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Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 27/02/2021, 11:08
da cielo
E' più forte di me, ogni volta che scrivo qui proietto una bella aspettativa di poter ascoltare le testimonianze degli iscritti e invece silenzio di tomba, o forse silenzio di autoriflessione, impegnata nell'autoindagine sul "chi sono io? Io sono l'eterno sè"
Tat tvam asi.
Bello. Il cuore della sadhana. Aham brahmāsmi.
Se Bodhananda ci ha lasciato uno spazio aperto dove scambiare le testimonianze della sadhāna un motivo ci sarà. O no?

Ai tempi che furono, tentava di istruirci al karma yoga, spiegandoci che non era lo yoga dei gonzi troppo aderenti al mondo a lavorare e sgobbare. Poco portati a lodare e adorare la Pura Bellezza della Madre Divina o incapaci ad affilare la spada del distacco e della discriminazione nello jnana yoga. A studiare i sacri testi. Quelli fermi nella ricerca di sè nella giungla dei pensieri erranti e delle emozioni fuori controllo (tipo quelle che ci fanno essere agnellini in pubblico e belve sanguinarie o erinni urlanti in casa), silenziosi, composti, distaccati, che rispondono a monosillabi, a volte con una dotta citazione..mostrando le proprie certezze acquisite, come i vecchi lp di vinile da fare ascoltare solo agli intenditori...
Che scrivono a volte saggezze qua e là, preferibilmente sui canali veloci come gli stati di wp.

Scusate, è il karma dei tempi. Scivolo nel giudizio. Forse anche perchè conosco quelle mie maschere alternate e convinte, di santa martire o dotta erudita che piagnucolano che hanno sempre troppe cose da fare e da pensare, lavori troppo umili da sbrigare invece che momenti d'arte e d'adorazione, oppure banalità da risolvere, roba che non onora la cultura universitaria e neppure la levatura degli istruttori.

Anche se non esco quasi di casa, in quanto in pieno vanaprashta, l'azione resta doverosamente travolgente e solo con una consapevole accettazione di quello che c'è, quando c'è, si manda avanti la baracca della vita.

Bodhananda ai tempi ci faceva notare che "liberamente donato" (dall'istruttore) non corrisponde al "liberamente ricevuto" del ricercatore. Troppo facile. C'è un prezzo da pagare, prima.

Si riceve liberamente solo se si apre il cuore, allora ogni scambio è proficuo, non solo quello attaverso il canale preferenziale guru/aspirante, ma anche nella fratellanza tra compagni di viaggio che si aprono alla testimonianza intorno al fuoco. Ognuno col proprio fardello e sacchetto delle cibarie da offrire al fuoco.

Tutti vogliono la pura conoscenza e la "rivelazione", ma nessuno è disposto a pagare alcunchè; non funziona così.
Le leggi paiono le medesime nel mondo di Cesare e in quello di Dio.

Negli anni abbiamo usato a gratis Bo, e lui lo sapeva benissimo, il prezzo lo pagava lui per noi, ma di solito non funziona così, il prezzo lo devono pagare entrambi, chi dona e chi riceve, e se uno dei due non paga, in realtà non c'è nessuno scambio\condivisione\confronto, tutto torna nell'oblio, un caro ricordo, memorie stratificate da accarezzare e rimirare come le vecchie miniature (o le raccolte di figurine).

Lo stesso per il dialogo, l'apertura di cuori di cui parla Raphael, apertura che dovrebbe riguardare entrambi gli interlocutori, non solo uno dei due. Non siamo uccellini con i beccucci aperti per essere imboccati di cibo (magari pure già insalivato). Se non ci si apre neppure tra fratelli, non c'è dialogo e allora sarebbe meglio chiudere il forum, come mi viene detto a volte da alcuni amici silenziosi.

Devo ammettere che ho evidentemente un certo attaccamento per i luoghi di confronto informatico, a parte facebook che evito perchè mi pare una gigantesca rete a strascico per pesciolini errabondi. Una trappola.

Se non si fa uno sforzo di apertura allora c'è un monologo di uno solo dei due, di chi si è aperto, ma non un dialogo.
Ecco che, per deduzione logica, si comprende che cosa intendeva Bo quando diceva che "c'è un prezzo da pagare", perchè chi resta chiuso e gode solo dell'apertura altrui di fatto non sta pagando quanto riceve, e neppure onora l'istruzione ricevuta. Non sta pagando perchè non ha a sua volta aperto il cuore per ricevere (e donare anche) a sua volta.

Bo diceva che c'è un trucco, che poi non è un trucco, ma una verità, si riceve sempre molto di più di quanto si doni, o si è capaci di donare.
Per 10 che riesci a donare (aprendo il cuore), 100 ne ricevi per quella stessa apertura da cui hai donato.
E' che siamo talmente tirchi, impauriti, indaffarati, sommamente impegnati e preoccupati che non apriamo quasi mai il cuore nemmneno a 1 e quindi non riceviamo che 10, se e quando troviamo un cuore aperto che si doni. Dimenticandosi dei frutti dell'azione, da buon karma yogi.
Bo era un cuore aperto, e a chi si è aperto a lui x10 come minimo ha donato molto di più di quanto ha ricevuto. E certo la morte dell'involucro fisico non l'ha fermato e congelato come una meravigliosa statua di ghiaccio. E' acqua che scorre.

Re: Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 28/02/2021, 17:40
da blue_scouter
Stavo, per caso, facendo un giro nel forum, perché volevo sapere qual è l'esatta pronuncia sanscrita del mantra, «Io sono Brahman, Io sono», che è riportato nella « Ribhu gita » (non avendo la versione con testo originale a fronte) e mi sono imbattuto in questo post che mi ha dato, nell'ultima parte soprattutto, spunti utili e così ho deciso di rispondervi.

Come ho scritto precedentemente nella mia presentazione io non ho un maestro di riferimento e quindi credo, prima facie, che il mio percorso non possa essere considerato una sadhana. Ciò che faccio in relazione alla Tradizione è solo questo: leggere e studiare le opere di Raphael e di qualche altro autore e provare a rapportare quanto esse dicono a me e alla mia vita in generale.
Non nascondo che questo studio da autodidatta è spesso foriero di errori. Di uno di questi errori (forse) me ne sono reso conto di recente. E lo vorrei esporre qui.

Spesso il senso comune descrive la sadhana che porta alla «"morte" dell'io» come un percorso di solitudine e meditazione, e così l'ho sempre inteso anch'io, e sul punto ho incontrato molti accenni anche in alcuni testi di Raphael, come nell'opera: «Essenza e scopo dello yoga», nel capitolo dedicato all'«Asparśayoga» o Yoga senza sostegno (pp. 89 ss.).

L'idea però che mi sono fatto in questi anni (correggetemi se sbaglio) è che ogni Ente che si manifesta nello spazio-tempo-causa ha un suo percorso, una sua Strada che, prima o poi, lo porterà a ricongiungersi a quell'Essere donde proviene e da cui, invero, non si è mai mosso. Ora, io credo che questa strada sia unica irripetibile e imprevedibile. E solo in parte può essere resa col linguaggio o con altri mezzi espressivi. Ricordo una bella frase (non so però dire da dove l'ho presa): «ogni essere umano è via verso Dio».

Tutto ciò premesso, in questo periodo ho riflettuto sulla socialità. Ad essere sincero sono un tipo un po' solitario, che ama il silenzio e la quiete, e che sta bene sempre con le solite poche persone. Peraltro in questo periodo di lock-down non ho «sofferto» più di tanto il distanziamento sociale, anzi tutt’altro... Eppure devo riconoscere, per esperienza diretta, che a volte condividere un progetto o un'esperienza con un’altra persona riesce ad amplificare (e di molto) le potenzialità di ciò che stiamo facendo. Spesso, ed è questo il punto, nella nostra mentalità occidentale competitiva concepiamo - spesso - l'altro come un ostacolo o tuttalpiù lo ignoriamo, invece egli può essere una risorsa. Ciò che ho appena detto però, affinché non si trasformi in utopia e buonismo (ancora peggio), necessita - come spesso dice Raphael - un'apertura di cuore per comprendersi reciprocamente. Però questa apertura deve partire innanzitutto da Noi. E questo lo sto capendo a mie spese in tante situazioni della mia vita, dove per un motivo o per un altro, questa apertura da parte mia non c'è stata o è venuta meno.
Credo che in ciò Gesù di Nazareth sia stato un autentico maestro, quando dice nell'Evangelo: «Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (Mat. V.42). Ecco, proprio quest'ultima frase citata è stata per me fonte di problemi, per due questioni che mi sono sempre posto: (i) Se tu dai, non c'è il rischio di impoverirti? O, peggio ancora, (ii) non c'è il rischio di essere sfruttati da qualcuno più furbo di te?
Queste mie paure mi hanno sempre portato a preferire la solitudine più che la compagnia. Però è anche vero che, alla luce di quanto scrive Cielo, se diamo con il cuore, questi due rischi di cui sopra dovrebbero essere neutralizzati, e solo allora sarebbe vera un'altra famosa frase di Gesù: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At. XX,35).
Ecco ora a me sembra che la mia vita possa andare in questa direzione "sociale" (altro che isolamento...), quella cioè del provare a dare, più che tentare sempre di ricevere. Mi sembra però piuttosto impegnativo e rischioso per me...

Re: Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 28/02/2021, 19:26
da cielo
blue_scouter ha scritto:
28/02/2021, 17:40
Stavo, per caso, facendo un giro nel forum, perché volevo sapere qual è l'esatta pronuncia sanscrita del mantra, «Io sono Brahman, Io sono», che è riportato nella « Ribhu gita » (non avendo la versione con testo originale a fronte) e mi sono imbattuto in questo post che mi ha dato, nell'ultima parte soprattutto, spunti utili e così ho deciso di rispondervi.

Come ho scritto precedentemente nella mia presentazione io non ho un maestro di riferimento e quindi credo, prima facie, che il mio percorso non possa essere considerato una sadhana. Ciò che faccio in relazione alla Tradizione è solo questo: leggere e studiare le opere di Raphael e di qualche altro autore e provare a rapportare quanto esse dicono a me e alla mia vita in generale.
Non nascondo che questo studio da autodidatta è spesso foriero di errori. Di uno di questi errori (forse) me ne sono reso conto di recente. E lo vorrei esporre qui.

Spesso il senso comune descrive la sadhana che porta alla «"morte" dell'io» come un percorso di solitudine e meditazione, e così l'ho sempre inteso anch'io, e sul punto ho incontrato molti accenni anche in alcuni testi di Raphael, come nell'opera: «Essenza e scopo dello yoga», nel capitolo dedicato all'«Asparśayoga» o Yoga senza sostegno (pp. 89 ss.).

L'idea però che mi sono fatto in questi anni (correggetemi se sbaglio) è che ogni Ente che si manifesta nello spazio-tempo-causa ha un suo percorso, una sua Strada che, prima o poi, lo porterà a ricongiungersi a quell'Essere donde proviene e da cui, invero, non si è mai mosso. Ora, io credo che questa strada sia unica irripetibile e imprevedibile. E solo in parte può essere resa col linguaggio o con altri mezzi espressivi. Ricordo una bella frase (non so però dire da dove l'ho presa): «ogni essere umano è via verso Dio».

Tutto ciò premesso, in questo periodo ho riflettuto sulla socialità. Ad essere sincero sono un tipo un po' solitario, che ama il silenzio e la quiete, e che sta bene sempre con le solite poche persone. Peraltro in questo periodo di lock-down non ho «sofferto» più di tanto il distanziamento sociale, anzi tutt’altro... Eppure devo riconoscere, per esperienza diretta, che a volte condividere un progetto o un'esperienza con un’altra persona riesce ad amplificare (e di molto) le potenzialità di ciò che stiamo facendo. Spesso, ed è questo il punto, nella nostra mentalità occidentale competitiva concepiamo - spesso - l'altro come un ostacolo o tuttalpiù lo ignoriamo, invece egli può essere una risorsa. Ciò che ho appena detto però, affinché non si trasformi in utopia e buonismo (ancora peggio), necessita - come spesso dice Raphael - un'apertura di cuore per comprendersi reciprocamente. Però questa apertura deve partire innanzitutto da Noi. E questo lo sto capendo a mie spese in tante situazioni della mia vita, dove per un motivo o per un altro, questa apertura da parte mia non c'è stata o è venuta meno.
Credo che in ciò Gesù di Nazareth sia stato un autentico maestro, quando dice nell'Evangelo: «Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (Mat. V.42). Ecco, proprio quest'ultima frase citata è stata per me fonte di problemi, per due questioni che mi sono sempre posto: (i) Se tu dai, non c'è il rischio di impoverirti? O, peggio ancora, (ii) non c'è il rischio di essere sfruttati da qualcuno più furbo di te?
Queste mie paure mi hanno sempre portato a preferire la solitudine più che la compagnia. Però è anche vero che, alla luce di quanto scrive Cielo, se diamo con il cuore, questi due rischi di cui sopra dovrebbero essere neutralizzati, e solo allora sarebbe vera un'altra famosa frase di Gesù: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At. XX,35).
Ecco ora a me sembra che la mia vita possa andare in questa direzione "sociale" (altro che isolamento...), quella cioè del provare a dare, più che tentare sempre di ricevere. Mi sembra però piuttosto impegnativo e rischioso per me...
Grazie Blue scooter per la risposta, mi ha fatto sentire di nuovo intorno al fuoco.

Il riferimento è solo uno specchio che ci aiuta a scoprire il nostro vero volto, oltre le maschere e i ruoli che indossiamo, a rimanere concentrati, aggrappati come la scimmietta al corpo della madre.
Ma ci si può riflettere anche in una pozza d'acqua. Come dice Dattatreya si impara da tanti guru, mentre si percorre il viaggio della vita. Ed è sempre il Sè che parla, l'atman, quella scintilla di Assoluto in noi.

"Se tu dai non c'è il rischio di impoverirti? O, peggio ancora, non c'è il rischio di essere sfruttati da qualcuno più furbo di te?".

Nel mondo di Cesare è certo possibile, visto che vale la regola: dare per avere. Ma sul piano della ricerca spirituale si riceve liberamente, e se il cuore si apre, si ricambia liberamente, donando la propria testimonianza. «Ogni essere umano è via verso Dio». Ogni narrazione ha valore in sè in quanto frutto di una vita e di una visione, quella e non altra. Unità nella diversità.

Può capitare però che si proietti sul maestro un desiderio, un'aspettativa, che si voglia che sia come noi lo immaginiamo (un super genitore buono, di solito), che soddisfi il nostro io, che ci riconosca per ciò che crediamo di essere. Ma non siamo ciò che siamo, non ciò che vorremmo essere e un buon maestro, secondo me, non accarezza l'io dell'aspirante, ma lo piccona, colpo su colpo. Perchè è sempre quello che è, ed èlibero da ogni legame e contorcimento mentale.

Quindi, se, ad esempio, si atterra la ricerca del maestro a valore profano, le leggi diventano le stesse, il rapporto che si instaura con il maestro è atterrato, profano, egoico, falso, a quel punto le leggi spirituali diventano coincidenti con quelle profane, si pretende, si vuole un riconoscimento, si agisce con furbizia, si interpretano le sue azioni o parole e si cerca di manipolarlo.

Ugualmente se il maestro è un libro, si esalta o si contesta l'istruzione ma adattandola al proprio bisogno, alterandola o togliendola dal contesto, quasi fosse un'arma o un rinforzo al nostro sapere. Si desacralizza la parola sacra.

Noi pensiamo che il maestro, la tradizione e tutto ciò che ne segue e comporta sia oggettivo, ma non lo è; è soggettivo e ci rispecchia fedelmente di ciò che siamo e desideriamo. La tradizione è un po' come un carro, ci possiamo salire e condurlo.
Ma quando non si riesce più a farlo, per nostra incapacità, allora ce ne allontaniamo, se non condanniamo o crocifiggiamo ciò che prima ci aveva tanto attratto. E' il gioco di raga e dvesa: attrazione e repulsione. Nel profano è la guerra dei Roses: c'eravamo tanto amati...è l'io che si aggrappa e si sostanzia tramite oggetti di desiderio. E' avidità.

Non sanno quello che fanno...disse Gesù sulla croce; è un'affermazione di avidya del mondo. Così potremmo dire che tutte le volte che non riconosciamo ciò che siamo (nel prossimo, nel maestro, nella vita ) siamo come quelli che "non sanno ciò che fanno", siamo nelle tenebre, nell'avidya. Ma unico lume è la consapevolezza di sè, del sè. Tornare al centro, ruotare sulproprio asse, uscire dal duale, anche solo per qualche istante. Rimanere silenziosi.

Secondo me, si riesce a dare solo se non c'è sforzo, con naturalezza, spontaneamente; come dici tu: "provare a dare", ma senza cercare di cambiare alcunchè, nè l'altro, nè il mondo. Dare ciò che si è, ciò che si vede, ciò che si è esperito. Aprirsi in modo che l'altro si senta accolto, per quello che è.
Lasciando andare ogni attesa di un riscontro. Altrimenti sarebbe un dare per sentirsi più santi o per accrescere il proprio valore tramite l'altro.
Grazie ancora per l'intervento.
Un sorrisone

Re: Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 01/03/2021, 12:03
da cannaminor
blue_scouter ha scritto:
28/02/2021, 17:40
Stavo, per caso, facendo un giro nel forum, perché volevo sapere qual è l'esatta pronuncia sanscrita del mantra, «Io sono Brahman, Io sono», che è riportato nella « Ribhu gita » (non avendo la versione con testo originale a fronte) e mi sono imbattuto in questo post che mi ha dato, nell'ultima parte soprattutto, spunti utili e così ho deciso di rispondervi.

Come ho scritto precedentemente nella mia presentazione io non ho un maestro di riferimento e quindi credo, prima facie, che il mio percorso non possa essere considerato una sadhana. Ciò che faccio in relazione alla Tradizione è solo questo: leggere e studiare le opere di Raphael e di qualche altro autore e provare a rapportare quanto esse dicono a me e alla mia vita in generale.
Non nascondo che questo studio da autodidatta è spesso foriero di errori. Di uno di questi errori (forse) me ne sono reso conto di recente. E lo vorrei esporre qui.

Spesso il senso comune descrive la sadhana che porta alla «"morte" dell'io» come un percorso di solitudine e meditazione, e così l'ho sempre inteso anch'io, e sul punto ho incontrato molti accenni anche in alcuni testi di Raphael, come nell'opera: «Essenza e scopo dello yoga», nel capitolo dedicato all'«Asparśayoga» o Yoga senza sostegno (pp. 89 ss.).

L'idea però che mi sono fatto in questi anni (correggetemi se sbaglio) è che ogni Ente che si manifesta nello spazio-tempo-causa ha un suo percorso, una sua Strada che, prima o poi, lo porterà a ricongiungersi a quell'Essere donde proviene e da cui, invero, non si è mai mosso. Ora, io credo che questa strada sia unica irripetibile e imprevedibile. E solo in parte può essere resa col linguaggio o con altri mezzi espressivi. Ricordo una bella frase (non so però dire da dove l'ho presa): «ogni essere umano è via verso Dio».

Tutto ciò premesso, in questo periodo ho riflettuto sulla socialità. Ad essere sincero sono un tipo un po' solitario, che ama il silenzio e la quiete, e che sta bene sempre con le solite poche persone. Peraltro in questo periodo di lock-down non ho «sofferto» più di tanto il distanziamento sociale, anzi tutt’altro... Eppure devo riconoscere, per esperienza diretta, che a volte condividere un progetto o un'esperienza con un’altra persona riesce ad amplificare (e di molto) le potenzialità di ciò che stiamo facendo. Spesso, ed è questo il punto, nella nostra mentalità occidentale competitiva concepiamo - spesso - l'altro come un ostacolo o tuttalpiù lo ignoriamo, invece egli può essere una risorsa. Ciò che ho appena detto però, affinché non si trasformi in utopia e buonismo (ancora peggio), necessita - come spesso dice Raphael - un'apertura di cuore per comprendersi reciprocamente. Però questa apertura deve partire innanzitutto da Noi. E questo lo sto capendo a mie spese in tante situazioni della mia vita, dove per un motivo o per un altro, questa apertura da parte mia non c'è stata o è venuta meno.
Credo che in ciò Gesù di Nazareth sia stato un autentico maestro, quando dice nell'Evangelo: «Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (Mat. V.42). Ecco, proprio quest'ultima frase citata è stata per me fonte di problemi, per due questioni che mi sono sempre posto: (i) Se tu dai, non c'è il rischio di impoverirti? O, peggio ancora, (ii) non c'è il rischio di essere sfruttati da qualcuno più furbo di te?
Queste mie paure mi hanno sempre portato a preferire la solitudine più che la compagnia. Però è anche vero che, alla luce di quanto scrive Cielo, se diamo con il cuore, questi due rischi di cui sopra dovrebbero essere neutralizzati, e solo allora sarebbe vera un'altra famosa frase di Gesù: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At. XX,35).
Ecco ora a me sembra che la mia vita possa andare in questa direzione "sociale" (altro che isolamento...), quella cioè del provare a dare, più che tentare sempre di ricevere. Mi sembra però piuttosto impegnativo e rischioso per me...
In ambito Academia era in uso dire "In dono l'avete ricevuto, in dono datelo" e similmente l’owner di questo forum usava dire “Liberamente ricevuto, liberamente dato”, che detto così sembra all’apparenza oltremodo facile.

Cosa c’è di più facile che ricevere (in dono), dimenticando quasi tutti che quel ricevere in dono dipende dalla seconda parte, dal dare dal donare.

C’è quel famoso detto di Gesù (riportato nell’evangelo di Matteo 7, 7-8)…
«Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.»

Per quella stessa porta cui si bussa (e ci viene presumibilmente aperto), per la stessa medesima porta passa, fluisce, scorre (entra ed esce) il “dono”. Per il tramite di quella stessa porta cui bussiamo, cerchiamo, chiediamo ci verrà aperto, dato, risposto.

Pensiamo che quella porta sia chissà dove ed invece ce l’abbiamo proprio sotto il naso, essendo la porta del nostro stesso cuore. Perchè dove altro credevate di andare a bussare, a chiedere, a cercare se non alla porta del vostro stesso cuore?

Davvero ancora non abbiamo compreso che per quella stessa porta (del cuore) cui riceviamo, ci viene donato, dato, risposto, etc è la stessa identica porta cui bussavamo, chiedevamo, cercavamo?
E ancora, è per la stessa identica ampiezza di apertura cui noi le diamo (apertura del cuore) che riceveremo. Anzi di solito molto, molto di più di quanto abbiamo chiesto, dato, bussato...

Noi si pensa di bussare ad un aporta che sia altro da noi, altra, che dia verso chissà dove nel mondo, ed aprendosi ci sia il mondo di là ad aprirci, darsi, donarci e risponderci.

Ed invece noi non stiamo bussando alla porta del mondo, ma stiamo bussando alla porta del nostro stesso cuore (del regno di dio che è dentro di voi e non nel mondo), cuore di ogni risposta, di ogni dono, di ogni bene.

Gesù venne per lavare i piedi ai discepoli, venne per servire, per offrire, per donare, non per essere servito, riverito, donato. Non ha mai chiesto nulla ha sempre e solo dato, persino in ultimo la sua vita. L’unica richiesta che mi risulta è stata amatevi come io vi ho amato, come il Padre vi ama, etc.

E guarda caso uno dei suoi comandamenti non scritti è ama il prossimo tuo come te stesso. E come fai ad amarti e amare se non bussi e apri, spalanchi la porta del tuo stesso cuore, chiuso a tutto e tutti , al mondo e prima ancora a te stesso?

Come pensi di poter amare il mondo senza aprire quella porta, quella stessa porta che ti permette di amare te stesso? È comunicante, liberamente ricevuto liberamente dato, in dono l’avete ricevuto in dono datelo, il cuore, l’amore, etc.

Parlavi di rischi, di rischio nel donarsi, nel darsi, nell’aprire il cuore…rischio per chi?
Chi è che rischia se non l’egoismo, l’individualità, il “ricco” che teme di dover donare tutto e ciò facendo di non essere più ricco. Ma davvero siamo ciò che possediamo, in termini di “ricchezza”, in tutti i termini e sensi? Davvero siamo i nostri pensieri, le nostre convinzioni, i nostri credo così faticosamente acquisiti, costruiti, mattone su mattone, idea su idea, convinzione su convinzione.
Ma davvero tutte le volte tocca bussare quella benedetta porta per scoprire lo spazio, il vuoto, la libertà, l’essere che quei muri circoscrivono, come l’anfora l’etere che contiene?

Il prezzo è sempre quello, c’è solo un prezzo, la nostra individualità, il nostro ego, l"io"; sì è vero che “ogni essere umano è via verso Dio”, è verissimo, come è vero che non esistono due cristalli di neve uguali tra di loro, o due atomi di idrogeno uguali, identicamente uguali, istante per istante, ma tutto ciò è dovuto al movimento, a maya, al fenomenico, etc. Ogni essere umano è via verso Dio, sante parole, ogni essere umano è unico (nel molteplice) e unica la sua porta al suo cuore; ma il suo cuore (l’etere dentro l’anfora) così come Dio è unico a sua volta, ma questa volta davvero unico, non rispetto alla molteplicità, quindi uno nel molteplice, ma Uno-Uno, Unico appunto. C’è un solo Dio, c’è un solo Cuore, e ciascuno di noi ne è immagine (involucro molteplice, anfora..) ed ognuno di noi ha la porta, la sua porta cui bussare per accedere al regno di Dio, ma, tocca lasciare dietro le “ricchezze” come il ricco della parabola che informatone di “vendere” tutto se ne andò tristemente perchè molto aveva da lasciare. (Gli disse Gesù: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze…)

Tutti noi abbiamo molte “ricchezze”, e sono proprio quelle che ci fanno “ricco”, bussare a quella porta e poi entrare vuol dire lasciare quelle ricchezze nel mondo, non ci passano, come non passa il famoso “cammello” nella cruna dell’ago. A bussare tutti siamo buoni, ma poi ad entrare è un’altro discorso, così come ad amare “se stessi”, così come tutto il resto che ne segue…
Quella porta è estremamente stretta per “ricchi” (e anche per i cammelli a quanto pare), ma per chi è nella disposizione di servire, di donare (se stesso, e chi altro) allora la porta si apre e “si è più beati nel dare che nel ricevere” che si potrebbe anche dire si è più beati nel servire che nell’essere serviti.

Il servizio del resto, così come il donare, come il dare, il liberamente dare, è premessa indispensabile di ogni possibile ed eventuale ritorno in qualunque e qualsiasi forma esso assuma.
Da qualche parte (dico così ma ricordo perfettamente dove lo disse, anzi lo scrisse) Bodhananda;
« cosa c'è più bello del servire? Sta agli altri usufruire del servizio, ma non saprei vedere destino più bello del servire la vita in tutte le sue manifestazioni.»
Servire è testimoniarsi, è donarsi, è darsi, per quello che si è; donare le nostre realizzazioni ma anche (e forse direi quasi sopratutto) i nostri limiti, le nostre paure, la nostra umanità quale è come è così come è, qui e ora, e non come vorremmo, o penseremmo o ci piacerebbe fosse a noi e agli altri.
Servizio è amarsi e amare (ama il prossimo tuo come te stesso), conoscersi e conoscere, comprendersi e comprendere, è puro dono di sè, di ciò che veramente è Sè, di ciò che abbiamo realizzato essere Sè, niente di più e niente di meno. Poi come dice-va Bodhananda, sta agli altri usufruire del servizio (liberamente ricevuto, liberamente donato) ma sta a noi e solo a noi donarsi per quell’apertura di cuore che ne consegue aver bussato ed aver aperto.

Re: Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 02/03/2021, 18:51
da blue_scouter
Dei due post che hanno seguito il mio, quello di Cielo e l’altro di Cannaminor, vorrei soffermarmi su due aspetti, uno del primo e l’altro del secondo. Cielo, nella sua risposta, scrive:

«[…] si riesce a dare solo se non c’è sforzo, con naturalezza, spontaneamente; […] “provare a dare”, ma senza cercare di cambiare alcunché, né l’altro, né il mondo. Dare ciò che si è, ciò che si vede, ciò che si è esperito. Aprirsi in modo che l’altro si senta accolto, per quello che è. Lasciando andare ogni attesa di un riscontro. Altrimenti sarebbe un dare per sentirsi più santi o per accrescere il proprio valore tramite l’altro.»

Ovviamente non posso non essere d’accordo con queste sue parole. A tal proposito vorrei raccontare brevemente una mia esperienza. Qualche tempo fa ho lavorato, un po’ per “caso” un po’ per “necessità”, nell’ambito della cura/assistenza delle persone disabili nel settore della scuola pubblica dove, oltre all’aspetto meramente assistenziale, c’è anche quello pedagogico-didattico. Lì mi sono reso conto che non c’è reale crescita, umana o culturale che sia, senza una qualche forma di “sympatheia” (simpatia o comune sentire) tra chi insegna (e quindi dà) e chi apprende (e quindi riceve), e chi dà, l’insegnante, se dà con il cuore (cosa non scontata) riceve sempre più di quanto ha dato. Le parti insomma paiono invertirsi. Questo è ancora più valido nella pedagogia speciale (pedagogia applicata alle persone disabili), dove se è vero che le difficoltà sono maggiori, anche ciò che si riceve come operatori del settore è di più.
Ci sono però degli ostacoli da superare e Cielo li enumera bene in quella frase che ho citato sopra. Vorrei sul punto aggiungere una cosa: se è vero che bisogna dare spontaneamente, perché si dà ciò che siamo e non qualcosa di diverso, penso che ci vorrebbe – almeno dal mio punto di vista – un’educazione all’amore che ci faccia apprendere quest’arte, quella di amare cioè, in maniera semplice e naturale, ma efficace (forse ciò dipende anche dal fatto che siamo nel Kali Yuga e le verità tradizionali sono in parte obliate, se non contraddette).

Sul punto di cui sopra, cioè sull’educazione all’amore, mi paiono interessanti le parole di Cannaminor. Arrivo, dunque, al secondo aspetto che mi ha colpito - come dicevo nell’incipit – e lo faccio citando proprio le sue parole:

«Noi si pensa di bussare ad una porta che sia altro da noi, altra, che dia verso chissà dove nel mondo, ed aprendosi ci sia il mondo di là ad aprirci, darsi, donarci e risponderci.
Ed invece noi non stiamo bussando alla porta del mondo, ma stiamo bussando alla porta del nostro stesso cuore (del regno di dio che è dentro di voi e non nel mondo), cuore di ogni risposta, di ogni dono, di ogni bene.»

Queste parole - che mi sembrano così simili al Vangelo gnostico di Tommaso (I Vangeli apocrifi, Einaudi, 17a ed., p. 484): «[…] Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione» - mi hanno fatto riflettere sul fatto che un’educazione all’amore parta dall’amare (e conoscere) se stessi. A questo punto mi chiedo, girando la domanda a Voi: (i) Come amare noi stessi senza cadere nell’egoismo (dando a noi più di quanto potremmo dare agli altri)? (ii) Come amare gli altri senza cadere nella prodigalità/ipocrisia (dare ciò che non sia ha o più di quanto si ha realmente, magari per essere benvoluti)?
Sul punto - in passato – pensavo (suffragato dal “comune” agire) che fosse una questione di equilibrio o bilanciamento tra due moti o istanze: il dare e l’avere, di modo che i conti in qualche modo tornassero (i conti devono sempre tornare, mi ripetevo). Insomma un bilanciamento, per così dire, di “interessi” , i miei e quelli altrui. Ora, questa logica del “bilancino” – validissima nel «mondo di Cesare» (cioè del divenire) – non mi convince più, penso che in essa ci sia un fondo di paura (e di ipocrisia), dunque di ego che non vuole (o non sa) morire. Tale logica perdipiù è difficile da applicare in concreto anche nel mondo di tutti i giorni (quello del divenire, di «Cesare»), specie in contesti lavorativi come quello di cui parlavo nella prima parte di questo post. I conti anche qui rischiano di non tornare, quasi mai.

Re: Pausa di riflessione, tiepidezza o cosa?

Inviato: 03/03/2021, 19:03
da cielo
blue_scouter ha scritto:
02/03/2021, 18:51
Dei due post che hanno seguito il mio, quello di Cielo e l’altro di Cannaminor, vorrei soffermarmi su due aspetti, uno del primo e l’altro del secondo. Cielo, nella sua risposta, scrive:

«[…] si riesce a dare solo se non c’è sforzo, con naturalezza, spontaneamente; […] “provare a dare”, ma senza cercare di cambiare alcunché, né l’altro, né il mondo. Dare ciò che si è, ciò che si vede, ciò che si è esperito. Aprirsi in modo che l’altro si senta accolto, per quello che è. Lasciando andare ogni attesa di un riscontro. Altrimenti sarebbe un dare per sentirsi più santi o per accrescere il proprio valore tramite l’altro.»

Ovviamente non posso non essere d’accordo con queste sue parole. A tal proposito vorrei raccontare brevemente una mia esperienza. Qualche tempo fa ho lavorato, un po’ per “caso” un po’ per “necessità”, nell’ambito della cura/assistenza delle persone disabili nel settore della scuola pubblica dove, oltre all’aspetto meramente assistenziale, c’è anche quello pedagogico-didattico. Lì mi sono reso conto che non c’è reale crescita, umana o culturale che sia, senza una qualche forma di “sympatheia” (simpatia o comune sentire) tra chi insegna (e quindi dà) e chi apprende (e quindi riceve), e chi dà, l’insegnante, se dà con il cuore (cosa non scontata) riceve sempre più di quanto ha dato. Le parti insomma paiono invertirsi. Questo è ancora più valido nella pedagogia speciale (pedagogia applicata alle persone disabili), dove se è vero che le difficoltà sono maggiori, anche ciò che si riceve come operatori del settore è di più.
Ci sono però degli ostacoli da superare e Cielo li enumera bene in quella frase che ho citato sopra. Vorrei sul punto aggiungere una cosa: se è vero che bisogna dare spontaneamente, perché si dà ciò che siamo e non qualcosa di diverso, penso che ci vorrebbe – almeno dal mio punto di vista – un’educazione all’amore che ci faccia apprendere quest’arte, quella di amare cioè, in maniera semplice e naturale, ma efficace (forse ciò dipende anche dal fatto che siamo nel Kali Yuga e le verità tradizionali sono in parte obliate, se non contraddette).

Sul punto di cui sopra, cioè sull’educazione all’amore, mi paiono interessanti le parole di Cannaminor. Arrivo, dunque, al secondo aspetto che mi ha colpito - come dicevo nell’incipit – e lo faccio citando proprio le sue parole:

«Noi si pensa di bussare ad una porta che sia altro da noi, altra, che dia verso chissà dove nel mondo, ed aprendosi ci sia il mondo di là ad aprirci, darsi, donarci e risponderci.
Ed invece noi non stiamo bussando alla porta del mondo, ma stiamo bussando alla porta del nostro stesso cuore (del regno di dio che è dentro di voi e non nel mondo), cuore di ogni risposta, di ogni dono, di ogni bene.»

Queste parole - che mi sembrano così simili al Vangelo gnostico di Tommaso (I Vangeli apocrifi, Einaudi, 17a ed., p. 484): «[…] Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione» - mi hanno fatto riflettere sul fatto che un’educazione all’amore parta dall’amare (e conoscere) se stessi. A questo punto mi chiedo, girando la domanda a Voi: (i) Come amare noi stessi senza cadere nell’egoismo (dando a noi più di quanto potremmo dare agli altri)? (ii) Come amare gli altri senza cadere nella prodigalità/ipocrisia (dare ciò che non sia ha o più di quanto si ha realmente, magari per essere benvoluti)?
Sul punto - in passato – pensavo (suffragato dal “comune” agire) che fosse una questione di equilibrio o bilanciamento tra due moti o istanze: il dare e l’avere, di modo che i conti in qualche modo tornassero (i conti devono sempre tornare, mi ripetevo). Insomma un bilanciamento, per così dire, di “interessi” , i miei e quelli altrui. Ora, questa logica del “bilancino” – validissima nel «mondo di Cesare» (cioè del divenire) – non mi convince più, penso che in essa ci sia un fondo di paura (e di ipocrisia), dunque di ego che non vuole (o non sa) morire. Tale logica perdipiù è difficile da applicare in concreto anche nel mondo di tutti i giorni (quello del divenire, di «Cesare»), specie in contesti lavorativi come quello di cui parlavo nella prima parte di questo post. I conti anche qui rischiano di non tornare, quasi mai.
Ho avuto la fortuna quando frequentavo l'università di poter insegnare yoga a una classe di giovani disabili che si preparavano a imparare qualche mestiere in una scuola professionale dopo le medie. Adolescenti. E' stata un'esperienza che mi ha dato molto, anche se è durata qualche mese. Mi accoglievano con gioia e freschezza, sempre allegri, curiosi. E poi mi hanno accettata come professoressa di ginnastica perchè secondo loro insegnavo una ginnastica che non ti fa stancare e che ti fa riposare immaginando bei sogni...Gli facevo fare qualche esercizio semplice con respirazioni profonde e ampie e poi un bel rilassamento yoga-nidra (lo yoga del sonno con le visualizzazioni creative).

Educazione all'amore secondo me necessita di reciprocità, che non ci siano confini o barriere dovute al giudizio di preferenza di una condizione (abile e disabile) di un colore della pelle o di altre condizioni discriminanti (le elenca la Costituzione).
Come si impara quell'apertura? Provando a ritrovare una condizione di innocenza, di purezza, di naturalezza nelle relazioni, che è anche la capacità di rimanere nel presente, attenti a quello che accade, disponibili a fluire con le novità che ogni giornata inevitabilmente porta con sè, belle o brutte che siano.

Operando, ma distaccati dall'azione. Senza recriminare troppo quando la realtà oggettiva si discosta troppo dal desiderato. Abbiamo preso l'abitudine di vedere nell'altro l'elemento destabilizzante. Con l'età sto imparando che sono sempre io la causa. Sono io che permetto all'altro, all'esterno, di destabilizzarmi. Io che perdo lo stato di accoglienza e smetto di ascoltare l'altro, di osservarlo (e di amarlo, come un fratello o una sorella che sta viaggiando per un tratto sulla mia stessa rotta). E' un gioco di specchi, ma l'osservazione discriminante dovrebbe fermare lo scorrere delle immagini nel caledoscopio e focalizzarsi sul "senza oggetto", sul sè.
Chi è causa del suo mal pianga sè stesso, dice il detto.

Riflettevo sul fatto che tante volte mi è stato chiesto di come accorgersi se una persona che abbiamo incontrato sia un "realizzato". Mi verrebbe da rispondere che la domanda presuppone che l'incontro con il realizzato non sia avvenuto, o perchè il tizio non era realizzato, oppure perchè l'aspirante era troppo avvolto nei propri pensieri e immaginazioni (come un bruco dentro il bozzolo) da non averlo riconosciuto. Entrambe le ipotesi sono valide, per mia esperienza.
Un realizzato è perfettamente educato all'amore, è come una calamita, attira e fa innamorare. E' sempre sè stesso, eppure ognuno lo vede a modo suo: fratello, padre, madre, guru, istruttore, iniziatore...

Ma soprattutto è una calamita che attrae, che ti fa sentire quel cuore caldo dell'accoglienza umana, che ti prende così come sei, che non ti giudica, scrutandoti e facendoti sentire in imbarazzo o fuori posto.
Se siamo limatura di ferro saremo attratti dalla calamita.