da ogni altra cosa. Sappi che soltanto il dimorare costantemente come quel silenzio, avendolo sperimentato così com'è, è la vera adorazione mentale ('manasika-puja').

Sappi che l'adorazione dell'incessante, vera e naturale adorazione in cui la mente è arrendevolmente stabilita come l'unico Sé, avendo installato il Signore nel trono del Cuore, è silenzio, la migliore di tutte le forme di adorazione. Solo il silenzio privo dell'ego dogmatico è liberazione. Solo la malaugurata dimenticanza del Sé che distoglie da quel silenzio, è la non-devozione ('vibhakti'). Sappi che il dimorare come quel silenzio, con la mente acquietata, come non differente dal Sé, è la verità di Shiva bhakti (devozione a Dio). Quando ci si è completamente abbandonati ai piedi di Shiva, diventando perciò della natura del Sé, solo la pace abbondante che ne risulta, in cui manca il più piccolo spazio all'interno del Cuore per affliggersi dei propri difetti e delle proprie mancanze, è la natura della suprema devozione. In questo modo, diventare uno schiavo del Signore e rimanere quieto e silente, privo persino dell'egoistico pensiero “Io sono il suo schiavo”, è dimorare nel Sé, e questa è la suprema conoscenza.

(…)

D: Al 'bhakta' occorre un Dio cui poter rivolgere la 'bhakti'. Bisogna insegnargli che c'è soltanto il Sé e non un adoratore e un adorato?

R: Naturalmente, Dio è necessario per la 'sadhana'. Ma il fine della 'sadhana', perfino nel 'bhakti marga' (il sentiero della devozione), è conseguito soltanto dopo il completo abbandono. Cosa significa, se non che l'annullamento dell'ego sfocia nel Sé, che rimane com'è sempre stato? Qualunque sentiero uno possa scegliere, l'”io” è inevitabile, l'”io” che compie il 'nishkama-karma' (azioni senza movente), l'”io” che aspira a congiungersi col Signore da cui sente di essere stato separato, l'”io” che sente di essersi allontanato dalla sua reale natura, e così via. Bisogna che sia scoperta la sorgente di questo “io”. Allora tutte le domande troveranno risposta.

D: Se anche l'”io” è un'illusione, allora chi si spoglia dell'illusione?

R: L'”io” si spoglia dell'illusione dell'”io” e tuttavia rimane come “io”. Tale è il paradosso della realizzazione del Sé. Il realizzato non vede nessuna contraddizione in ciò. Prendi il caso della 'bhakti'. Io avvicino Iswara e prego di essere assorbito in lui. Quindi mi abbandono con fede e mi concentro su di lui. Cosa rimane dopo ciò? In luogo dell'”io” originale, il perfetto autoabbandono lascia un residuo di Dio in cui l'”io” si è perduto. Questa è la forma più alta di devozione ('parabhakti') e di abbandono ed è l'apice del 'vairagya' (non attaccamento). Abbandoni questo o quello dei “miei” possessi. Se invece abbandoni l'”io” e il “mio”, tutto viene abbandonato in un colpo solo. Il seme stesso del possesso viene perduto. In questo modo il male è tagliato alla radice o schiacciato nel germe stesso. Per fare ciò, il distacco (vairagya) deve essere molto forte. L'ardore nel farlo dev'essere uguale a quello di un uomo tenuto sott'acqua che cerca di tornare alla superficie per salvarsi la vita.
Tratto da: “Sii ciò che sei”, a cura di David Godman, Ed. Il Punto d'Incontro, pagg. 99-111.

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Re: Surrender (abbandono)

Messaggio da seva » 02/10/2016, 0:09

Ciao yati!
Grazie del tuo post sul Surrender, nelle parole di Sri Ramana.
Le conoscevo, ma devo dire che rileggendole adesso mi sono soffermata in particolare su un punto che avevo trascurato, la stretta connessione tra l’atteggiamento della coscienza testimone e l'abbandono.
(Non so se posso scrivere qui, se ho sbagliato posto trasferisci il tutto altrove!)

Come sai, la pratica del Surrender è considerata fondamentale nello Yoga Integrale, fra tutte essa occupa il posto più importante perché corrisponde al momento centrale della sadhana, quando inizia lo yoga vero e proprio e l’aspirante lascia andare lo sforzo personale (che ha caratterizzato tutta la lunga prima fase di preparazione) e “passa” il peso del progresso interiore alla Forza o Shakti discendente dall’alto. Sri Aurobindo raccomanda di non iniziare subito con l’intenzione del totale surrender durante la fase di preparazione, evitando ogni sforzo personale, perché nella maggior parte dei casi ciò corrisponde nei fatti ad abbandonarsi alla propria natura inferiore, e non alla Natura Divina.

Nella fase più avanzata dello Yoga, invece, il Surrender alla Shakti è il solo mezzo per far discendere la Coscienza Supermentale, e deve coinvolgere tutti i piani di coscienza: non solo il piano psichico, ma anche quello mentale, emotivo, vitale e perfino il corpo fisico.
A questo proposito si indicano tre tappe nello stabilirsi del Surrender:

“Il primo movimento dello yoga è di fare sankalpa di atmasamarpana [= prendere la ferma determinazione dell’abbandono al Sé]. Mettetevi con tutto il cuore e tutte le vostre forze nelle mani di Dio. Non ponete condizioni, non chiedete nulla, neppure la siddhi [= perfezione] nello yoga, assolutamente nulla eccetto che in voi e attraverso di voi la Sua volontà sia manifestata direttamente. A quelli che chiedono, Dio dà quanto richiesto, ma a quelli che danno se stessi e non domandano nulla, Egli dà tutto ciò che avrebbero potuto chiedere o di cui potevano aver bisogno, ma anche dà Se Stesso e offre spontaneamente il Suo amore.

Il movimento successivo consiste nel mettersi da parte e osservare l’opera del potere divino in voi. Questo operare è spesso soggetto a disturbi e difficoltà, e quindi è necessaria la fede, sebbene una fede perfetta non sempre sia ottenibile subito; ogni impurità in voi, accolta apertamente o segretamente in agguato, è destinata a manifestarsi e a ripetersi fino a quando non sia spazzata via in modo definitivo; e il dubbio è, in questi tempi, una impurità pressoché universale. Ma anche se il dubbio vi assale, resistete e aspettate, valendovi se possibile del satsangha di quelli che sono già avanzati sul sentiero; e quando esso è assente, aggrappatevi al principio dello yoga, il dono di sé, […]

Il terzo movimento dello yoga è di percepire tutte le cose come Dio”.

SA, The Supramental Manifestation upon the earth, XVI, p. 414



Mi sembra che il secondo punto indicato rispecchi molto da vicino quello che abbiamo letto nel tuo post con le parole di Sri Ramana. In questa seconda fase di “osservazione dell’opera del Divino in noi” qui si parla di fede, a supporto delle difficoltà che emergono e in particolare del dubbio. Più si rafforza l’atteggiamento del testimone, più si constata l’impotenza, e la fede sostiene l’abbandono della responsabilità.
Aurobindo spiega in questa stessa pagina:


“Non dovete preoccuparvi o lottare come se le responsabilità fossero vostre o i risultati dipendessero dai vostri tentativi: una forza ben più potente di voi si occupa del problema. Nessuna malattia o calamità o il sorgere di un peccato o impurità in voi deve causare allarme. Aggrappatevi a Lui: Ti libererò da tutti i peccati e da tutti i mali (Gita)”

Laura, Forum Pitagorico

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Quiete mentale e immersione nel Sé

Messaggio da seva » 02/10/2016, 0:27

D. A volte le persone e le cose sembrano assumere una forma vaga, quasi trasparente, come in un sogno e , pur essendo passivamente coscienti della loro esistenza, è come se smettessero di esistere all'esterno, non c'è piu percezione di alcun tipo di individualità. Nella mente c'è solo una profonda quiete.
Sono forse questi gli stati premonitori di una prossima immersione nel Sè?
Oppure si tratta di situazioni negative, risultanti da una sorta di autoipnosi? Vorrei sapere se questo stato va cercato o incoraggiato dato che produce comunque una pace temporanea.

Ramana Maharshi: Se insieme alla quiete mentale c'è consapevolezza questo è proprio lo stato da raggiungere. Proprio perchè la domanda è stata centrata su questo aspetto, senza che si sia realizzato che lo stato descritto non è altro che il Sè, dimostra che tale stato non è stabile ma casuale. Il termine "immersione" è appropriato se esistono delle istanze che conducono verso il mondo esteriore, infatti dirigere la mente verso l'interno, è come un'immersione al di sotto della superficie dell'esteriorità. Ma se la quiete prevale senza velare la Coscienza, dov'è il bisogno di immergersi? Quando lo stato appena descritto non viene realizzato come nostra Pura Realtà o Sè, lo sforzo di conseguirlo in maniera stabile e costante può essere definito "immersione". E' da questo punto di vista che possiamo definire tale stato come premonitore della realizzazione. Detto questo cadono le ultime due domande.

(da: Il Vangelo di Ramana Maharshi, Ed I Pitagorici pag 45-46)

A cura di gigi

seva
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Aham e Aham-vrtti

Messaggio da seva » 02/10/2016, 0:33

Tratto da "L'insegnamento spirituale di Ramana Maharshi", traduzione di Claudia Tarantino, by Sri Ramanasramam, Tiruvanalamai, Ed. Mediterranee, pag 143-149


Aham e Aham-vrtti

D. Come è possibile che l'investigazione avviata dall'ego riveli la propria irrealtà ?

M. L'esistenza fenomenica dell'ego viene trascesa quando si è immersi nella Fonte da cui si origina l'aham-vrtti.

D. Ma l'aham-vrtti non è soltanto una delle tre forme in cui si manifesta l'ego ? Lo Yoga Vasishta e altri testi antichi descrivono l"ego come avente tre forme.

M. Esatto. L'ego è descritto come avente tre corpi, quello grossolano, quello sottile e quello causale, che serve soltanto ai fini dell'interpretazione analitica.
Se il metodo d'investigazione dovesse dipendere dalla forma dell'ego, si può facilmente immaginare come qualsiasi investigazione sarebbe ugualmente impossibile, perché le forme che l'ego può assumere sono infinite.
Ai fini del jnana-víchara si deve, pertanto, procedere in base al principio che l"ego ha un'unica forma, ossia, quella dell'aham-vrtti.

D. Ma questa forma si può rivelare inadeguata per realizzare il jñana.

M. L'autoinvestigazione attraverso l'aham-vrtti è come il cane che trova il proprio padrone grazie al suo fiuto. Il padrone può essere in un luogo distante e sconosciuto, ma ciò non comprometterà in nessun modo la ricerca del cane. L'odore del padrone è, infatti, una pista infallibile per l'animale e non conta nient'altro, come ad esempio, gli abiti indossati, la corporatura o l'altezza. Il cane si concentrerà senza posa su quell'odore alla ricerca del padrone e infine riuscirà a trovarlo.

D. Si pone ancora la questione sul perché la ricerca della fonte dell'aham-vrtti, in quanto distinta dagli altri vrttis, si debba considerare il mezzo diretto per l'Autorealizzazione.

M. La parola aham è in sé molto suggestiva. Le due lettere della parola, in particolare A e HA, sono rispettivamente la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto sanscrito. Il concetto che dovrebbe esprimere la parola è che essa comprende tutto. Perché ? Perché aham significa la stessa esistenza.
Sebbene il concetto di "Io" o di "Io-sono" sia noto nell'uso come aham-vrtti, non si tratta, in effetti di un vrtti come tutti gli altri. Giacchè diversamente dagli altri vrttis, che non hanno alcuna relazione essenziale, l'aham-vrtti è fondamentalmente e parimenti collegato a tutti i vrtti della mente. Senza l'aham-vrtti
non ci potrebbero essere gli altri vrtti, mentre l'aham-vrtti può esistere da solo senza dover dipendere da alcun altro vrtti della mente. L'aham-vrtti è, pertanto, essenzialmente diverso dagli altri vrtti.
La ricerca della fonte dell'aham-vrtti è, dunque, la ricerca non soltanto dell'origine di una delle forme dell'ego, ma anche della stessa fonte da cui si origina l' "Io-sono". In altre parole, la ricerca e la realizzazione della Fonte dell'ego nella forma dell'aham-vrtti implica necessariamente il superamento dell'ego in ognuna delle sue forme possibili.

D. Ammesso che l'aham-vrtti comprenda essenzialmente tutte le forme dell'ego, perché si dovrebbe scegliere soltanto questo vrtti come strumento di autoinvestigazione ?

M. Perché è l'unico dato irriducibile della propria esperienza, perché la ricerca della sua fonte è la sola via possibile che si possa seguire per realizzare il Sé.
Si dice che l'ego abbia un corpo causale, ma com'è possibile farlo diventare il soggetto della propria ricerca? Quando l'ego assume quella forma, si è immersi nel buio del sonno.

D. Ma l'ego nella sua forma sottile e causale non è troppo etereo per essere esaminato nella ricerca della fonte dell'aham-vrtti, che è condotta a mente sveglia ?

M. No. La ricerca della fonte del'aham-vrtti riguarda la stessa esistenza dell'ego. Pertanto, la sottigliezza della forma dell'ego non è una considerazione essenziale.

D. Se l'unico scopo è quello di realizzare l'incondizionato e puro Essere del Sé, che è completamente indipendente dall'ego, in che modo può essere utile la ricerca che riguarda l'ego nella forma di aham-vrtti ?

M. Da un punto di vista funzionale della forma o dell'attività o comunque tu voglia chiamarla (è immateriale perché evanescente), l'ego ha una ed una sola caratteristica. L'ego funge da anello di congiunzione tra il Se che è pura Coscienza e il corpo fisico che è inerte e non senziente. L'ego viene, perciò, chiamato il citjada granthi. Nella propria ricerca della Fonte dell'aham-vrtti si assume l'aspetto essenziale cit dell'ego e, per questo motivo, la ricerca deve condurre alla realizzazione della pura Coscienza del Sé.

D. Che rapporto c'è tra la pura Coscienza realizzata dall'jnani e l' "Io" che viene accettato come il dato essenziale dell'esperienza ?

M. La Coscienza indifferenziata del puro Essere è il Cuore di hrdayam, ciò che sei realmente, come viene appunto indicato dalla stessa parola (hrt + ayan: = Cuore io sono). Dal Cuore si origina l' "Io-sono" in quanto il dato essenziale della propria esperienza. Il Cuore è in sé suddha-sattva. Ed È in questa suddha-sattvasvarupa
(vale a dire incontaminata da rajas e tamas), che l' "Io" sembra sussistere nel jnani...

D. Nel jñani l'ego sussiste nella forma sattvica e, pertanto, appare come qualcosa di reale. È giusto ?

M. No. L'esistenza dell'ego in qualsiasi forma, nel jñani o nell'ajnani è in sé un'apparenza. Ma per l'ajnani, il quale pensa erroneamente che lo stato di veglia e il mondo sono reali, anche l'ego sembra essere reale. E poiché vede il jñani comportarsi come tutti gli altri, l'ajñani si vede costretto a presupporre il concetto di individualità anche in riferimento al jnani.

D. Che funzione ha l'aham-vrtti nel jnani ?

M. Nessuna. Il laksya (fine) del jnani è il Cuore stesso, perché egli è uno e identico all'indifferenziata pura Coscienza che le Upanisad chiamano prajnana. Prajñana è in realtà il Brahman, l'Assoluto, e non vi è altri Brahman all"infuori di prajñana.

D. Come si origina, sfortunatamente, l'ignoranza di questa unica e sola Realtà nel caso dell'ajnani ?

M. L'ajnani vede soltanto la mente, che è soltanto il riflesso della luce della pura Coscienza che nasce dal Cuore. Egli, dunque, ignora il Cuore stesso. Perché ? Perché la sua mente è rivolta all"esterno e non ha mai ricercato la propria fonte.

D. Cosa impedisce all'infinita e indifferenziata luce della Coscienza, che nasce dal Cuore, di rivelarsi all'ajnani ?

M. Come l'acqua in una pentola riflette il sole enorme entro ì limiti ristretti di quel contenitore, cosí vasanas o tendenze latenti della mente umana, agendo da mezzo riflettente, catturano l'infinita e onnipervadente Luce della Coscienza, che nasce dal Cuore e si presenta sotto forma di un fenomeno chiamato mente. Vedendo soltanto questo riflesso, l'ajñani s'inganna nel credere che è un essere finito, il jiva.
Quando la mente si rivolge interiormente alla ricerca della fonte dell'aham-vrtti, le vasanas si estinguono e, in assenza del mezzo riflettente, anche il fenomeno originato dalla riflessione, ossia la mente, scompare e viene assorbita dalla Luce della sola Realtà: il Cuore. Questo È il succo e la sostanza di tutto cio che ha bisogno di sapere l'aspirante. Quello che gli viene assolutamente richiesto, è una ricerca, sincera e unidirezionale, della fonte dell'aham-vrtti.

D. Ma qualunque sforzo egli faccia è limitato dalla mente nello stato di veglia. Come può una ricerca simile, condotta in uno solo dei tre stati della mente, distruggere la mente stessa ?

M. La ricerca della fonte dell'aham-vrtti viene senza dubbio iniziata dal sadhaka nello stato di veglia della mente. Non si può dire che in lui la mente è stata distrutta. Ma il processo stesso di autoinvestigazione rivelerà che l'alternanza o trasmutazione dei tre stati della mente, come pure gli stessi tre stati, appartengono al mondo dei fenomeni, il quale non può riguardare la sua intensa ricerca interiore.
L'autoinvestigazione è realmente possibile soltanto se si rivolge la mente interiormente. Tale ricerca della fonte dell'aham-vrtti avrà come risultato la realizzazione del Cuore in quanto luce indifferenziata della pura Coscienza, in cui viene assorbita completamente la luce riflessa della mente.

D. Per il jnani, quindi, non c'è differenza tra i tre stati della mente ?

M. Come ci potrebbe essere se la mente stessa si è dissolta ed annullata nella Luce della Coscienza? Per il jñani tutti e tre gli stati sono ugualmente irreali. Ma l'ajñani non può comprenderlo, perche per lui il punto di riferimento della realtà è lo stato di veglia, mentre per il jnani la stessa Realtà. Questa Realtà della pura Coscienza eterna per sua natura e, pertanto, sussiste allo stesso modo durante quello che tu chiami lo stato di veglia, di sogno e di sonno. Per colui che è un tutt'uno con quella Realtà non esiste la mente né i ,suoi tre stati e, quindi, né introversione ne' estroversione.
Il suo è lo stato di veglia eterna, giacché è consapevole del Sé eterno; il suo è lo stato di sogno eterno, perché ai suoi occhi il mondo non è nient'altro che un fenomeno onirico che si presenta ripetutamente; ilsuo è lo stato di sonno eterno, perche' è sempre, in ogni momento, senza la coscienza "Io-sono-il-corpo".

D. Dovrei, quindi, credere che Sri Bhagavan mi staparlando in uno stato di veglia-sogno-sonno ?

M. Poiché la tua esperienza consapevole si limita ora all'estroversione della mente, definisci il momento presente come stato di veglia, mentre la tua mente ha dormito sul Se per tutto il tempo e, in questo momento, sei quindi completamente addormentato.

D. Per me il sonno è semplicemente vacuità.

M. È cosí perche il tuo stato di veglia è soltanto l'agitazione della tua mente inquieta.

D. Quello che intendo per vacuità è che durante il sonno non sono cosciente di niente, è come se non esistessi.

M. Ma tu esisti nel sonno.

D. Se esisto non ne sono cosciente.

M. Non intendi dire sul serio che hai cessato di esistere nel sonno! (Ridendo). Se andassi a dormire come Mr. X, ti risveglieresti come Mr. Y ?

D. Conosco la mia identità, probabilmente, per un moto della memoria.

M. Pur ammettendolo, com'è possibile se non c'è continuità di coscienza ?

D. Ma io non ero consapevole di quella coscienza.

M. No. Chi dice che non eri cosciente nel sonno ? È la tua mente. Ma non c'era alcuna mente nel tuo sonno ? Che valore ha la testimonianza della mente sulla tua esistenza o coscienza durante il sonno? Cercare la testimonianza della mente per confutare la tua esistenza o coscienza nel sonno è come appellarsi alla testimonianza di tuo figlio per confutare la tua nascita! Ricordi che ti ho già detto una volta che esistenza e coscienza non sono due cose differenti, ma una sola e stessa cosa ? Se per qualche motivo ti senti costretto ad ammettere che esistevi durante il sonno, stai sicuro che eri anche cosciente di quell'esistenza. Ciò di cui sei davvero incosciente nel sonno è la tua esperienza fisica. Stai confondendo la tua coscienza del corpo con la vera coscienza del Se, che è eterno.
Il Prajnana, che è la fonte dell' "Io-sono", rimane sempre impassibile ai tre stati della mente, permettendoti, in questo modo, di conservare inalterata la tua identità. Il Prajnana è anche al di là dei tre stati della mente, perche' può esistere senza e nonostante questi. È quella Realtà che dovresti ricercare nel tuo cosiddetto stato di veglia rintracciando la fonte dell'aham-vrtti. Un'intensa pratica di questa ricerca ti rivelerà che la mente e i suoi tre stati sono irreali e che tu sei l'eterna, infinita Coscienza del puro Essere: il Se o il Cuore.

Tratto da L'insegnamento spirituale di Ramana Maharshi, traduzione di Claudia Tarantino, by Sri Ramanasramam, Tiruvanalamai, Ed. Mediterranee, pag 143-149

A cura di Namarupa, Forum Pitagorico.
Nota: Aham-vrtti è preferibile tradurlo con "senso dell'io" o "senso di esistenza", l'Io sono spesso invece viene inteso come Atman o Sé. Poi occorre distinguere fra coscienza e consapevolezza...

seva
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Io chi?

Messaggio da seva » 02/10/2016, 0:37

Pur conoscendo poco Ramana, non posso che trovarlo degno di considerazione, essendo vicino a quel che mi interesso. Non avevo però mai preso molto in considerazione la sua famosa formula "chi sono io?", non almeno per la mia... "pratica" (tra virgolette perché mi sembra sempre un'ostentazione artificiosa definirla in questi modi, quando mi riguarda). Recentemente però mi era "successa una cosa", spontaneamente, dopo un breve periodo di riflessione in un luogo tranquillo, in cui evidentemente sono maturate certe "istanze" o come le si vuole chiamare.
C'era stata una sorta di scioglimento del "senso dell'io" (ahamkara, per dirla vedanticamente); non saprei come altro definirlo. Non una dissociazione, in cui l'"ego" si discosta da quello che accade, e men che meno una immersione nelle cose tanto da perdere l'attenzione verso l'io, che però rimane presente e sempre sottinteso; era, invece, un continuo "non autoriferimento", un non saper più "a chi" accadevano le cose: accadevano e basta, che fossero percezioni o elaborazioni mentali di vario tipo. Alla domanda (che a quel punto mi facevo - ma è meglio dire "che sorgeva" - proprio rammentando quel poco di Ramana che conoscevo): "a chi capita questo?", la risposta... non c'era, era priva di senso, ed era quasi divertente (già, ma per chi?), divertente proprio perché non c'era senso; senza che però questa assenza di senso fosse un qualcosa di caotico o di disordinato (anzi: non c'era un io a confrontare, valutare, elaborare, analizzare, scomporre, ecc., l'unico cioè a produrre una qualche effettiva confusione, mi rendo conto ora). Non c'era neanche più molto da fare, o direzioni da prendere: rimaneva una spontanea tendenza ad aiutare gli "altri" ("altri" rispetto a chi?...), per quanto semplicemente, senza più crearsi troppi alibi o aspettative. L'unico "problema" (che, molto Taoisticamente, scivolava via facilmente come tutto il resto, proiettato via come può esserlo un "avversario" nel Tai Chi Chuan o nell'Aikido, dove appunto "avversario" va sempre consapevolmente virgolettato) era che rimaneva... un residuo? Non so come altro definirlo: abitudini mentali che, anche se prive di soggetto (prive almeno in parte: non voglio descrivere questa "esperienza" come chissà che di elevatissimo), erano chiaramente "brutte abitudini" che cercavano di farsi strada (noia, tendenza al disinteresse, tendenza alle preoccupazioni, il sorgere di ansie varie, ecc.), alimentate forse dal fatto che non c'era più molto che le contrastasse (interessi, ricerca di piaceri, obiettivi, ecc.); e che, anche se "scivolanti" via facilmente di volta in volta (se proprio persistevano, bastava che si riaffacciasse il "chi le sta provando?" perché scoppiassero come bolle), c'era la consapevolezza che era bene bruciarle subito, o avrebbero potuto "far atterrare" di nuovo la coscienza. Ripresi in mano un po' i simboli dell'Alchimia, anche solo quella riassunta da Raphael nella Triplice Via del Fuoco: se quello che "mi" era capitato era quasi paragonabile ad un qualche grado di "opera al nero", occorreva completarla (con la "fissazione del mercurio" che forse si stava davvero rettificando) ed era ora di cominciare anche almeno un po' di "opera al rosso" (separazione del mercurio, perché potesse "avviarsi" verso lo zolfo), se non ricordo male. Ramana stesso, ho visto di recente, dice che alla domanda "a chi capita questo" deve seguire il "chi sono io?" la cui risposta (coscienziale) sarà "il Sè". E se non sbaglio, Satya Sai Baba diceva che a questa domanda va accompagnata la meditazione. Probabilmente sono i modi con cui, dopo il "semplice" dissolversi dell'ahamkara, seguono le "tappe" a cui si perviene a "far restare solo" l'atma. Troppo tardi però: alla fine, quasi all'improvviso le "cattive abitudini" si sono come riformate intorno ad un punto: il senso dell'io, tornato in buona forma. Non perfetta però: certi interessi, certi impulsi, si erano sviliti, e ora sono rimasti tali, senza che questo sia dovuto a problemi psicofisici o a cambi di interessi. Tutto ciò aiuta a non distrarsi dal principale interesse rimasto, quello "spirituale-metafisico", ma anche questo non accende più piaceri emotivi o intellettuali come un tempo, per quanto tale interesse possa ancora presentarsi ed essere seguito in tali forme).
Insomma, tutto questo racconto, oltre che per condivisione (anche se almeno a livello teorico credo non sia niente di nuovo qui), è anche per sentire esperienze, pensieri, ecc. vostri. Vi ringrazio in ogni caso.

Yume, Forum Pitagorico

seva
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Silenzio e satsanga

Messaggio da seva » 02/10/2016, 0:43

Silenzio e satsanga sul sito di ramana-maharshi.it

yati
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Ramana Maharshi - Cinque versi sul Sé

Messaggio da yati » 02/10/2016, 1:25

Ramana Maharshi : CINQUE VERSI SUL SE'

Quaderno Advaita & Vedanta N. 5 - 27 Luglio 2006 -

*

Commento a cura di Bodhananda


* * *

Questi sono gli ultimi versi composti da Sri Ramana Maharshi.
Furono scritti su richiesta di una devota, Suri Nagamma, autore del libro “Lettere dal Ramanasram”. Bhagavan li scrisse in Telegu, usando però una forma metrica Tamil, chiamata venba, e quindi li tradusse in Tamil. Poiché già esisteva una composizione di Shankara chiamata 'Atma Paanchakam', Bhagavan decise di chiamare la sua composizione 'Ekatma Panchakam'.

* * *

1. When, forgetting the Self, one thinks that the body is oneself and goes through innumerable births and in the end remembers and becomes the Self, know this is only like awaking from a dream wherein one has wandered over all the world.


1. «Quando, dimenticando il Sé, si pensa di essere il corpo… Quando si è errato fra innumerevoli nascite... Quando, alla fine, ricordando si diviene il Sé… Sappi che è solo come svegliarsi da un sogno, in cui si è vagato in tutto il mondo.»


L’avidya, l’ignoranza metafisica dell’essente sulla sua stessa natura di puro essere, rende l’individuazione (o alterità o percezione) meta preminente all’attenzione dell’essente.
La percezione definisce l’alterità e quindi l’individuo, il quale opera nel tempo quivi definito, in luogo dell’essente.
Così il fenomenico diviene la sfera vitale, dove l’ente, identificato col corpo, con la percezione dei sensi, persa la consapevolezza di essere, si ritiene esistente grazie alla percezione dell’individuazione; è questa a credere, a credersi esistente: individuo. Credenza in luogo di consapevolezza, individuo in luogo di essenza. È questa individuazione- credenza a rimanere quale seme causale e a manifestarsi nel ripristino della percezione, dopo l’esaurimento degli involucri precedenti.
L’essente in sé non è soggetto al tempo, perché la sua Realtà è al di là di ogni tempo. È a questa Realtà che l’essente reintegra sé medesimo; tutte le individuazioni man mano interpretate, con i relativi involucri indossati, assumono la consistenza di un sogno già finito. L’alterità e la conseguente individuazione marcano il tempo definendolo. Alla loro risoluzione nella conoscenza, anche il tempo perde consistenza, sottraendo l’oggettività al fenomenico: le vite sono state un errare nel sogno.


* * *
2. One ever is the Self. To ask oneself ‘Who and whereabouts am I?’ is like the drunken man’s enquiring ‘Who am I?’ and ‘Where am I?’


2. «Si è sempre il Sé. Chiedersi “Chi e dove sono ?” È come l’ubriaco che si chiede “Chi sono?” e “Dove sono?”»


L’essente, il Sé e l’Essere sono un’unica e identica Realtà. Non c’è un solo momento, un solo istante in cui non si sia ciò che si è: l’essente. Esso è il medesimo Sé o atman di cui parla la tradizione, identico a Quello: il Reale. Chiedersi “Chi sono io?” è l’azione di chi, ubriaco del fenomenico, completamente accecato dall’ignoranza metafisica o avidya, crede che basti una domanda o una azione fenomenica a disciogliere l’individuazione che crede di essere. L’indagine sull’io necessita del distacco per prendere le dovute distanze dall’io stesso, per poterlo vedere e identificare in tutti i suoi aspetti, e della discriminazione per distinguere fra i vari livelli di oggettività nella percezione. La pura Realtà, l’Essere, il Sé, tutto questo è lo stato naturale dell’essente. Nessuna distanza spazio-temporale separa l’essente da ciò che è, solo l’ignoranza metafisica, che insieme è e non è.

* * *
3. The body is within the Self. And yet one thinks one is inside the inert body, like some spectator who supposes that the screen on which the picture is thrown is within the picture.


3. «Il corpo è nel Sé. Nonostante questo, si pensa invece di essere dentro il corpo inerte, come quegli spettatori credono che lo schermo sia entro il film che ivi si proietta.»


Ritenere la coscienza di altro più reale della consapevolezza in sé è l’ignoranza metafisica. La sovrapposizione della percezione sull’essenza che ne è sostrato è l’ignoranza metafisica della propria autoesistenza, indipendentemente da ogni sensorialità. In questa ignoranza vengono accumulati tutti quei dati sensoriali che invece di essere immediatamente risolti sono oggetto di adesione-apprensione. In questa ignoranza si formano le erudizioni: accumuli, contenuti, affettività in luogo di riconoscimento del libero fluire del continuo divenire.

* * *
4. Does an ornament of gold exist apart from the gold? Can the body exist apart from the Self? The ignorant one thinks ‘I am the body’; The enlightened knows ‘I am the Self’.


4. «Potrebbe mai esistere un gioiello d’oro senza l’oro? Può esistere il corpo separato dal Sé? L’ignorante pensa “Io sono il corpo”. L’illuminato conosce “Io sono il Sé”.»


È l’ignoranza a far credere all’acqua del mare di essere un’onda, a far credere alla neve di essere un pupazzo, a far credere all’essente di essere un corpo fisico, un corpo emotivo, un corpo mentale. Il corpo mentale aderisce ad ogni percezione che lo impressiona, il corpo emotivo aderisce ad ogni vibrazione che lo attraversa, il corpo fisico aderisce al tempo-spazio in cui si manifesta. Come “attratto” nel mondo dei nomi e delle forme, è di questi che l’essente si riveste, dimentico di essere il puro sempiterno Sé, non nato, non morto, non creato. Nell’ignoranza metafisica crede di iniziare, di spostarsi e di terminare. Nella conoscenza metafisica, l’illuminato sa di essere ciò che è e non diviene.

* * *
5. The Self alone, the Sole Reality, exists for ever. If of yore the First of Teachers revealed it through unbroken silence say who can reveal it in spoken words?


5. «Solo il Sé, unica Realtà esiste per sempre. Se dai tempi dei tempi il Primo dei Maestri, lo [ha] rivelato attraverso il silenzio ininterrotto, dimmi chi può rivelarlo con la semplice parola?»


È l’accesso a questa Realtà suprema, né immobile né non immobile, ad essere evocata nelle parole di ogni tradizione trascendente il fenomenico. La Realtà non può essere descritta né dalle parole, né dalle non parole, ma non esiste dito più grande del silenzio per indicarla. Un silenzio che risuoni possente in quelle menti svuotate da ogni contenuto e placate da una sadhana adeguata. Sri Ramana pur indirizzando ad indagare su colui che si interroga, pur supportando diversi percorsi, ha istruito attraverso il silenzio; un silenzio coltivato con attenzione da chi arrivava e arriva da tutto il mondo pur di meditare in sua presenza. In silenzio.

* * *
Translated in English by Prof. K Swaminathan
Traslated in Italian by Vidya Bharata - 27 July 2006
Commentary in Italian by Bodhananda
From “The collected works of Sri Ramana Maharshi”, pag. 130 - Digital Edition by Ramanasram

seva
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Ramana Maharshi - Il Sé

Messaggio da seva » 02/10/2016, 1:27

Approfitto dell'occasione per aggiungere qui di seguito un singolo verso su "Il Sé" scritto da Sri Ramana, sempre tradotto e commentato da Bodhananda:



Ramana Maharshi - IL SÉ

Quaderno n° 4, 17 Luglio 2006

*

Traduzione e commento a cura di Bodhananda


* * *
If one realizes one’s true nature within one’s Heart, it is the plenitude of Being-Awareness-Bliss without beginning or end.

«Se si realizza la propria vera natura, entro il Cuore, è la pienezza dell’Essere-Consapevolezza-Beatitudine senza fine né inizio.»


La semplicità dell’Advaita può rappresentare talvolta uno scoglio di difficile risoluzione. Da un lato affascina perché permette di intuire la nuda bellezza della Realtà, libera di costrutti mentali e dottrinali, dall’altro è proprio la sua nudità a rendere la mente facile preda impreparata che, affascinata, si riveste delle proprie concettualizzazioni.

Il Reale è la semplice natura di ognuno, realizzabile nel Cuore, il centro dell’interiorità, ove cessa finalmente la percipienza.
Qualsiasi idea, pensiero, valutazione, opinione, impedisce l’accesso al Cuore. Così il mantenimento di un qualsiasi punto di vista non permette la pienezza dell’Essere-Consapevolezza-Beatitudine (satcitananda).

La natura di ognuno è semplicemente accessibile; il raggiungimento della semplicità è l’opera da compiere. È l’indagine sull’io, testimoniata dalle parole di Sri Ramana, la spoliazione di tutto ciò che non è ‘io’. La propria natura è quell’‘io’, oltre l’ego, oltre l’individualità, oltre ogni contenuto; è quel Sé che la Tradizione testimonia e chiama Assoluto. Un termine che non definisce; che non determina alcuna concettualità, né innesca volontà.

L’accesso al Cuore è istantaneo per chi giunge alla sua porta, ma per giungervi, molti impiegano anni, anche se sono più rapide le vie codificate, quelle dell’azione, dell’amore, della conoscenza. È opportuno volgersi ad esse, utilizzando i supporti che esse propongono, senza curarsi della meta e di dove si sia, ma praticando la difficile arte di essere ciò che si è nel distacco dai frutti delle azioni, nell’amore incondizionato, nella ragion pura.


* * *
Traslated in Italian and commentary in Italian by Bodhananda
From “The collected works of Sri Ramana Maharshi”, pag. 148 - Digital Edition by Ramanasram
Copyright © Associazione Vidya Bharata, Catania, Italia.

yati
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Il linguaggio di Ramana Maharshi

Messaggio da yati » 02/10/2016, 1:28

Si usa questo spazio per alcune delucidazioni di carattere generale sui sinonimi più comuni con i quali Sri Ramana Maharshi usava descrivere la natura del Sé.



“L'essenza degli insegnamenti di Sri Ramana è contenuta nelle sue frequenti asserzioni che c'è una singola realtà immanente direttamente sperimentata da tutti, che è simultaneamente la sorgente, la sostanza e la reale natura di tutto ciò che esiste.
Egli le diede numerosi nomi differenti, esprimendo in ciascuno un differente aspetto della stessa indivisibile realtà. (...)

IL SE'
Questo è il termine che egli ha usato più frequentemente. Lo ha definito dicendo che il vero Sé o vero “Io”, contrariamente all'esperienza percepibile, non è un'esperienza dell'individualità, ma una consapevolezza non personale, onnicomprensiva. (…)
Egli asserì che il Sé reale è sempre presente e sempre sperimentato, ma enfatizzò che siamo realmente consapevoli di come è soltanto quando le tendenze autolimitanti della mente sono cessate. La permanente e continua consapevolezza del Sé è nota come auto-realizzazione.

SAT-CIT-ANANDA (Essere-Coscienza-Beatitudine)
(…) Sri Ramana insegnò che il Sé è puro essere, una consapevolezza soggettiva di “Io sono Quello”. Non ci sono soggetti od oggetti nel Sé, c'è soltanto la consapevolezza di essere. Poiché questa consapevolezza è conscia, è chiamata anche coscienza. L'esperienza diretta di questa coscienza è, secondo Sri Ramana, uno stato di ininterrotta felicità, così per descriverla viene usato anche il termine 'ananda' o beatitudine.
Questi tre aspetti, essere, coscienza e beatitudine, sono sperimentati come un tutto unico e non come attributi separati del Sé. Sono inseparabili allo stesso modo in cui l'umidità, la trasparenza e la liquidità sono proprietà inseparabili dell'acqua.

DIO (Brahman, Shiva)
(…) Il Dio di Sri Ramana non è un Dio personale, è l'Essere senza forma che sostiene l'universo. Non è il creatore dell'universo, l'universo è semplicemente una manifestazione del Suo potere intrinseco; Egli è inseparabile da esso, ma non è influenzato dal suo apparire o scomparire.

IL CUORE (Hridayam)
Parlando del Sé, Sri Ramana usò frequentemente la parola sanscrita 'hridayam'. Solitamente è tradotta come “il Cuore”, ma una traduzione più letterale sarebbe: “questo è il centro”.
Nell'usare questo termine particolare egli non implicava che vi fosse un particolare luogo o centro stabilito per il Sé, stava semplicemente indicando che il Sé è la sorgente dalla quale si sono manifestate tutte le apparizioni.

JNANA (Conoscenza)
(…) La vera conoscenza o 'jnana' non è un oggetto di esperienza, né la comprensione di uno stato differente e separato dal soggetto conoscitore; è una conoscenza conscia e diretta di quell'unica realtà in cui i soggetti e gli oggetti hanno cessato di esistere. Colui che si è stabilito in questo stato è conosciuto come 'jnani'.

TURYA E TURYATITA
La filosofia Indù postula tre livelli di coscienza relativa che si alternano – veglia, sogno e sonno profondo. Sri Ramana affermò che il Sé è la realtà base che sostiene l'apparizione degli altri tre stati temporanei. A causa di ciò, a volte chiamò il Sé 'turya avastha', o il quarto stato.
Occasionalmente utilizzò anche la parola 'turyatita' che significa “trascendente il quarto”, per indicare che in realtà non ci sono quattro stati, ma soltanto un unico vero stato trascendente.

ALTRI TERMINI
(…) Sri Ramana enfatizzò spesso che il Sé è il proprio reale e naturale stato d'essere e, per questa ragione, occasionalmente impiegò i termini 'sahaja sthiti', che significa 'stato naturale', e 'swarupa', che significa 'forma reale' o 'natura reale'.
Egli usò anche la parola “silenzio” per indicare che il Sé è uno stato silente libero dal pensiero, di pace indisturbata e totale tranquillità.”



Tratto dall'Introduzione curata da David Godman al capitolo 1 del libro “Sii ciò che sei”, Ed. Il Punto d'Incontro.

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