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cannaminor
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Riflessioni

Messaggio da cannaminor » 10/12/2020, 15:36

Qualche giorno fa mi sono trovato a porre, forse ingenuamente, una domanda ad un iscritto il forum: “Sarebbe bello che tu le esplicitassi in una tua testimonianza personale…”; ne ho ricevuto una risposta forse altrettanto ingenua “ Tu mi chiedi quale sia la mia personale esperienza a riguardo e ti rispondo senza voler destare scandali, che vivo il samadhi ad occhi aperti.”

Ora senza entrare nel merito del significato ultimo della locuzione “samadhi ad occhi aperti”, grosso modo tutti hanno capito cosa volesse dire.

Ora dal mio punto di vista di libero pensatore in libero forum, e visto che la domanda l’avevo posta io, la risposta quale che fosse era ingiudicabile secondo me, ovvero non di possibile giudizio alcuno.

Dire ingiudicabile non vuol dire che ognuno non ne possa trarre la sua opinione in merito, sia in termini di veridicità o meno, così come che ognuno altrettanto per pari libertà non possa esporre tale sua opinione in merito (anche se non richiesta dall’interessato) in piena libertà.

Quindi con tutte le sfumature del caso uno potrebbe dire di crederci così come dire non ci credo per nulla, l’unica cosa che però non mi trova molto concorde sul crederci o meno è l’eventuale seguito a tale crederci oppure no, ovvero che se dal non crederci (per esempio) si passa poi a dire che chi l’ha detto (quindi sulla persona) che è un falso, un imbroglione, un impostore etc etc e tutti gli altri epiteti simili a seguire, lo trovo poco corretto.

Poco corretto non solo in termini di mera educazione e come si chiamava pure, ah netiquette, ma anche da un punto strettamnete logico e pure spirituale non lo trovo corretto. In sostanza la testimonianza altrui, secondo me, quale che essa sia, è ingiudicabile, di sicuro in riferimento alla persona che la espone, e poi non ultimo nemmeno in riferimento al contenuto detto, visto che è sempre e solo personale tale contenuto.

Io domani mattina posso anche svegliarmi e credermi napoleone reloaded, è in tutto e per tutto un cerchio che si chiude su me stesso. Non sto affermando nulla di nulla di alcuno altro che me stesso quindi certamente chi mi ascolta è nel pieno diritto di credermi oppure no, ma non è nel diritto di offendermi per tale mia convinzione, per matta e insensata possa sembrare agli occhi altrui, quantomeno fintanto che tale mia convinzione resta solo ed unicamente su di me soggetto che l’ha pronunciata e non voglia diventare imposizione in alcun modo su di alcun altro da me.

Come dire se io domani dico di essere napoleone e poi comincio a pretendere che tutto il mondo si inchini ai miei piedi etc etc beh ovviamente siamo già fuori dal cerchio iniziale del solo soggetto che affermava qualcosa su di sè.

Qualche giorno fa ho riletto questa frase di un caro amico (sia pure in tutt’altro contesto) che diceva:

«Sino a che riteniamo di non averne titolo e non parliamo, noi stiamo affermando di avere il libero arbitrio di tacere. E quindi taciamo pur senza entrare in silenzio, perché se fossimo in silenzio, testimonieremmo consapevoli dei nostri limiti.»

Il contesto di cui parlo era l’allora tema, più e più volte dibattuto del “ a che titolo”; a che titolo ciascuno di noi parla, descrive, si testimonia, chiunque, chiunque degli iscritti in un dato forum o mailing list come nel passato.

Il tema era ovviamente legato a quanto si stava dicendo prima, della possibilità o opportunità per ciascuno di testimoniarsi oppure no. Ovvero ciascuno di noi a che titolo può o gli è dato parlare? Davvero pensiamo che basti dire che siamo discepoli, seguaci, aspiranti, simpatizzanti e quant’altro di tizio, caio, sempronio e questo ci dà autorità di dire qualsiasi nostro convincimento e credenza (anche la più sincera e cristallina per noi) ci passi per la testa?

A suo tempo a tale domanda, anche quando fu posta da un dispepolo riconosciuto ad un maestro parimenti riconosciuto (dalla tradizione) la risposta fù; parla per la tua realizzazione, e solo quella.

Quindi la domanda che ciascuno di noi ad un certo punto credo si trovi a porsi quando si trova ad affermare qualcosa in relazione alla propria testimonianza di sè, abbia risposta univoca: ciascuno di noi parla e può parlare solo (per conto) della sua stessa e medesima realizzazione (quale che essa sia).

La frase di cui prima allora assume un significato ben preciso. Ovvero per coloro che non parlano, non dicono, non si testimoniano sostenendo di non averne titolo stanno di fatto sostenendo (con arroganza egoica aggiungo io) di avere il diritto (libero arbitrio) di non parlare e quindi tacere; ma questo tacere non ha nulla a che fare col silenzio presunto che si vuole sottointendere di abitare e vivere, perchè se veramente fossimo nel silenzio (del sè) testimonieremmo tranquillamente consapevoli dei limiti che ancora viviamo e siamo quali “io” ancora in essere su questo piano.
Poi magari non c’è più nessun io e nessuna individualità, ma c’è però un corpo, anzi più corpi (prarabdhakarma?) che vestono questo sè su questo e altri piani contigui, di cui il sè è consapevole e quindi non sono nè possono essere motivo di scelta, di libero arbitrio, inquanto sono esistenti sono già delle cause in essere, di cui non c’è nulla di cui tacere e ancor meno di individuare e individuarsi (in quelle cause) ma solo e semplicemente di descrivere proprio per il loro tramite.

Non so se capite il senso di tutto ciò; se “io” affermo che non ho titolo (così come se affermassi di averne titolo), starei sostanzialmente affermando un io che ha un libero arbitrio di scelta sulle sue stesse cause d’essere. L’io è le cause (karma) che l’hanno portato in esistenza, l’io è le cause (l’agente di causa, di azione) degli effetti a venire su questo piano in divenire, motivo per cui si arroga il diritto e l’arbitrio di poter scegliere inquanto causa-agente di azione, quale azione appunto scegliere e svolgere, quando invece non c’è nessun (libero) arbitrio una volta che si pongono quelle cause. Crediamo di poter decidere e scegliere gli effetti, scegliendo e decidendo la causa, ma una volta che la causa è tratta il gioco è già fatto.

In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero.

Ho appena letto una frase riportata da una sorella questa; "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata".

Mi pare dica la stessa cosa; vivere il moto del dharma è anche, secondo me, testimoniarsi, testimoniare ciò che si è, dare e dando voce al sè, a ciò che siamo, a ciò che più autenticamente e trasparentemente siamo. L’immobilità interiore dell’azione distaccata, è l’azione senza azione così come descritta nella Gita, l’azione in cui non c’è nessun agente di azione, nessuno che si voglia appropriare dei frutti dell’azione, nessuna causa che poi invochi e reclami l’effetto.

Un’azione senza azione è una causa senza effetto ovvero nessuna causa, o una parvenza di causa.

Il dharma è azione equanime, è equilibrio, equilibrio tra che cosa? Tra una causa e l’effetto, quando causa ed effetto sono in equilibrio, trovano e vivono l’equilibrio, allora l’azione è equanime, è armonica, non ci sono frutti per nessuno, nessuno che li reclami, l’azione è per l’azione, la causa ha trovato il suo equilibrio nell’effetto a seguire. E quando è che una causa trova equilibrio nell’effetto a seguire, quando la causa non è più causa...azione senza azione, causa senza causa.

Tutti sti bei discorsi per dire in ultimo, cercando di chiudere la confezione, che l’inizio e la fine di ogni cosa, azione, pensiero, dharma, equilibri vari etc etc è e resta sempre il “ciò che siamo”. Tutto origina da lì e tutto a lì torna, al nudo e crudo “ciò che siamo”. E questo vale per qualunque “ciò che siamo” possiamo mai essere, è sempre ora e adesso, è sempre il nostro miglior presente, è sempre ciò che siamo, non ce ne sono altri da ciò che siamo, quindi perchè non esserlo, perchè non adempierlo nel dharma, perchè non testimoniarlo nel manifesto, perchè non esserlo qui e ora, adesso?

So benissimo che quanto appena scritto possa variare nella sua lettura ed interpretazione da “seghe sui massimi sistemi” a tutta una serie altra di epiteti e slogan dai peggio ai meglio, lo so, è nella natura umana giudicare, o meglio è nella natura mentale giudicare, ed esprimere un giudizio, ma perchè per una volta, solo una volta uno, non ci si interroga su chi e cosa sia quel lui\lei stesso e si ponga in semplice confronto quanto letto con la sua esperienza e ne veda se e quanto e come in che misura quanto descritto e detto possa combaciare con la sua stessa visione di sè?

Non si chiede che venga scritto ed elaborato pubblicamente questo confronto, anche se farebbe piacere che lo fosse, ma che almeno venga posto a confronto della risposta che ciascuno di noi si può dare alla domanda “chi (o cosa) io sono?”. Ognuno ha da rispondere a se stesso, a solo se stesso, non agli altri, non al mondo, la risposta è univocamente interiore e personale; e se poi uno decide anche di renderla pubblica e condividerla con altri fratelli e sorelle è una sua libera scelta, motivo per cui ci sono spazi e luoghi come questo forum che dovrebbero servire proprio a questo, a darne risposta pubblica così da condividerla e confrontarla con quella altrettanto liberamente data altrui, liberamente data liberamente ricevuta.

Se poi tutto ciò non è o non fosse allora mi sarò sbagliato e qualcuno mi correggerà dell’errore commesso, spiegandomi spero in cosa e dove abbia errato e sbagliato.

cielo
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Re: Riflessioni

Messaggio da cielo » 11/12/2020, 10:16

cannaminor ha scritto:
10/12/2020, 15:36

In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero.

Ho appena letto una frase riportata da una sorella questa; "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata".

Mi pare dica la stessa cosa; vivere il moto del dharma è anche, secondo me, testimoniarsi, testimoniare ciò che si è, dare e dando voce al sè, a ciò che siamo, a ciò che più autenticamente e trasparentemente siamo. L’immobilità interiore dell’azione distaccata, è l’azione senza azione così come descritta nella Gita, l’azione in cui non c’è nessun agente di azione, nessuno che si voglia appropriare dei frutti dell’azione, nessuna causa che poi invochi e reclami l’effetto.

Un’azione senza azione è una causa senza effetto ovvero nessuna causa, o una parvenza di causa.

Il dharma è azione equanime, è equilibrio, equilibrio tra che cosa? Tra una causa e l’effetto, quando causa ed effetto sono in equilibrio, trovano e vivono l’equilibrio, allora l’azione è equanime, è armonica, non ci sono frutti per nessuno, nessuno che li reclami, l’azione è per l’azione, la causa ha trovato il suo equilibrio nell’effetto a seguire. E quando è che una causa trova equilibrio nell’effetto a seguire, quando la causa non è più causa...azione senza azione, causa senza causa.

Tutti sti bei discorsi per dire in ultimo, cercando di chiudere la confezione, che l’inizio e la fine di ogni cosa, azione, pensiero, dharma, equilibri vari etc etc è e resta sempre il “ciò che siamo”. Tutto origina da lì e tutto a lì torna, al nudo e crudo “ciò che siamo”. E questo vale per qualunque “ciò che siamo” possiamo mai essere, è sempre ora e adesso, è sempre il nostro miglior presente, è sempre ciò che siamo, non ce ne sono altri da ciò che siamo, quindi perchè non esserlo, perchè non adempierlo nel dharma, perchè non testimoniarlo nel manifesto, perchè non esserlo qui e ora, adesso?

So benissimo che quanto appena scritto possa variare nella sua lettura ed interpretazione da “seghe sui massimi sistemi” a tutta una serie altra di epiteti e slogan dai peggio ai meglio, lo so, è nella natura umana giudicare, o meglio è nella natura mentale giudicare, ed esprimere un giudizio, ma perchè per una volta, solo una volta uno, non ci si interroga su chi e cosa sia quel lui\lei stesso e si ponga in semplice confronto quanto letto con la sua esperienza e ne veda se e quanto e come in che misura quanto descritto e detto possa combaciare con la sua stessa visione di sè?

Non si chiede che venga scritto ed elaborato pubblicamente questo confronto, anche se farebbe piacere che lo fosse, ma che almeno venga posto a confronto della risposta che ciascuno di noi si può dare alla domanda “chi (o cosa) io sono?”. Ognuno ha da rispondere a se stesso, a solo se stesso, non agli altri, non al mondo, la risposta è univocamente interiore e personale; e se poi uno decide anche di renderla pubblica e condividerla con altri fratelli e sorelle è una sua libera scelta, motivo per cui ci sono spazi e luoghi come questo forum che dovrebbero servire proprio a questo, a darne risposta pubblica così da condividerla e confrontarla con quella altrettanto liberamente data altrui, liberamente data liberamente ricevuta.

Se poi tutto ciò non è o non fosse allora mi sarò sbagliato e qualcuno mi correggerà dell’errore commesso, spiegandomi spero in cosa e dove abbia errato e sbagliato.
Dici:
" In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero."

Le Upanishad, per esprimere l'ineffabile mistero dell'Uno senza secondo, lo indicano come: "Quello da cui la parola e il pensiero recedono", ecco che focalizzare la condizione di "silenzio" (dei corpi e relativi strumenti: i sensi, e della mente e perfino della buddhi (l'intuizione super conscia che se non stabilizzata tende a concettualizzare, "filosofeggiando") rende attuabile la condizione di "dimorare nel Sè".

E' un po' un paradosso però perchè come si può parlare del silenzio senza interromperlo?
E ugualmente cosa si può dire del puro Essere se non che "è"?

Che significa "stare nel silenzio", ma h24?, non nei ritagli di tempo, tra un'ondata e l'altra di pensieri-parole-azioni, quando pieni di buona volontà si pratica per "rientrare in sè stessi"?

Perchè prima dove eravamo, con chi eravamo, chi agiva "al posto nostro"?

E' come se implicitamente affermassimo che prima non eravamo quel qualcosa che è veramente noi, ma eravamo tanti io frammentati nello specchio della manifestazione che riflette il Puro Sè (in cui siamo in senso "assoluto").

Neghiamo realtà al soggetto che ha agito, lo disconosciamo (non è reale, pura apparenza), e bene facciamo perchè in effetti non ce l'ha una "realtà", se non per il tempo necessario al compimento dell'azione nella dimensione creata da tempo-spazio-causa, nata e scomparsa nel battibaleno.

Si torna alla cara vecchia domanda: "Chi sono io?" (cosa cerco, cosa trovo? il nulla sopra il nulla, veli su veli a svelare l'apparenza? Faccio prima a non mettere veli sul nulla)

Ripeterselo a sè stessi in modalità "fioretto di penitenza" (Chi sono io? Chi sono io? Chi sono io?, da 100 a 108 volte circa) non è la giusta modalità (per me), serve a poco perchè l'io in quanto fantasma non può trovare la risposta pappagallandosi la domanda, deve arrrendersi e prendere coscienza della sua effimera inconsistenza. Non trovo l'io perchè non c'è, è creato alla bisogna a seconda del ruolo e degli input esterni, in divenire. Dentro cosa c'è che non sia un effetto di quel flusso esterno intercettato?

L'infinita sinfonia vibratoria della manifestazione vibra nella coscienza di ognuno in tutta la sua incantevole complessità e diversità. Ognuno ne coglie un movimento, legge e interpreta un pezzo di spartito.

Ma come potremmo conoscere il suono senza essere già e sempre il Silenzio profondo che permette la manifestazione di ogni vibrazione con le proprie uniche "regole di spin"? La danza delle particelle nel Campo unificato è un'immagine che mi ha sempre affascinato.

L'idea errata, secondo me, è credere che l'acquisizione di questa cosiddetta "Realtà non duale", immobile ed eterna sorgente del Tutto, implichi e richieda un cambiamento formale, una trasformazione sostanziale, quando invece richiede un capovolgimento di prospettiva, forse anche un abituarsi a stare nel "samadhi ad occhi aperti" che indicava La Triplice.
In quanto jiva ( consapevoli di nome e forma) ancora immersi e aderenti all'io e al mio, siamo nell'incomprensione in quanto impegnati ad osservare ciò che siamo stati ieri (esame di coscienza) e ciò che saremo domani (speranze di altro da ciò che siamo) sempre sulla base della conoscenza empirica di una manifestazione a noi esteriore e contrapposta, che abbiamo reso "nostra" ricreandola con il pensiero nei nostri paradisi, purgatori e inferni interiori (che stiamo sempre a riordinare spostando i "dannati e gli eletti" tra un girone e l'altro, chiedo scusa ma Dante è di moda).
Se siamo quello che pensiamo è il caso che smettiamo di pensare.
Questo lo dico sulla base dell'esperienza personale, ho imparato che è corroborante stare in quello spazio tra un'ondata di pensieri e l'altra.
Come al mare, i bambini sfidano l'onda e scappano via velocissimi facendosi lambire. Il problema è che non sempre si riesce a scappare in tempo. Quattrenne circa venni ripescato per il costumino da mio padre...ricordo indelebile.
Senza pensieri si può contemplare il tutto come semplice apparenza che sorge e scompare all'orizzonte dell'atman immutabile. Il secondo è svanito. Bello da dirsi, difficile da farsi.

Forse l'indicazione: "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata" è la chiave di volta, la direzione sul percorso non-percorso. Come la particella atomica che gira su sè stessa, consapevole di essere immersa in un moto incessante, eppure sempre ferma nel profondo blu del Cosmo che inspira ed espira i mondi e le creature, dando moto al più piccolo del piccolo.

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Re: Riflessioni

Messaggio da Fedro » 11/12/2020, 11:45

soltanto qualche riflessione a latere sulla Riflessione di namarupa, che mi sembra ineccepibile.
Riguardo la testimonianza, mi chiedo: in un ambito in cui l'istanza di un io posticcio si pone come narrazione (non potendo fare altrimenti)
il dire (quanto il trattenersi dal dire) che sostanza ha, oltre il sostenersi come realtà ?
Capisco, come tu stesso dici, l'alibi del credere di stare in silenzio, nel trattenersi dal dire (ciò che evidentemente non si vuol mostrare) ma l'alternativa qual è? Spesso è il dire che si è nulla o quasi....In pratica sempre l'io che se la racconta, valutandosi, nascondendosi o esaltandosi.
Comunque,posto diversamente il punto, riguardo alla testimonianza di ciò che si è, a me emerge sempre di vedere solo ciò che limita questa visione, piuttosto che la visione stessa, e che non mi pare descrivibile e oggettivabile, da cui il decadere dell'istanza stessa, se nasce.

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Re: Riflessioni

Messaggio da cannaminor » 11/12/2020, 12:35

cielo ha scritto:
11/12/2020, 10:16

Dici:
" In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero."

Le Upanishad, per esprimere l'ineffabile mistero dell'Uno senza secondo, lo indicano come: "Quello da cui la parola e il pensiero recedono", ecco che focalizzare la condizione di "silenzio" (dei corpi e relativi strumenti: i sensi, e della mente e perfino della buddhi (l'intuizione super conscia che se non stabilizzata tende a concettualizzare, "filosofeggiando") rende attuabile la condizione di "dimorare nel Sè".

E' un po' un paradosso però perchè come si può parlare del silenzio senza interromperlo?
E ugualmente cosa si può dire del puro Essere se non che "è"?

Che significa "stare nel silenzio", ma h24?, non nei ritagli di tempo, tra un'ondata e l'altra di pensieri-parole-azioni, quando pieni di buona volontà si pratica per "rientrare in sè stessi"?

Perchè prima dove eravamo, con chi eravamo, chi agiva "al posto nostro"?

E' come se implicitamente affermassimo che prima non eravamo quel qualcosa che è veramente noi, ma eravamo tanti io frammentati nello specchio della manifestazione che riflette il Puro Sè (in cui siamo in senso "assoluto").

Neghiamo realtà al soggetto che ha agito, lo disconosciamo (non è reale, pura apparenza), e bene facciamo perchè in effetti non ce l'ha una "realtà", se non per il tempo necessario al compimento dell'azione nella dimensione creata da tempo-spazio-causa, nata e scomparsa nel battibaleno.

Si torna alla cara vecchia domanda: "Chi sono io?" (cosa cerco, cosa trovo? il nulla sopra il nulla, veli su veli a svelare l'apparenza? Faccio prima a non mettere veli sul nulla)

Ripeterselo a sè stessi in modalità "fioretto di penitenza" (Chi sono io? Chi sono io? Chi sono io?, da 100 a 108 volte circa) non è la giusta modalità (per me), serve a poco perchè l'io in quanto fantasma non può trovare la risposta pappagallandosi la domanda, deve arrrendersi e prendere coscienza della sua effimera inconsistenza. Non trovo l'io perchè non c'è, è creato alla bisogna a seconda del ruolo e degli input esterni, in divenire. Dentro cosa c'è che non sia un effetto di quel flusso esterno intercettato?

L'infinita sinfonia vibratoria della manifestazione vibra nella coscienza di ognuno in tutta la sua incantevole complessità e diversità. Ognuno ne coglie un movimento, legge e interpreta un pezzo di spartito.

Ma come potremmo conoscere il suono senza essere già e sempre il Silenzio profondo che permette la manifestazione di ogni vibrazione con le proprie uniche "regole di spin"? La danza delle particelle nel Campo unificato è un'immagine che mi ha sempre affascinato.

L'idea errata, secondo me, è credere che l'acquisizione di questa cosiddetta "Realtà non duale", immobile ed eterna sorgente del Tutto, implichi e richieda un cambiamento formale, una trasformazione sostanziale, quando invece richiede un capovolgimento di prospettiva, forse anche un abituarsi a stare nel "samadhi ad occhi aperti" che indicava La Triplice.
In quanto jiva ( consapevoli di nome e forma) ancora immersi e aderenti all'io e al mio, siamo nell'incomprensione in quanto impegnati ad osservare ciò che siamo stati ieri (esame di coscienza) e ciò che saremo domani (speranze di altro da ciò che siamo) sempre sulla base della conoscenza empirica di una manifestazione a noi esteriore e contrapposta, che abbiamo reso "nostra" ricreandola con il pensiero nei nostri paradisi, purgatori e inferni interiori (che stiamo sempre a riordinare spostando i "dannati e gli eletti" tra un girone e l'altro, chiedo scusa ma Dante è di moda).

Se siamo quello che pensiamo è il caso che smettiamo di pensare.

Questo lo dico sulla base dell'esperienza personale, ho imparato che è corroborante stare in quello spazio tra un'ondata di pensieri e l'altra.
Come al mare, i bambini sfidano l'onda e scappano via velocissimi facendosi lambire. Il problema è che non sempre si riesce a scappare in tempo. Quattrenne circa venni ripescato per il costumino da mio padre...ricordo indelebile.
Senza pensieri si può contemplare il tutto come semplice apparenza che sorge e scompare all'orizzonte dell'atman immutabile. Il secondo è svanito. Bello da dirsi, difficile da farsi.

Forse l'indicazione: "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata" è la chiave di volta, la direzione sul percorso non-percorso.
Non si parla di “non pensieri”, così come non si parla di senza azione, o di scappare dall’azione e\o dal dharma secondo il noto abbinamento non-tradizionale di kama-artha (desiderio di benessere) e moksha-dharma (liberazione dal dharma), là dove invece la tradizione indica, per il corretto tramite e abbinamento degli stessi purusartha, il kama-moksa (ardente desiderio alla liberazione) e artha-dharma ovvero il conseguimento del benessere per il tramite del dharma-equanimità.

Ma per tornare a ciò che stavi dicendo sotto varie angolature non ultima l’affermare (o domandare?) “Se siamo quello che pensiamo è il caso che smettiamo di pensare.” (?) ti rispondo nella mia esperienza che non c’è e non esiste un “smettere di pensare” così come parimenti non esiste un “smettere di agire-azione” ma solo un smettere di identificarsi in ciò che si pensa o di credersi l’agente di ciò che si agisce o dell’azione svolta.

C’è un pensare, c’è un agire, c’è l’azione ma nessuna di queste è nostra, è addebitabile, imputabile, caricabile e sfruttabile nei suoi frutti ad un soggetto detto “io”. È un pò il discorso di quella frase di Bo che diceva non c’è nessun testimone, c’è solo la testimonianza.

Rileggendo i trascritti di quel seminario sul karmayoga, c’è un continuo indicare la via d’essere presenti, dell’essere presenti nell’azione, di non sfuggirla, di non scappare dall’azione presente, quale che essa sia, ossia il nostro presente attuale, qui e ora e non certo dove vorremmo o desidereremmo essere o per desiderio o per paura: siamo qui, ora, siamo nati qui, siamo in queste condizioni sociali e dharmiche, differenti, ognuno con le sue, ma questo è un dato di fatto, questa è la nostra realtà, non quella passata non quella futura, quella attuale di adesso, e quello è come si usava dire (ed è ancora tremendamente vero e attuale) il “nostro miglior presente”.

Quello è da vivere, quella è la sadhana, non ce ne sono altre che quella che è l’ora e adesso del presente attuale. Ed è in quella che ci si deve immergere fino in fondo e non scappare.

Mi riportavi l’esempio-analogia di quando eri piccola e scappavi le onde in arrivo sulla spiaggia, salvata poi in extremis da tuo padre etc. Nella mia esperienza di vita ho fatto pratica subacquea e talvolta è capitato durante delle immersioni che il mare inizialmente poco mosso si ingrandisse ulteriormente nel tempo dell’immersione, per ritrovarselo in uscita diciamo abbastanza mosso.
C’è una differenza enorme, e credo si possa ben immaginare, dall’osservare le onde da sotto, da 15, 20 metri di profondità, specie in prossimità della costa, ed esserci dentro o quasi dentro in superficie. Nel primo caso ne sei completamente fuori da ogni movimento d’acqua nel secondo ci sei dentro in pieno e ne viene sbattuto dove vogliono loro.

Quando parlo, e credo anche altri si riferiscano a questo, di centratura, di equilibrio, di silenzio etc etc si parla di una condizione in cui sei sotto la superficie, sotto il moto e movimento d’acqua delle onde, ininfluenzato dalle stesse, imperturbato, ma questo non vuol dire che non le vedi e non le osservi in tutta la loro magnificenza e potenza.

Il pensiero il pensare di una mente, così come l’azione corrispondente che ne consegue, è come le onde del mare o della mente stessa. Non è che cessano o non ci sono, semplicemente invece che stare su una barchetta smilza smilza in superficie in loro balia, sei sotto 20 metri (tanto per dire) e ne osservi il moto del tutto indisturbato e imperturbato.

Il discorso inziale del karma yoga di essere nell’azione, di tuffarcisi dentro appieno ed in toto, e quindi per contro di non sfuggirla, di non schivarla, di non ignorarla, equivale al dire secondo l’analogia delle onde, che invece di sfuggirle bisognerebbe andarci in contro e tuffarcisi dentro, così dentro e così nel presente e attuale di se stessi, da immergersi dentro fino ad arrivare “sotto” (secondo l’analogia proposta) alle onde stesse, al mare mosso stesso, al pensiero e azione stessa.

Il distacco di cui tante volte si parla, anche in ambito di karmayoga è questo, è il distacco che consegue la piena e totale presenza all’azione, al presente, all’attuale, al dharma stesso. Se ti tuffi e affondi dentro, sei pienamente nell’onda, nell'azione presente, non puoi fare a meno di scenderne sotto-dentro in una condizione di distacco in cui l’onda continua ad esserci e svolgerci, ma tu non ne sei più mosso e sbalottato. L’io altro non è che quel soggetto, quel barchino “smilzo smilzo” mosso dalle onde pensiero-azione, mosso di un movimento che in ultimo, anzi quasi subito e istantaneamente crede di essere lui stesso, si arriva all’assurdo che l’io, il barchino, si crede lui stesso artefice delle onde e del dove queste portano e muovono come azione, è questo l’assurdo, l’apparenza, il “crederci” che si viene a creare.

Il distacco in fondo non può che conseguire una piena e totale presenza, immersione, comprensione dell'azione presente. Come dire se ci sei pienamente e totalmente "dentro", in presenza e attualtà, non ci sei più perchè sei diventato quella stessa totalità e presenza.

Già le onde stesse sono un’apparenza, un fenomeno, ma ci si aggiunge poi un soggetto che se ne crede l’artefice e causa, quando invece ne è solo un effetto semmai, un effetto persino successivo alle onde stesse (ahamkara senso dell’io). Siamo ciò che pensiamo, siamo ciò che agiamo, assurdo, illogico, eppure per noi reale.

Il conosci te stesso, la domanda “chi sei tu” o “chi sono io” (se espressa in termini personali), è meramente un invito, un’indicazione di discesa nel mare magnum della mente, nient’altro che questo, un’invito a immergerci in noi stessi, qualunque cosa crediamo sia quel “noi stessi” salvo poi scoprire, anche solo dopo pochi metri di immersione, che quelle onde che vediamo sopra di noi sono proprio quel “noi” che ci credavamo essere prima che eravamo in superficie.

Il karmayoga chiede di vivere la vita, l’azione, il dharma che ci attiene, ovvero le onde, tutte le onde che la vita nella sua attuale forma ci propone. Se sono in mezzo alle onde in mezzo al mare e vengo da queste sbalottato, non c’è fuga, non c’è direzione (in orrizzontale) cui possa sfuggire le onde, anzi peggio, più mi agito e cerco di sfuggire più mi stanco e non ottengo nulla. Per assurdo che possa sembrare al naufrago non è per una via orizzontale (divenire, passato-futuro) che ci si può salvare ma verticale, verticale che inizialmente è di centratura, di “morto a galla”, da cui poi è solo dal centro della croce che poi si ascende o scende a secondo dei punti di vista. Dicono che inizialmente tocchi una discesa (agli inferi?) per poi ascendere di nuovo (al paradiso?), altri che proseguono e dicono che dopo l’ascesa tocchi di nuovo una ri-discesa ci sono tanti linguaggi e analogie messe in atto dalla tradizione, ad ognuno quella a lui\lei più confacente. Di certo (sempre secondo me) in termini spaziali a noi più famigliari vi è un aspetto orizzontale ed uno verticale del “cammino” almeno finchè se ne coglie e vede uno di cammino, anche questo in dubbio per certe visioni.

"L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata"

Sì, è un bel equilibrio, spesso associato al filo di lama di un rasoio, di difficile percorrenza, ma tant’è forse vale la pena provarci e viverlo.

Volendo parafrasare (in una mia lettura) quanto sopra si potrebbe dire: L’equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma (così come il moto della vita, dell’azione, delle “onde in superficie”) nell’immobilità interiore (20 metri sotto la superficie del mare?) dell’azione distaccata.

ortica
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Re: Riflessioni

Messaggio da ortica » 12/12/2020, 12:04

cannaminor ha scritto: Quindi con tutte le sfumature del caso uno potrebbe dire di crederci così come dire non ci credo per nulla, l’unica cosa che però non mi trova molto concorde sul crederci o meno è l’eventuale seguito a tale crederci oppure no, ovvero che se dal non crederci (per esempio) si passa poi a dire che chi l’ha detto (quindi sulla persona) che è un falso, un imbroglione, un impostore etc etc e tutti gli altri epiteti simili a seguire, lo trovo poco corretto.

Poco corretto non solo in termini di mera educazione e come si chiamava pure, ah netiquette, ma anche da un punto strettamnete logico e pure spirituale non lo trovo corretto. In sostanza la testimonianza altrui, secondo me, quale che essa sia, è ingiudicabile, di sicuro in riferimento alla persona che la espone, e poi non ultimo nemmeno in riferimento al contenuto detto, visto che è sempre e solo personale tale contenuto.
Ho riletto tutto il thread cui fai riferimento, non sono stati espressi insulti di alcun genere nè, quindi, si sono verificate violazioni della netiquette.
Qualora tali insulti mi fossero, invece, sfuggiti, puoi per cortesia segnalarli citandoli testualmente?
Grazie.

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Re: Riflessioni

Messaggio da cannaminor » 12/12/2020, 12:20

ortica ha scritto:
12/12/2020, 12:04
cannaminor ha scritto: Quindi con tutte le sfumature del caso uno potrebbe dire di crederci così come dire non ci credo per nulla, l’unica cosa che però non mi trova molto concorde sul crederci o meno è l’eventuale seguito a tale crederci oppure no, ovvero che se dal non crederci (per esempio) si passa poi a dire che chi l’ha detto (quindi sulla persona) che è un falso, un imbroglione, un impostore etc etc e tutti gli altri epiteti simili a seguire, lo trovo poco corretto.

Poco corretto non solo in termini di mera educazione e come si chiamava pure, ah netiquette, ma anche da un punto strettamnete logico e pure spirituale non lo trovo corretto. In sostanza la testimonianza altrui, secondo me, quale che essa sia, è ingiudicabile, di sicuro in riferimento alla persona che la espone, e poi non ultimo nemmeno in riferimento al contenuto detto, visto che è sempre e solo personale tale contenuto.
Ho riletto tutto il thread cui fai riferimento, non sono stati espressi insulti di alcun genere nè, quindi, si sono verificate violazioni della netiquette.
Qualora tali insulti mi fossero, invece, sfuggiti, puoi per cortesia segnalarli citandoli testualmente?
Grazie.
Non ci sono stati insulti diretti, almeno a memoria, però vorrei farti notare che il discorso che si portava avanti era a solo titolo di esempio, e non specifico a quello citato inizialmente. E ad ogni modo, nel riporto da tu stessa riportato, si parla di "eventuale" seguito a tale crederci o meno etc etc. Non per pararmi come se fossi davanti ad un giudice cui devo dimostrare la mia innocenza, ma mi pare un po' eccessivo questo tuo modo di intervento; di tutto quanto detto l'unica domanda che ti sorge, degna di essere scritta sul forum al seguitto del tread è davvero solo se abbia additato o meno qualcuno di insultare qualcun'altro?

Avrei sperato davvero che le domande fossero altre e non questa.

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Re: Riflessioni

Messaggio da cannaminor » 13/12/2020, 19:41

Fedro ha scritto:
11/12/2020, 11:45
soltanto qualche riflessione a latere sulla Riflessione di namarupa, che mi sembra ineccepibile.
Riguardo la testimonianza, mi chiedo: in un ambito in cui l'istanza di un io posticcio si pone come narrazione (non potendo fare altrimenti)
il dire (quanto il trattenersi dal dire) che sostanza ha, oltre il sostenersi come realtà ?
Capisco, come tu stesso dici, l'alibi del credere di stare in silenzio, nel trattenersi dal dire (ciò che evidentemente non si vuol mostrare) ma l'alternativa qual è? Spesso è il dire che si è nulla o quasi....In pratica sempre l'io che se la racconta, valutandosi, nascondendosi o esaltandosi.
Quella frase citata del caro amico «Sino a che riteniamo di non averne titolo e non parliamo, noi stiamo affermando di avere il libero arbitrio di tacere. E quindi taciamo pur senza entrare in silenzio, perché se fossimo in silenzio, testimonieremmo consapevoli dei nostri limiti.» si poggia sul così detto “libero arbitrio”.

La legge che regola la manifestazione viene definita come legge di causalità (karma-azione).

Ciò che chiamiamo "io" è quell'insieme di circostanze (karma-azione-causalità) che porta a compiere proprio quella azione.

Quindi se mi vedo esistente come io, certo che esiste il libero arbitrio, sono "io" che agisco e opero verso una azione piuttosto che un'altra.

Ma se sono distaccato dal moto causale, non vedo alcun libero arbitiro, vedo l'azione e vedo lo svolgimento, non vedo altre azioni possibili azioni entro cui scegliere. È tutto qui. Alcuni chiamano libero arbitrio quello che altri chiamano karma-azione.

L'Essere è libertà in sé, non libertà condizionata dalla scelta, che proprio in quanto tale non può essere libera. Se si pone una scelta (libero arbitrio) si è nella necessità, nella condizionalità della stessa, condizione e necessità che solo un “io” può vivere e subire inquanto si crede artefice della stessa causalità quindi necessità e condizione da lui stesso creduta in identificazione.
Fedro ha scritto:
11/12/2020, 11:45
Comunque, posto diversamente il punto, riguardo alla testimonianza di ciò che si è, a me emerge sempre di vedere solo ciò che limita questa visione, piuttosto che la visione stessa, e che non mi pare descrivibile e oggettivabile, da cui il decadere dell'istanza stessa, se nasce.
Vedere ciò che limita questa visione è proprio la visione stessa di ciò che sei.
Tu inquanto soggetto vedente e testimoniante sei appunto quel limite, la visione di quel limite, e per tale va testimoniata. Te la racconteresti (e la racconteresti anche al prossimo) se tu volessi nascondere o coprire con una credenza e convinzione tale limite. Della seria; c’è un limite? Lo vedi, lo puoi descrivere, lo puoi testimoniare?
E allora fallo, quella è la descrizione-testimonianza di ciò che sei e vedi e non altra. Ogni altra che tu volessi raccontare così come negare e non raccontarla, non sarebbe te, il limite che ora vivi e sei, sarebbe altro sia nell’affermazione altra che nella negazione la stessa.

Non si può scappare da ciò che si è, qualunque cosa o limite esso implichi, a meno di raccontarsela o cercare di raccontarla al prossimo, così come di negarla e non dire nulla nè a sè nè al prossimo. In ogni caso sarebbe un’alterità rispetto all’evidenza di ciò che sei e vedi (ora nel limite) di te stesso.

È per questo che il quella frase del nostro caro amico comune si dice che se fossimo nel silenzio testimonieremmo consapevoli dei nostri limiti. Il silenzio di cui si parla non è nè vuol essere dire di una “realizzazione ultimativa” di qualche genere, vuol solo dire che nel momento che ti vedi per come sei nei limiti pure di ciò che sei, quello sei e nient’altro che quello, e quello testimoni nel silenzio di ogni alterità altra creduta, convinta, inferita, opinata, etc.

Vedi il limite e per ciò ti è dato descriverti nel qui e ora, quello sei, qual’è il problema? Di non essere come ti vorresti o come gli altri ti vorrebbero etc?
Mi pare così evidente che ad un certo punto non si abbia più alcuna altra scelta che essere e testimoniarsi per quello che siamo, limiti inclusi, se ancora ci sono, quando non ci saranno più se ne testimoniarà allora l'assenza. Com'era quella battuta sempre del nostro amico; se c'è c'è, se non c'è non c'è...

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