Riflessioni
Inviato: 10/12/2020, 15:36
Qualche giorno fa mi sono trovato a porre, forse ingenuamente, una domanda ad un iscritto il forum: “Sarebbe bello che tu le esplicitassi in una tua testimonianza personale…”; ne ho ricevuto una risposta forse altrettanto ingenua “ Tu mi chiedi quale sia la mia personale esperienza a riguardo e ti rispondo senza voler destare scandali, che vivo il samadhi ad occhi aperti.”
Ora senza entrare nel merito del significato ultimo della locuzione “samadhi ad occhi aperti”, grosso modo tutti hanno capito cosa volesse dire.
Ora dal mio punto di vista di libero pensatore in libero forum, e visto che la domanda l’avevo posta io, la risposta quale che fosse era ingiudicabile secondo me, ovvero non di possibile giudizio alcuno.
Dire ingiudicabile non vuol dire che ognuno non ne possa trarre la sua opinione in merito, sia in termini di veridicità o meno, così come che ognuno altrettanto per pari libertà non possa esporre tale sua opinione in merito (anche se non richiesta dall’interessato) in piena libertà.
Quindi con tutte le sfumature del caso uno potrebbe dire di crederci così come dire non ci credo per nulla, l’unica cosa che però non mi trova molto concorde sul crederci o meno è l’eventuale seguito a tale crederci oppure no, ovvero che se dal non crederci (per esempio) si passa poi a dire che chi l’ha detto (quindi sulla persona) che è un falso, un imbroglione, un impostore etc etc e tutti gli altri epiteti simili a seguire, lo trovo poco corretto.
Poco corretto non solo in termini di mera educazione e come si chiamava pure, ah netiquette, ma anche da un punto strettamnete logico e pure spirituale non lo trovo corretto. In sostanza la testimonianza altrui, secondo me, quale che essa sia, è ingiudicabile, di sicuro in riferimento alla persona che la espone, e poi non ultimo nemmeno in riferimento al contenuto detto, visto che è sempre e solo personale tale contenuto.
Io domani mattina posso anche svegliarmi e credermi napoleone reloaded, è in tutto e per tutto un cerchio che si chiude su me stesso. Non sto affermando nulla di nulla di alcuno altro che me stesso quindi certamente chi mi ascolta è nel pieno diritto di credermi oppure no, ma non è nel diritto di offendermi per tale mia convinzione, per matta e insensata possa sembrare agli occhi altrui, quantomeno fintanto che tale mia convinzione resta solo ed unicamente su di me soggetto che l’ha pronunciata e non voglia diventare imposizione in alcun modo su di alcun altro da me.
Come dire se io domani dico di essere napoleone e poi comincio a pretendere che tutto il mondo si inchini ai miei piedi etc etc beh ovviamente siamo già fuori dal cerchio iniziale del solo soggetto che affermava qualcosa su di sè.
Qualche giorno fa ho riletto questa frase di un caro amico (sia pure in tutt’altro contesto) che diceva:
«Sino a che riteniamo di non averne titolo e non parliamo, noi stiamo affermando di avere il libero arbitrio di tacere. E quindi taciamo pur senza entrare in silenzio, perché se fossimo in silenzio, testimonieremmo consapevoli dei nostri limiti.»
Il contesto di cui parlo era l’allora tema, più e più volte dibattuto del “ a che titolo”; a che titolo ciascuno di noi parla, descrive, si testimonia, chiunque, chiunque degli iscritti in un dato forum o mailing list come nel passato.
Il tema era ovviamente legato a quanto si stava dicendo prima, della possibilità o opportunità per ciascuno di testimoniarsi oppure no. Ovvero ciascuno di noi a che titolo può o gli è dato parlare? Davvero pensiamo che basti dire che siamo discepoli, seguaci, aspiranti, simpatizzanti e quant’altro di tizio, caio, sempronio e questo ci dà autorità di dire qualsiasi nostro convincimento e credenza (anche la più sincera e cristallina per noi) ci passi per la testa?
A suo tempo a tale domanda, anche quando fu posta da un dispepolo riconosciuto ad un maestro parimenti riconosciuto (dalla tradizione) la risposta fù; parla per la tua realizzazione, e solo quella.
Quindi la domanda che ciascuno di noi ad un certo punto credo si trovi a porsi quando si trova ad affermare qualcosa in relazione alla propria testimonianza di sè, abbia risposta univoca: ciascuno di noi parla e può parlare solo (per conto) della sua stessa e medesima realizzazione (quale che essa sia).
La frase di cui prima allora assume un significato ben preciso. Ovvero per coloro che non parlano, non dicono, non si testimoniano sostenendo di non averne titolo stanno di fatto sostenendo (con arroganza egoica aggiungo io) di avere il diritto (libero arbitrio) di non parlare e quindi tacere; ma questo tacere non ha nulla a che fare col silenzio presunto che si vuole sottointendere di abitare e vivere, perchè se veramente fossimo nel silenzio (del sè) testimonieremmo tranquillamente consapevoli dei limiti che ancora viviamo e siamo quali “io” ancora in essere su questo piano.
Poi magari non c’è più nessun io e nessuna individualità, ma c’è però un corpo, anzi più corpi (prarabdhakarma?) che vestono questo sè su questo e altri piani contigui, di cui il sè è consapevole e quindi non sono nè possono essere motivo di scelta, di libero arbitrio, inquanto sono esistenti sono già delle cause in essere, di cui non c’è nulla di cui tacere e ancor meno di individuare e individuarsi (in quelle cause) ma solo e semplicemente di descrivere proprio per il loro tramite.
Non so se capite il senso di tutto ciò; se “io” affermo che non ho titolo (così come se affermassi di averne titolo), starei sostanzialmente affermando un io che ha un libero arbitrio di scelta sulle sue stesse cause d’essere. L’io è le cause (karma) che l’hanno portato in esistenza, l’io è le cause (l’agente di causa, di azione) degli effetti a venire su questo piano in divenire, motivo per cui si arroga il diritto e l’arbitrio di poter scegliere inquanto causa-agente di azione, quale azione appunto scegliere e svolgere, quando invece non c’è nessun (libero) arbitrio una volta che si pongono quelle cause. Crediamo di poter decidere e scegliere gli effetti, scegliendo e decidendo la causa, ma una volta che la causa è tratta il gioco è già fatto.
In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero.
Ho appena letto una frase riportata da una sorella questa; "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata".
Mi pare dica la stessa cosa; vivere il moto del dharma è anche, secondo me, testimoniarsi, testimoniare ciò che si è, dare e dando voce al sè, a ciò che siamo, a ciò che più autenticamente e trasparentemente siamo. L’immobilità interiore dell’azione distaccata, è l’azione senza azione così come descritta nella Gita, l’azione in cui non c’è nessun agente di azione, nessuno che si voglia appropriare dei frutti dell’azione, nessuna causa che poi invochi e reclami l’effetto.
Un’azione senza azione è una causa senza effetto ovvero nessuna causa, o una parvenza di causa.
Il dharma è azione equanime, è equilibrio, equilibrio tra che cosa? Tra una causa e l’effetto, quando causa ed effetto sono in equilibrio, trovano e vivono l’equilibrio, allora l’azione è equanime, è armonica, non ci sono frutti per nessuno, nessuno che li reclami, l’azione è per l’azione, la causa ha trovato il suo equilibrio nell’effetto a seguire. E quando è che una causa trova equilibrio nell’effetto a seguire, quando la causa non è più causa...azione senza azione, causa senza causa.
Tutti sti bei discorsi per dire in ultimo, cercando di chiudere la confezione, che l’inizio e la fine di ogni cosa, azione, pensiero, dharma, equilibri vari etc etc è e resta sempre il “ciò che siamo”. Tutto origina da lì e tutto a lì torna, al nudo e crudo “ciò che siamo”. E questo vale per qualunque “ciò che siamo” possiamo mai essere, è sempre ora e adesso, è sempre il nostro miglior presente, è sempre ciò che siamo, non ce ne sono altri da ciò che siamo, quindi perchè non esserlo, perchè non adempierlo nel dharma, perchè non testimoniarlo nel manifesto, perchè non esserlo qui e ora, adesso?
So benissimo che quanto appena scritto possa variare nella sua lettura ed interpretazione da “seghe sui massimi sistemi” a tutta una serie altra di epiteti e slogan dai peggio ai meglio, lo so, è nella natura umana giudicare, o meglio è nella natura mentale giudicare, ed esprimere un giudizio, ma perchè per una volta, solo una volta uno, non ci si interroga su chi e cosa sia quel lui\lei stesso e si ponga in semplice confronto quanto letto con la sua esperienza e ne veda se e quanto e come in che misura quanto descritto e detto possa combaciare con la sua stessa visione di sè?
Non si chiede che venga scritto ed elaborato pubblicamente questo confronto, anche se farebbe piacere che lo fosse, ma che almeno venga posto a confronto della risposta che ciascuno di noi si può dare alla domanda “chi (o cosa) io sono?”. Ognuno ha da rispondere a se stesso, a solo se stesso, non agli altri, non al mondo, la risposta è univocamente interiore e personale; e se poi uno decide anche di renderla pubblica e condividerla con altri fratelli e sorelle è una sua libera scelta, motivo per cui ci sono spazi e luoghi come questo forum che dovrebbero servire proprio a questo, a darne risposta pubblica così da condividerla e confrontarla con quella altrettanto liberamente data altrui, liberamente data liberamente ricevuta.
Se poi tutto ciò non è o non fosse allora mi sarò sbagliato e qualcuno mi correggerà dell’errore commesso, spiegandomi spero in cosa e dove abbia errato e sbagliato.
Ora senza entrare nel merito del significato ultimo della locuzione “samadhi ad occhi aperti”, grosso modo tutti hanno capito cosa volesse dire.
Ora dal mio punto di vista di libero pensatore in libero forum, e visto che la domanda l’avevo posta io, la risposta quale che fosse era ingiudicabile secondo me, ovvero non di possibile giudizio alcuno.
Dire ingiudicabile non vuol dire che ognuno non ne possa trarre la sua opinione in merito, sia in termini di veridicità o meno, così come che ognuno altrettanto per pari libertà non possa esporre tale sua opinione in merito (anche se non richiesta dall’interessato) in piena libertà.
Quindi con tutte le sfumature del caso uno potrebbe dire di crederci così come dire non ci credo per nulla, l’unica cosa che però non mi trova molto concorde sul crederci o meno è l’eventuale seguito a tale crederci oppure no, ovvero che se dal non crederci (per esempio) si passa poi a dire che chi l’ha detto (quindi sulla persona) che è un falso, un imbroglione, un impostore etc etc e tutti gli altri epiteti simili a seguire, lo trovo poco corretto.
Poco corretto non solo in termini di mera educazione e come si chiamava pure, ah netiquette, ma anche da un punto strettamnete logico e pure spirituale non lo trovo corretto. In sostanza la testimonianza altrui, secondo me, quale che essa sia, è ingiudicabile, di sicuro in riferimento alla persona che la espone, e poi non ultimo nemmeno in riferimento al contenuto detto, visto che è sempre e solo personale tale contenuto.
Io domani mattina posso anche svegliarmi e credermi napoleone reloaded, è in tutto e per tutto un cerchio che si chiude su me stesso. Non sto affermando nulla di nulla di alcuno altro che me stesso quindi certamente chi mi ascolta è nel pieno diritto di credermi oppure no, ma non è nel diritto di offendermi per tale mia convinzione, per matta e insensata possa sembrare agli occhi altrui, quantomeno fintanto che tale mia convinzione resta solo ed unicamente su di me soggetto che l’ha pronunciata e non voglia diventare imposizione in alcun modo su di alcun altro da me.
Come dire se io domani dico di essere napoleone e poi comincio a pretendere che tutto il mondo si inchini ai miei piedi etc etc beh ovviamente siamo già fuori dal cerchio iniziale del solo soggetto che affermava qualcosa su di sè.
Qualche giorno fa ho riletto questa frase di un caro amico (sia pure in tutt’altro contesto) che diceva:
«Sino a che riteniamo di non averne titolo e non parliamo, noi stiamo affermando di avere il libero arbitrio di tacere. E quindi taciamo pur senza entrare in silenzio, perché se fossimo in silenzio, testimonieremmo consapevoli dei nostri limiti.»
Il contesto di cui parlo era l’allora tema, più e più volte dibattuto del “ a che titolo”; a che titolo ciascuno di noi parla, descrive, si testimonia, chiunque, chiunque degli iscritti in un dato forum o mailing list come nel passato.
Il tema era ovviamente legato a quanto si stava dicendo prima, della possibilità o opportunità per ciascuno di testimoniarsi oppure no. Ovvero ciascuno di noi a che titolo può o gli è dato parlare? Davvero pensiamo che basti dire che siamo discepoli, seguaci, aspiranti, simpatizzanti e quant’altro di tizio, caio, sempronio e questo ci dà autorità di dire qualsiasi nostro convincimento e credenza (anche la più sincera e cristallina per noi) ci passi per la testa?
A suo tempo a tale domanda, anche quando fu posta da un dispepolo riconosciuto ad un maestro parimenti riconosciuto (dalla tradizione) la risposta fù; parla per la tua realizzazione, e solo quella.
Quindi la domanda che ciascuno di noi ad un certo punto credo si trovi a porsi quando si trova ad affermare qualcosa in relazione alla propria testimonianza di sè, abbia risposta univoca: ciascuno di noi parla e può parlare solo (per conto) della sua stessa e medesima realizzazione (quale che essa sia).
La frase di cui prima allora assume un significato ben preciso. Ovvero per coloro che non parlano, non dicono, non si testimoniano sostenendo di non averne titolo stanno di fatto sostenendo (con arroganza egoica aggiungo io) di avere il diritto (libero arbitrio) di non parlare e quindi tacere; ma questo tacere non ha nulla a che fare col silenzio presunto che si vuole sottointendere di abitare e vivere, perchè se veramente fossimo nel silenzio (del sè) testimonieremmo tranquillamente consapevoli dei limiti che ancora viviamo e siamo quali “io” ancora in essere su questo piano.
Poi magari non c’è più nessun io e nessuna individualità, ma c’è però un corpo, anzi più corpi (prarabdhakarma?) che vestono questo sè su questo e altri piani contigui, di cui il sè è consapevole e quindi non sono nè possono essere motivo di scelta, di libero arbitrio, inquanto sono esistenti sono già delle cause in essere, di cui non c’è nulla di cui tacere e ancor meno di individuare e individuarsi (in quelle cause) ma solo e semplicemente di descrivere proprio per il loro tramite.
Non so se capite il senso di tutto ciò; se “io” affermo che non ho titolo (così come se affermassi di averne titolo), starei sostanzialmente affermando un io che ha un libero arbitrio di scelta sulle sue stesse cause d’essere. L’io è le cause (karma) che l’hanno portato in esistenza, l’io è le cause (l’agente di causa, di azione) degli effetti a venire su questo piano in divenire, motivo per cui si arroga il diritto e l’arbitrio di poter scegliere inquanto causa-agente di azione, quale azione appunto scegliere e svolgere, quando invece non c’è nessun (libero) arbitrio una volta che si pongono quelle cause. Crediamo di poter decidere e scegliere gli effetti, scegliendo e decidendo la causa, ma una volta che la causa è tratta il gioco è già fatto.
In una condizione di silenzio ed equilibrio, non c’è nessuna scelta, le cause se ancora esistenti (leggasi corpo-corpi) sono già lì e così gli effetti che ne deriveranno. Se ne può solo esserne consapevoli e descriverli-testimoniarli oppure no e, nell’inconsapevolezza di sè, credere di poter “tacere” (o anche parlare) essendo agente di qualsivoglia azione o pensiero.
Ho appena letto una frase riportata da una sorella questa; "L'equilibrio è il coraggio di vivere il moto del dharma nell'immobilità interiore dell'azione distaccata".
Mi pare dica la stessa cosa; vivere il moto del dharma è anche, secondo me, testimoniarsi, testimoniare ciò che si è, dare e dando voce al sè, a ciò che siamo, a ciò che più autenticamente e trasparentemente siamo. L’immobilità interiore dell’azione distaccata, è l’azione senza azione così come descritta nella Gita, l’azione in cui non c’è nessun agente di azione, nessuno che si voglia appropriare dei frutti dell’azione, nessuna causa che poi invochi e reclami l’effetto.
Un’azione senza azione è una causa senza effetto ovvero nessuna causa, o una parvenza di causa.
Il dharma è azione equanime, è equilibrio, equilibrio tra che cosa? Tra una causa e l’effetto, quando causa ed effetto sono in equilibrio, trovano e vivono l’equilibrio, allora l’azione è equanime, è armonica, non ci sono frutti per nessuno, nessuno che li reclami, l’azione è per l’azione, la causa ha trovato il suo equilibrio nell’effetto a seguire. E quando è che una causa trova equilibrio nell’effetto a seguire, quando la causa non è più causa...azione senza azione, causa senza causa.
Tutti sti bei discorsi per dire in ultimo, cercando di chiudere la confezione, che l’inizio e la fine di ogni cosa, azione, pensiero, dharma, equilibri vari etc etc è e resta sempre il “ciò che siamo”. Tutto origina da lì e tutto a lì torna, al nudo e crudo “ciò che siamo”. E questo vale per qualunque “ciò che siamo” possiamo mai essere, è sempre ora e adesso, è sempre il nostro miglior presente, è sempre ciò che siamo, non ce ne sono altri da ciò che siamo, quindi perchè non esserlo, perchè non adempierlo nel dharma, perchè non testimoniarlo nel manifesto, perchè non esserlo qui e ora, adesso?
So benissimo che quanto appena scritto possa variare nella sua lettura ed interpretazione da “seghe sui massimi sistemi” a tutta una serie altra di epiteti e slogan dai peggio ai meglio, lo so, è nella natura umana giudicare, o meglio è nella natura mentale giudicare, ed esprimere un giudizio, ma perchè per una volta, solo una volta uno, non ci si interroga su chi e cosa sia quel lui\lei stesso e si ponga in semplice confronto quanto letto con la sua esperienza e ne veda se e quanto e come in che misura quanto descritto e detto possa combaciare con la sua stessa visione di sè?
Non si chiede che venga scritto ed elaborato pubblicamente questo confronto, anche se farebbe piacere che lo fosse, ma che almeno venga posto a confronto della risposta che ciascuno di noi si può dare alla domanda “chi (o cosa) io sono?”. Ognuno ha da rispondere a se stesso, a solo se stesso, non agli altri, non al mondo, la risposta è univocamente interiore e personale; e se poi uno decide anche di renderla pubblica e condividerla con altri fratelli e sorelle è una sua libera scelta, motivo per cui ci sono spazi e luoghi come questo forum che dovrebbero servire proprio a questo, a darne risposta pubblica così da condividerla e confrontarla con quella altrettanto liberamente data altrui, liberamente data liberamente ricevuta.
Se poi tutto ciò non è o non fosse allora mi sarò sbagliato e qualcuno mi correggerà dell’errore commesso, spiegandomi spero in cosa e dove abbia errato e sbagliato.