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Filosofia dello... stare

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KaaRa
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Filosofia dello... stare

Messaggio da KaaRa » 23/08/2018, 13:04

La filosofia dell'Essere attiene alla ricerca di sè stessi in sè stessi, mette in evidenza le illusioni della mente che si aggrappa al divenire e al mutevole.
 
Posso condividere la seconda parte di questa citazione: "mette in evidena le illusioni della mente". Ma secondo me è tutto quello che tale filosofia, la filosofia dell'Essere, può fare. Non può farci trovare noi stessi, così come non posso trovare lo spazio, quello intorno e dentro il mio corpo: ci sono già immerso. Questa filosofia può al massimo darti (ma è un regalo pericoloso, per quanto bellissimo, come tutte le acquisizioni particolarmente sottili) un'intuizione "superconscia" (per usare un'espressione di molti testi vedantici italiani) di ciò che noi siamo: ci può far sapere che, non essendo il relativo, noi siamo l'Assoluto, oppure che siamo il principio del divenire, o che siamo un tutt'uno con l'universo, o che siamo un frammento vuoto, ecc., dipende dal grado di tale realizzazione. Ma tale realizzazione è pur sempre una acquisizione, pur sempre divenire, è dipendente dal relativo, è relativa essa stessa. E' apparenza, quindi. Apparente-relativa tanto quanto un concetto o un sasso. Certo, non è una apparenza sorta da un nulla nichilistico: è un'apparenza dell'Assoluto stesso. Tanto quanto lo sono il concetto e il sasso suddetti. Per quanto sia gerarchicamente superiore a questi ultimi due, è anch'essa pur sempre "maya" (e, di conseguenza, lo sono tutti i Realizzati e i Maestri: Nisargadatta considerava come una specie di testimonianza dell'ignoranza le effigi di vari maestri che aveva in casa).
Dico tutto questo tanto per relativizzare sia la Realizzazione, che la filosofia dell'Essere, non solo perché sennò diventano per noi delle ulteriori assolutizzazioni (tanto quanto, per la maggior parte delle persone, lo sono le altre "cose del mondo"), ma anche perché, se vogliamo essere onesti fino in fondo, dobbiamo ammettere che se l'Assoluto lo siamo già, e quindi (come dicono esplicitamente i maestri) siamo già liberi, vuol dire che lo siamo già, punto. Qualunque cosa venga fatta per "realizzarlo", per rendersene conto, per rimembrarlo (per dirlo alla Platone), è un qualcosa di relativo, a meno che si voglia porre due assoluti (l'Assoluto e la Realizzazione) oppure si voglia identificare l'Assoluto con la Realizzazione, il che lo qualificherebbe in qualche modo, togliendogli così l'assolutezza.

Vorrei riportare un brano citato e commentato (dalla pagina 37 alla pagina 40) da "Al di là del Dubbio", dell'Asram Vidya:
"...non vi è mai alcun senso in una realtà in se stessa, un realtà che sia totalmente priva di rapporti con qualcosa, in altre parole, una realtà assoluta."
E' un brano di un Lama, e Raphael, chiamato a commentarlo da uno dei dialoganti, dice di non volersi contrapporre a queste affermazioni, le classifica comunque come eraclitee e materialistico-soggettive, e le considera superate dicendo che negare l'Assoluto significa affermarlo. Ha sicuramente ragione. Ma non credo sia giusto fermarsi a ciò (e il fatto che Raphael lo faccia evidenzia bene che lui è appunto Raphael, l'intelligenza di Tiphereth, che è "solo" uno dei gradi della Buddhi: ciò non significa che non si possa andare oltre): indipendentemente da ciò che il Lama voleva dire, ha detto bene una cosa che a Raphael sembra essere sfuggita: non c'è nessun senso in una realtà assoluta. Cioè: non c'è e non ci può essere una cognizione di essa! Più che negare l'Assoluto (anche se forse era quello che voleva superficialmente fare), il Lama ha solo negato una qualunque possibilità di poterLo conoscere. O, per meglio dire: Esso non può essere conosciuto più di quanto già Lo stiamo attualmente conoscendo (cioè: il relativo non ce lo sta oscurando, noi stiamo già conoscendo pienamente l'Assoluto – lo stiamo conoscendo tramite l'esserlo – e niente ce lo farà conoscere più di così, non importa se si è una pietra, un animale, un uomo comune o uno che ha stabilizzato una qualche realizzazione superconscia). Quindi non ci può essere un raggiungimento dell'assolutezza, e questo comporta che, a differenza di quello che dice Raphael in quelle pagine citate, non è pienamente vera (cioè non è da assolutizzare) la tesi di coloro che prospettano la liberazione dal conflitto e dal dolore: il conflitto (la dualità) lo si può utilizzare per sostenere una relativa (sottolineo relativa) realizzazione profonda della relatività di tutte le cose (relatività che ci fa comprendere, pur sempre relativamente, che l'unica realtà è l'Assoluto). Ma niente di più. Non può esserci, nel divenire, una "assoluta trascendenza del relativo e quindi del conflitto". Il relativo-conflitto è una possibilità dell'Assoluto, inalienabile, per quanto apparente. Possiamo solo trovare un adattamento ad esso, riconoscendolo come un qualcosa di apparente (magari proprio tramite la filosofia dell'Essere, ma senza assolutizzarne le indicazioni). Senza che ciò possa però portarci a conoscere l'Assoluto più di quanto già lo si conosca ora (e da sempre, e per sempre). Il divenire non è infatti l'opposto dell'Essere, ma dello "stare". L'Essere non ha opposto, ha solo inevitabili e sempre compresenti espressioni apparenti (appunto il divenire e lo stare). Spesso invece, temo, si confonde l'Essere con lo stare, e si considera il divenire come un qualcosa di opposto all'Essere (e quindi un qualcosa da dover/poter effettivamente superare interrompendolo in qualche modo).

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Fedro
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da Fedro » 23/08/2018, 17:13

KaaRa ha scritto:
23/08/2018, 13:04
La filosofia dell'Essere attiene alla ricerca di sè stessi in sè stessi, mette in evidenza le illusioni della mente che si aggrappa al divenire e al mutevole.
 
Posso condividere la seconda parte di questa citazione: "mette in evidena le illusioni della mente". Ma secondo me è tutto quello che tale filosofia, la filosofia dell'Essere, può fare.
Visto che sei d'accordo con questa affermazione, vedi differenza tra le tue disquisizioni e codeste illusioni della mente?
Se no, allora devi ancora osservarle;
se invece credi le tue affermazioni non siano illusioni della mente, allora ci sei!
In tal caso, se vedi che non sono illusioni (della mente) dovresti crederle vere, e sapere da dove provengono e poterlo qui comunicare.
Non può farci trovare noi stessi, così come non posso trovare lo spazio, quello intorno e dentro il mio corpo: ci sono già immerso. Questa filosofia può al massimo darti (ma è un regalo pericoloso, per quanto bellissimo, come tutte le acquisizioni particolarmente sottili) un'intuizione "superconscia" (per usare un'espressione di molti testi vedantici italiani) di ciò che noi siamo: ci può far sapere che, non essendo il relativo, noi siamo l'Assoluto, oppure che siamo il principio del divenire, o che siamo un tutt'uno con l'universo, o che siamo un frammento vuoto, ecc., dipende dal grado di tale realizzazione. Ma tale realizzazione è pur sempre una acquisizione, pur sempre divenire, è dipendente dal relativo, è relativa essa stessa. E' apparenza, quindi. Apparente-relativa tanto quanto un concetto o un sasso. Certo, non è una apparenza sorta da un nulla nichilistico: è un'apparenza dell'Assoluto stesso. Tanto quanto lo sono il concetto e il sasso suddetti. Per quanto sia gerarchicamente superiore a questi ultimi due, è anch'essa pur sempre "maya" (e, di conseguenza, lo sono tutti i Realizzati e i Maestri: Nisargadatta considerava come una specie di testimonianza dell'ignoranza le effigi di vari maestri che aveva in casa).
Dico tutto questo tanto per relativizzare sia la Realizzazione, che la filosofia dell'Essere, non solo perché sennò diventano per noi delle ulteriori assolutizzazioni (tanto quanto, per la maggior parte delle persone, lo sono le altre "cose del mondo"), ma anche perché, se vogliamo essere onesti fino in fondo, dobbiamo ammettere che se l'Assoluto lo siamo già, e quindi (come dicono esplicitamente i maestri) siamo già liberi, vuol dire che lo siamo già, punto. Qualunque cosa venga fatta per "realizzarlo", per rendersene conto, per rimembrarlo (per dirlo alla Platone), è un qualcosa di relativo, a meno che si voglia porre due assoluti (l'Assoluto e la Realizzazione) oppure si voglia identificare l'Assoluto con la Realizzazione, il che lo qualificherebbe in qualche modo, togliendogli così l'assolutezza.

Vorrei riportare un brano citato e commentato (dalla pagina 37 alla pagina 40) da "Al di là del Dubbio", dell'Asram Vidya:
"...non vi è mai alcun senso in una realtà in se stessa, un realtà che sia totalmente priva di rapporti con qualcosa, in altre parole, una realtà assoluta."
E' un brano di un Lama, e Raphael, chiamato a commentarlo da uno dei dialoganti, dice di non volersi contrapporre a queste affermazioni, le classifica comunque come eraclitee e materialistico-soggettive, e le considera superate dicendo che negare l'Assoluto significa affermarlo. Ha sicuramente ragione. Ma non credo sia giusto fermarsi a ciò (e il fatto che Raphael lo faccia evidenzia bene che lui è appunto Raphael, l'intelligenza di Tiphereth, che è "solo" uno dei gradi della Buddhi: ciò non significa che non si possa andare oltre): indipendentemente da ciò che il Lama voleva dire, ha detto bene una cosa che a Raphael sembra essere sfuggita: non c'è nessun senso in una realtà assoluta. Cioè: non c'è e non ci può essere una cognizione di essa! Più che negare l'Assoluto (anche se forse era quello che voleva superficialmente fare), il Lama ha solo negato una qualunque possibilità di poterLo conoscere. O, per meglio dire: Esso non può essere conosciuto più di quanto già Lo stiamo attualmente conoscendo (cioè: il relativo non ce lo sta oscurando, noi stiamo già conoscendo pienamente l'Assoluto – lo stiamo conoscendo tramite l'esserlo – e niente ce lo farà conoscere più di così, non importa se si è una pietra, un animale, un uomo comune o uno che ha stabilizzato una qualche realizzazione superconscia). Quindi non ci può essere un raggiungimento dell'assolutezza, e questo comporta che, a differenza di quello che dice Raphael in quelle pagine citate, non è pienamente vera (cioè non è da assolutizzare) la tesi di coloro che prospettano la liberazione dal conflitto e dal dolore: il conflitto (la dualità) lo si può utilizzare per sostenere una relativa (sottolineo relativa) realizzazione profonda della relatività di tutte le cose (relatività che ci fa comprendere, pur sempre relativamente, che l'unica realtà è l'Assoluto). Ma niente di più. Non può esserci, nel divenire, una "assoluta trascendenza del relativo e quindi del conflitto". Il relativo-conflitto è una possibilità dell'Assoluto, inalienabile, per quanto apparente. Possiamo solo trovare un adattamento ad esso, riconoscendolo come un qualcosa di apparente (magari proprio tramite la filosofia dell'Essere, ma senza assolutizzarne le indicazioni). Senza che ciò possa però portarci a conoscere l'Assoluto più di quanto già lo si conosca ora (e da sempre, e per sempre). Il divenire non è infatti l'opposto dell'Essere, ma dello "stare". L'Essere non ha opposto, ha solo inevitabili e sempre compresenti espressioni apparenti (appunto il divenire e lo stare). Spesso invece, temo, si confonde l'Essere con lo stare, e si considera il divenire come un qualcosa di opposto all'Essere (e quindi un qualcosa da dover/poter effettivamente superare interrompendolo in qualche modo).
e siccome, come tu stessi qui dici, l'Essere non ha opposti, nessun ragionamento su esso (quindi relativo) ha senso alcuno. O no?

KaaRa
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da KaaRa » 23/08/2018, 19:52

Direi proprio il contrario: qualunque ragionamento ha senso, ma è il senso stesso che non ha senso! Mettiamoci le parentesi per dare "senso" a questa frase paradossale: qualunque ragionamento ha (un qualche) senso (relativo), ma è il senso stesso (relativo) che non ha senso (assoluto). Ma visto che non si può FARE silenzio (il silenzio è la stoffa del relativo, non è una regione priva di relatività e posta oltre il relativo, né è qualcosa che può apparire allo scomparire del relativo), faccio in modo che i rumori che produco (non sono così bravo a fare suoni e ancor meno a fare melodie) parlino almeno del silenzio... (ergo, preferisco apparire inutilmente farneticante qui che apparire sensato sul forum calcio & f...).

cielo
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cielo » 24/08/2018, 17:29

KaaRa ha scritto:
23/08/2018, 19:52
Direi proprio il contrario: qualunque ragionamento ha senso, ma è il senso stesso che non ha senso! Mettiamoci le parentesi per dare "senso" a questa frase paradossale: qualunque ragionamento ha (un qualche) senso (relativo), ma è il senso stesso (relativo) che non ha senso (assoluto). Ma visto che non si può FARE silenzio (il silenzio è la stoffa del relativo, non è una regione priva di relatività e posta oltre il relativo, né è qualcosa che può apparire allo scomparire del relativo), faccio in modo che i rumori che produco (non sono così bravo a fare suoni e ancor meno a fare melodie) parlino almeno del silenzio... (ergo, preferisco apparire inutilmente farneticante qui che apparire sensato sul forum calcio & f...).
Dici bene: apparire sensato (o insensato).
Apparire e sparire: è l'impermanente, come lo sono anche i pensieri che il manas produce nella contemplazione dell'oggetto di conoscenza, che non è Reale, in quanto destinato al perenne mutare e scelto sulla base della direzione interiore e visione personale..

Mai dimenticare che ogni dualità è inerente solo agli upādhi, i veicoli, i corpi che si sovrappongono al puro ātman velandolo. L'Uno non può essere nè questo nè quello, nè il due nè il tre, nè la sinistra nè la destra.
Questi fattori si oppongono e si contradicono, esattamente come le molteplici "verità relative" sperimentate dall'aspirante nel corso del suo cammino di autoconoscenza, autosvelamento): l'Uno semplicemente è. Noi attraverso la mente diveniamo, mutiamo, sorgiamo sempre nuovi dall'apparenza dei nostri stessi pensieri.

Inutile congetturare, realizzando l'ātman, comprenderemo.
La prova "regina" è l'esperienza diretta, oltre alle prove abituali dei testi sacri, al ragionamento e riflessione personale e alle parole del Maestro.

La Verità non è Una per esclusione, ma per inclusione. Ogni verità relativa ha il suo grado di realtà, ma è effimera, come ogni essere che sperimenta l'incarnazione nel grossolano, nello spazio tempo, impulsato dalla legge di causalità, parte dell'Indivisibile.

latriplice
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da latriplice » 25/08/2018, 5:34

KaaRa ha scritto:

Questa filosofia può al massimo darti (ma è un regalo pericoloso, per quanto bellissimo, come tutte le acquisizioni particolarmente sottili) un'intuizione "superconscia" (per usare un'espressione di molti testi vedantici italiani) di ciò che noi siamo: ci può far sapere che, non essendo il relativo, noi siamo l'Assoluto, oppure che siamo il principio del divenire, o che siamo un tutt'uno con l'universo, o che siamo un frammento vuoto, ecc., dipende dal grado di tale realizzazione. Ma tale realizzazione è pur sempre una acquisizione, pur sempre divenire, è dipendente dal relativo, è relativa essa stessa.
"...un'intuizione "superconscia" di ciò che noi siamo..."

E questa intuizione "superconscia" di ciò che noi siamo averebbe da parte di chi? Da parte di una falsa identificazione che sta a posteriori di ciò che veramente siamo? A rigor di logica il fenomeno non può rendere testimonianza del noumeno, ciò comporterebbe una inversione del rapporto soggetto-oggetto. Pertanto non è possibile conoscere se stessi come oggetto o esperienza discreta, ma soltanto nell'essere se stessi. E essere se stessi quale sforzo comporta? Assolutamente nessuno, pertanto neanche in questo caso si parla di realizzazione. Ciò che invece è importante conoscere è quella falsa identificazione e il modo in cui opera. Una volta riconosciuta come non me, ciò che sono si palesa spontaneamente.

Possiamo riferirci a ciò che è effettivamente presente nella nostra esperienza: Coscienza e le sue attività che ne sono espressione. C'è lo spazio della Consapevolezza all'interno della quale si manifestano espressioni quali il vedere, il sentire, il toccare,il gustare, l'annusare, il pensare, l'immaginare, le emozioni e le sensazioni. Tutte attività impersonali che avvengono spontaneamente di cui tutti ne siamo partecipi.

C'è un'altra attività che sorge spontaneamente, un processo mentale che consiste nell'appropriarsi delle attività che stanno già avvenendo naturalmente e ne rivendica la paternità che si esprime come io vedo, io tocco, io gusto, io annuso, io penso, io immagino, io mi emoziono, io sento, e io sono consapevole.

Quest'ultima è una totale perversione, perché la consapevolezza, che è il principio ed il sostrato dell'intera manifestazione, diventa un'attributo di quell'io artificiale che si sente ora il legittimo sostituto. Da qui il malinteso dell'intuizione "superconscia", come se la consapevolezza potesse essere aumentata o diminuita da parte di un ipotetico io.

Un'altro fenomeno a cui si assiste, oltre a quello appena descritto che consiste nell'apporre l'etichetta "mio", e quello di porsi per implicazione nel punto sorgente delle attività che stanno manifestandosi naturalmente.

Per esempio, sorge un pensiero, viene rivendicato dal processo mentale di appropriazione, e ora per implicazione abbiamo un pensatore che si pone a priori di tale pensiero, mentre ne era conseguente.

Questo processo mentale da un verbo è riuscito a ricavare un sostantivo, che di fatto è inesistente, ma funge da centro autoreferenziale che fornisce la forza gravitazionale ai pensieri per poter gravitare e permanere, se prima la loro tendenza naturale era quella di apparire e scomparire.

Non pago di aver creato questo centro gravitazionale chiamato me a cui riferire l'esperienza, questo processo mentale di appropriazione deve conferire una certa solidità a tale centro per renderlo credibile. Come fa? Non è forse vero che la sensazione principale di essere un ego è quella di sentirsi un agente personale dell'azione artefice del proprio destino? Ma chi, o più precisamente cosa sta agendo? Il corpo. E quali sono i pensieri ricorrenti che ingolfano la tua mente tutto il giorno? Quelli pertinenti il passato ed il futuro, di quello che ti è successo o che ti succederà, in associazione al corpo immaginato nel tempo presente. Vieni proiettato come corpo a ricordo di eventi passati o proiettato come corpo a previsioni di eventi futuri. Il processo mentale di appropriazione si serve di questo meccanismo, dei due poli temporali proiettati nel tempo presente, per rafforzare e alimentare il senso di me identificato al corpo, ora.

Adesso arriva la parte comica di tutta la faccenda: il senso di me come entità duratura, separata ed indipendente in quanto prodotta da una attività mentale di appropriazione, che cerca sollievo dall'essere il buco nero dell'intero universo, stanco di essere un povero me al centro dell'attenzione per tutto il santo giorno. Vagonate di pensieri, emozioni, sensazioni, su di me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me.

Fategli scrivere alla lavagna termini generici come lavoro, denaro, vita famigliare, sesso. Chiedetegli di discuterne e se ha qualche opinione a proposito.

Ora fategli mettere il pronome possessivo "mio" davanti a tali termini e osservate la reazione: il mio lavoro, il mio denaro, la mia vita famigliare, il mio sesso. Non cambia completamente la significanza e l'importanza? E si, perché ora si va sul personale, ed è estremamente difficile liberarsi di un fardello simile.

Ora al malcapitato gli viene detto per destarlo dall'ipnosi dell'appropriazione, che ripeto è una attività mentale, "TU SEI QUELLO". Ma è inutile, perché ad ascoltare il messaggio non è QUELLO, ma l'identificazione come QUESTO. E il messaggio una volta giunta a destinazione verrà interpretata da QUESTO come DIVENTARE QUELLO, non nell'essere QUELLO. Come potrebbe, povero ragazzo, liberarsi dall'ego per dissolversi nella Coscienza Brahmanica, ma come ego? Non funziona e non ha mai funzionato. Come può un fenomeno risolversi nel noumeno restando fenomeno? Qualsiasi soluzione, che implica attività, per uscire dalla schiavitù dell'ego andrebbe solo a rafforzare il senso di me come entità duratura, separata ed indipendente.

Quale soluzione ci può essere per un problema immaginario? La risposta ovvia è nessuna soluzione.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.

Realizzare che non sei mai stato "qualcuno" e che quelle terribili cose non ti sono mai successe mette fine a quell'incubo del "senso di me", di ciò che non sei mai stato, e quello che resta è ciò che sei naturalmente, senza il bisogno di conoscerti.

cielo
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cielo » 25/08/2018, 10:04

latriplice ha scritto:
25/08/2018, 5:34
KaaRa ha scritto:

Questa filosofia può al massimo darti (ma è un regalo pericoloso, per quanto bellissimo, come tutte le acquisizioni particolarmente sottili) un'intuizione "superconscia" (per usare un'espressione di molti testi vedantici italiani) di ciò che noi siamo: ci può far sapere che, non essendo il relativo, noi siamo l'Assoluto, oppure che siamo il principio del divenire, o che siamo un tutt'uno con l'universo, o che siamo un frammento vuoto, ecc., dipende dal grado di tale realizzazione. Ma tale realizzazione è pur sempre una acquisizione, pur sempre divenire, è dipendente dal relativo, è relativa essa stessa.
"...un'intuizione "superconscia" di ciò che noi siamo..."

E questa intuizione "superconscia" di ciò che noi siamo averebbe da parte di chi? Da parte di una falsa identificazione che sta a posteriori di ciò che veramente siamo? A rigor di logica il fenomeno non può rendere testimonianza del noumeno, ciò comporterebbe una inversione del rapporto soggetto-oggetto. Pertanto non è possibile conoscere se stessi come oggetto o esperienza discreta, ma soltanto nell'essere se stessi. E essere se stessi quale sforzo comporta? Assolutamente nessuno, pertanto neanche in questo caso si parla di realizzazione. Ciò che invece è importante conoscere è quella falsa identificazione e il modo in cui opera. Una volta riconosciuta come non me, ciò che sono si palesa spontaneamente.

Possiamo riferirci a ciò che è effettivamente presente nella nostra esperienza: Coscienza e le sue attività che ne sono espressione. C'è lo spazio della Consapevolezza all'interno della quale si manifestano espressioni quali il vedere, il sentire, il toccare,il gustare, l'annusare, il pensare, l'immaginare, le emozioni e le sensazioni. Tutte attività impersonali che avvengono spontaneamente di cui tutti ne siamo partecipi.

C'è un'altra attività che sorge spontaneamente, un processo mentale che consiste nell'appropriarsi delle attività che stanno già avvenendo naturalmente e ne rivendica la paternità che si esprime come io vedo, io tocco, io gusto, io annuso, io penso, io immagino, io mi emoziono, io sento, e io sono consapevole.

Quest'ultima è una totale perversione, perché la consapevolezza, che è il principio ed il sostrato dell'intera manifestazione, diventa un'attributo di quell'io artificiale che si sente ora il legittimo sostituto. Da qui il malinteso dell'intuizione "superconscia", come se la consapevolezza potesse essere aumentata o diminuita da parte di un ipotetico io.

Un'altro fenomeno a cui si assiste, oltre a quello appena descritto che consiste nell'apporre l'etichetta "mio", e quello di porsi per implicazione nel punto sorgente delle attività che stanno manifestandosi naturalmente.

Per esempio, sorge un pensiero, viene rivendicato dal processo mentale di appropriazione, e ora per implicazione abbiamo un pensatore che si pone a priori di tale pensiero, mentre ne era conseguente.

Questo processo mentale da un verbo è riuscito a ricavare un sostantivo, che di fatto è inesistente, ma funge da centro autoreferenziale che fornisce la forza gravitazionale ai pensieri per poter gravitare e permanere, se prima la loro tendenza naturale era quella di apparire e scomparire.

Non pago di aver creato questo centro gravitazionale chiamato me a cui riferire l'esperienza, questo processo mentale di appropriazione deve conferire una certa solidità a tale centro per renderlo credibile. Come fa? Non è forse vero che la sensazione principale di essere un ego è quella di sentirsi un agente personale dell'azione artefice del proprio destino? Ma chi, o più precisamente cosa sta agendo? Il corpo. E quali sono i pensieri ricorrenti che ingolfano la tua mente tutto il giorno? Quelli pertinenti il passato ed il futuro, di quello che ti è successo o che ti succederà, in associazione al corpo immaginato nel tempo presente. Vieni proiettato come corpo a ricordo di eventi passati o proiettato come corpo a previsioni di eventi futuri. Il processo mentale di appropriazione si serve di questo meccanismo, dei due poli temporali proiettati nel tempo presente, per rafforzare e alimentare il senso di me identificato al corpo, ora.

Adesso arriva la parte comica di tutta la faccenda: il senso di me come entità duratura, separata ed indipendente in quanto prodotta da una attività mentale di appropriazione, che cerca sollievo dall'essere il buco nero dell'intero universo, stanco di essere un povero me al centro dell'attenzione per tutto il santo giorno. Vagonate di pensieri, emozioni, sensazioni, su di me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me, me.

Fategli scrivere alla lavagna termini generici come lavoro, denaro, vita famigliare, sesso. Chiedetegli di discuterne e se ha qualche opinione a proposito.

Ora fategli mettere il pronome possessivo "mio" davanti a tali termini e osservate la reazione: il mio lavoro, il mio denaro, la mia vita famigliare, il mio sesso. Non cambia completamente la significanza e l'importanza? E si, perché ora si va sul personale, ed è estremamente difficile liberarsi di un fardello simile.

Ora al malcapitato gli viene detto per destarlo dall'ipnosi dell'appropriazione, che ripeto è una attività mentale, "TU SEI QUELLO". Ma è inutile, perché ad ascoltare il messaggio non è QUELLO, ma l'identificazione come QUESTO. E il messaggio una volta giunta a destinazione verrà interpretata da QUESTO come DIVENTARE QUELLO, non nell'essere QUELLO. Come potrebbe, povero ragazzo, liberarsi dall'ego per dissolversi nella Coscienza Brahmanica, ma come ego? Non funziona e non ha mai funzionato. Come può un fenomeno risolversi nel noumeno restando fenomeno? Qualsiasi soluzione, che implica attività, per uscire dalla schiavitù dell'ego andrebbe solo a rafforzare il senso di me come entità duratura, separata ed indipendente.

Quale soluzione ci può essere per un problema immaginario? La risposta ovvia è nessuna soluzione.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.

Realizzare che non sei mai stato "qualcuno" e che quelle terribili cose non ti sono mai successe mette fine a quell'incubo del "senso di me", di ciò che non sei mai stato, e quello che resta è ciò che sei naturalmente, senza il bisogno di conoscerti.
Ho trovato interessante e istruttivo il post della triplice, solo che la soluzione che propone "la fa facile", come se fosse la scoperta dell'acqua calda riaffermare che occorre liberarsi del senso dell'io e del mio. Il frutto della spassionatezza è la conoscenza e chi ha davvero perso il senso dell'"io" e del "mio" è un jivanmukti, dice il Vicekacudamani (431 e seguenti).
Le scritture tradizionali lo dicono in tutte le salse. Ma ci vuole sempre una mano che chiuda il rubinetto, ancora un soggetto che crede di poterlo fare, di poter mettere fine a quell'incubo del "senso di me".
Dirsi che tutto ciò che sperimentiamo, l'oscillazione tra benessere e malessere, è frutto della falsa identificazione, aiuta, ma non risolve.
Concordo sul fatto che la soluzione sia la consapevolezza nell'osservare le modalità di proiezione e di sovrapposizione tramite cui opera la nostra mente, protesa come un polipo a conoscere e sperimentare il mondo grossolano e a divenire qualcosa che non è, che non esiste: un super io sempre più abile nell'esplorazione.
Nulla di ciò che si pensa o si fa risolve il processo. Certamente, come dice anche latriplice, serve togliere energia al centro autoreferenziale che si autorigenera, si appropria e proietta, e restare nella pura osservazione, come in meditazione in una caverna buia, con una candela da osservare mentre si consuma.

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cannaminor
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cannaminor » 25/08/2018, 11:02

KaaRa potrei chiederti di esplicitare meglio cosa è che non ti torna della così detta Filosofia dell'Essere, sempre secondo tua interpretazione delle parole di Raphael, così come da lui proposta e descritta nei suoi libri e articoli?

Ma anche a prescindere da cosa Raphael abbia detto e scritto, quale in tuo pensiero o dubbio o aporia in merito? Cosa è che non ti torna, che non ti è chiaro, che non ti quadra?

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Fedro
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da Fedro » 25/08/2018, 11:50

cielo ha scritto:
25/08/2018, 10:04
Ma ci vuole sempre una mano che chiuda il rubinetto, ancora un soggetto che crede di poterlo fare, di poter mettere fine a quell'incubo del "senso di me".
Dici bene, un soggetto che crede di poter chiudere un rubinetto, ma anche questo illusorio soggetto poi decade.
Allora non resta che ascoltare l'acqua che scorre dal rubinetto fin che ne ha, senza aggiungerne altra, perché se ne ha abbastanza di questo continuo serbatoio da erogare

cielo
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cielo » 25/08/2018, 12:27

Fedro ha scritto:
25/08/2018, 11:50
cielo ha scritto:
25/08/2018, 10:04
Ma ci vuole sempre una mano che chiuda il rubinetto, ancora un soggetto che crede di poterlo fare, di poter mettere fine a quell'incubo del "senso di me".
Dici bene, un soggetto che crede di poter chiudere un rubinetto, ma anche questo illusorio soggetto poi decade.
Allora non resta che ascoltare l'acqua che scorre dal rubinetto fin che ne ha, senza aggiungerne altra, perché se ne ha abbastanza di questo continuo serbatoio da erogare
Sì, una sorta di spassionatezza che accetta il flusso della vita finchè c'è, ma dirigendosi con "ardore" alla meta, evitando posizioni eccessivamente passive o che danno per scontato ciò che non è (Quello).

latriplice
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da latriplice » 25/08/2018, 13:23

cielo ha scritto:

Ma ci vuole sempre una mano che chiuda il rubinetto, ancora un soggetto che crede di poterlo fare, di poter mettere fine a quell'incubo del "senso di me".
Non necessariamente, il processo mentale di appropriazione, quella di riferire a qualcuno l'esperienza, saltuariamente subisce un arresto senza alcun motivo apparente, e ciò che si palesa è il tuo stato naturale: pura presenza cosciente in assenza del senso di me.

Non prende assolutamente alcun tempo, nessuna pratica, nessun dibattito. E' il senso della tua assenza.

Diciamo che tu abbia una illuminazione. I cieli si aprono.

Hai fatto una prenotazione per essa? L'hai chiamata in anticipo? Messo su la musica giusta per
l'evento? No, semplicemente irruppe, interrompendo la storia lineare della vita come un sostantivo, il tuo
senso di essere una figura d'azione con la sua storia. Il processo mentale è stato stordito e costretto ad arrestarsi.

Ci sono enormi lacune nell'attività mentale che produce questo "senso di me". Qualsiasi cosa può
farla sobbalzare fino a fermarla. C'è quella pausa, un eterno momento fuori dal tempo. Il tutto si
ferma, ed eccola lì che si rivela. Ed ottieni un campione gratuito di infinito. Alleluia!

Venne l'illuminazione. Scommetto che quando giunse a termine coincise con questo pensiero: "Ho
appena avuto una illuminazione!" Vero?

L'illuminazione è un evento. Poi c'è la reazione della mente ad essa. Che la rivendica come sua.
La mente dice, "Io, questa entità separata indipendente e duratura, ha appena avuto questa
esperienza spirituale." Vero? Così facendo contamina l'intero evento rivendicandola come propria.

L'illuminazione non è stata un'esperienza che hai avuto, era l'assenza del "senso di me"!

In quel momento c'era solo consapevolezza. Pura e semplice presenza cosciente impersonale. Oltre non puoi andare. Che viene interrotto da questa tendenza di appropriarsi dell'evento rivendicando la paternità di colui che ha avuto l'esperienza mentre era assente.

Non ti sembra una presa per il culo? Eppure storie del genere se ne sentono a vagonate.

Comunque, non c'è il bisogno di chiudere il rubinetto. Semplicemente, prendi atto della presenza di questo meccanismo mentale di riferire ad un ipotetico me l'esperienza, ora che lo conosci. E ovviamente non sarai interessato a quello che ha da dirti con il suo incessante dialogo interiore perché sai al di là di ogni dubbio che non si riferisce a te. E una volta perso l'interesse nella storia che ha da raccontarti, allenta la sua presa fino a scomparire. Anche se di tanto in tanto riemerge.

Chiudere il rubinetto non è la soluzione. Tentare di farlo non fa altro che rafforzare il "senso di me" da cui si intende liberarsi.

Renditi conto che non c'è una soluzione ad un problema immaginario.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.

cielo
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cielo » 25/08/2018, 14:13

latriplice ha scritto:
25/08/2018, 13:23
cielo ha scritto:

Ma ci vuole sempre una mano che chiuda il rubinetto, ancora un soggetto che crede di poterlo fare, di poter mettere fine a quell'incubo del "senso di me".
Non necessariamente, il processo mentale di appropriazione, quella di riferire a qualcuno l'esperienza, saltuariamente subisce un arresto senza alcun motivo apparente, e ciò che si palesa è il tuo stato naturale: pura presenza cosciente in assenza del senso di me.

Non prende assolutamente alcun tempo, nessuna pratica, nessun dibattito. E' il senso della tua assenza.

Diciamo che tu abbia una illuminazione. I cieli si aprono.

Hai fatto una prenotazione per essa? L'hai chiamata in anticipo? Messo su la musica giusta per
l'evento? No, semplicemente irruppe, interrompendo la storia lineare della vita come un sostantivo, il tuo
senso di essere una figura d'azione con la sua storia. Il processo mentale è stato stordito e costretto ad arrestarsi.

Ci sono enormi lacune nell'attività mentale che produce questo "senso di me". Qualsiasi cosa può
farla sobbalzare fino a fermarla. C'è quella pausa, un eterno momento fuori dal tempo. Il tutto si
ferma, ed eccola lì che si rivela. Ed ottieni un campione gratuito di infinito. Alleluia!

Venne l'illuminazione. Scommetto che quando giunse a termine coincise con questo pensiero: "Ho
appena avuto una illuminazione!" Vero?

L'illuminazione è un evento. Poi c'è la reazione della mente ad essa. Che la rivendica come sua.
La mente dice, "Io, questa entità separata indipendente e duratura, ha appena avuto questa
esperienza spirituale." Vero? Così facendo contamina l'intero evento rivendicandola come propria.

L'illuminazione non è stata un'esperienza che hai avuto, era l'assenza del "senso di me"!

In quel momento c'era solo consapevolezza. Pura e semplice presenza cosciente impersonale. Oltre non puoi andare. Che viene interrotto da questa tendenza di appropriarsi dell'evento rivendicando la paternità di colui che ha avuto l'esperienza mentre era assente.

Non ti sembra una presa per il culo? Eppure storie del genere se ne sentono a vagonate.

Comunque, non c'è il bisogno di chiudere il rubinetto. Semplicemente, prendi atto della presenza di questo meccanismo mentale di riferire ad un ipotetico me l'esperienza, ora che lo conosci. E ovviamente non sarai interessato a quello che ha da dirti con il suo incessante dialogo interiore perché sai al di là di ogni dubbio che non si riferisce a te. E una volta perso l'interesse nella storia che ha da raccontarti, allenta la sua presa fino a scomparire. Anche se di tanto in tanto riemerge.

Chiudere il rubinetto non è la soluzione. Tentare di farlo non fa altro che rafforzare il "senso di me" da cui si intende liberarsi.

Renditi conto che non c'è una soluzione ad un problema immaginario.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.
Hai sbagliato interlocutore, non Kaara, ma cielo.
Si è provveduto a correggere.
Riflettevo che l'illuminazione non si "ha", non va e non viene, non emerge e non scompare. Non ha enfasi, nè si annuncia, però si sente intorno, come il profumo della rosa.

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cannaminor
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cannaminor » 25/08/2018, 14:23

latriplice ha scritto:
25/08/2018, 13:23

Chiudere il rubinetto non è la soluzione. Tentare di farlo non fa altro che rafforzare il "senso di me" da cui si intende liberarsi.

Renditi conto che non c'è una soluzione ad un problema immaginario.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.
Immaginario è vero, è immaginario, ma perchè problema?

Nel senso è un problema o diventa tale nel momento che lo vivi per tale, un problema, altrimenti in sè, il "senso di me" non è un problema per alcuno men che meno per il presunto "me", immaginario appunto. Non c'è nessun "me", in senso stretto e reale, c'è in senso di apparenza, di fenomeno, di divenire e relazionale (duale), ma appunto è solo apparenza, fenomeno, immaginario, non c'è nessun me e nessun problema me, a meno che lo si voglia vivere e dargli vita per tale, come di solito accade al mondo e chi in esso.

Quanto dici latriplice sul senso del me (o dell'io) è ineccepibile, tutto corretto, non fa una piega, e di fondo è vero anche quanto dici non esiste una soluzione ad un problema immaginario, se non una soluzione immaginaria anch'essa, che vive e si muove sullo stesso piano del fenomenico-immaginativo, su quel piano, apparente, immaginario, duale, in divenire etc etc, i problemi e le soluzioni ovviamente giacciono sullo stesso piano, e che io sappia non hanno mai risolto nulla di nulla in via definitiva, perchè ogni causa è motivo di un effetto che è causa lui stesso di un altro effetto etc etc.

Quindi non è certo su quel piano che si possono mai trovare soluzioni, ovviamente (ma evidentemente non basta l'ovvietà logica) se soluzione, o almeno comprensione, realizzazione o come la si voglia chiamare si va cercando, non è certo sullo stesso piano della domanda che va cercata. In fatti non si trova nulla, ma si realizza dicono, là dove il realizzare non è analogo e omologo a trovare una soluzione, a risolvere, perfino a comprendere direi, perchè tutte queste si svolgono e rimandano ad un risultato che rimane sempre sullo stesso piano della ricerca azione intrapresa.

Ultimamente pensavo al classico discorso della verità, e di quanti nei secoli l'abbiano cercata la verità, quella con la V maiuscola. Il classico metodo di ricerca della verità (ma non solo) è esclusivo, per esclusione, per certi versi molto simile al neti neti vedanta; non questo, non questo, non questo è vero, non quello è vero, e forse dopo un paio di miliardi di non verità trovate e scartate, si crede che si possa giungere alla due-miliardesima-e uno verità, quella vera, quella con V maiuscola. Ma non è così, non può essere così, non può essere che la Verità che tanto cerchiamo sia sullo stesso piano delle due-miliardi di verità precedentemente scartate. Che verità sarebbe mai se fosse e si ponesse sullo stesso piano delle precedenti due-miliardi di verità trovate e scartate perchè false?

Esiste un concetto in filosofia che si chiama sintesi, e questo concetto viene spesso simbolizzato col triangolo, là dove i due vertici di base sono (per esempio) il piano delle verità trovate e scarate o meno, e quello di vertice, sopra a queste simbolicamente due ma che rappresentano il molteplice, è la verità di sintesi di tutte quelle appunto che stanno sulla base, molteplici verità.

La sintesi, il vertice in apice alla base del triangolo, non è in opposizione alle molteplici verità, non le nega nè le somma o sincretizza, semplicemente è qualcosa di altro e diverso dalla base molteplice e contradittoria che rappresenta appunto il moteplice, il duale (due vertici), è appunto sintesi.

La contrapposizione di vero e falso, vere verità e false verità, la si trova solo sul piano duale, la sintesi non è in alternativa duale di verità o falsità con nessuna verità duale e molteplice. In un certo senso le comprende tutte e le nega tutte parimenti. Nessuna verità duale è del tutto falsa, come non è del tutto vera e questo proprio e solo a motivo della sua natura duale. Ogni individuo su questo mondo non mai del tutto vero o del tutto falso, siamo inquanto individui e inquanto molteplici e parti del molteplice, specchi, schegge, scintille di verità (o anche di realtà) della una Verità ed Una Realtà.

E' proprio a motivo della nostra frammentazione e crederci tali, frammenti e molteplici, che non siamo interi, intere verità e intere realtà, quali di base e di fondo siamo tutti invece. E' proprio una temerarietà come diceva plotino, quella del frammento a viversi per tale e crearsi tutto il "problema" da solo e con le sue stesse mani. E' vero latriplice, un problema immaginario non ha soluzione, se non nell'immaginario stesso di chi lo ha creato, forse. Ma è l'immaginario da mettere semmai sotto osservazione non l'essere un problema.

KaaRa
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da KaaRa » 25/08/2018, 14:47

Faccio un discorso generale (per Cannaminor invece rispondo a parte dopo la citazione): se mi permettessi di dare un giudizio (e dando per scontato di aver ben compreso ciò che avete detto), direi che state centrando il punto: il problema è il senso dell'io, e anche voler risolverlo direttamente è un problema perché niente di ciò che viene fatto da esso può risolverlo (anche perché viene fatto proprio a partire da esso e per esso). La soluzione suggerita fondamentalmente da ogni ramo della filosofia dell'Essere l'abbiamo ripetuta più volte: impegnarsi in una qualsiasi attività (fisica, emotiva, intellettiva, meditativa, ecc.), soprattutto se è quella a cui si è più affini, cercando di non concentrarsi su nessun fine particolare, ma concentrandosi sull'attenzione con cui tale attività viene compiuta. Questo produce una specie di consumo della spinta che ci fa agire, spinta che è anche la causa del senso dell'io. Rimane così appunto solo l'osservazione pura, in realtà sempre presente. Il problema è che, anche se solo tale osservazione è veramente costante, questo non significa che il processo che "consuma" gli elementi relativi dovrà cessare: anzi, dovrà essere periodicamente riproposto, poco importa quanto il "gocciolio" degli elementi relativi (e dei suddetti rimedi per ridurlo) ci sia venuto a noia (per quanto ciò sia comprensibile in certe fasi della vita). Anche se comunque un giorno sarà talmente sottile (come in certe "realizzazioni superiori") da divenire praticamente automatico e quasi inavvertibile.

Per Cannaminor:
KaaRa potrei chiederti di esplicitare meglio cosa è che non ti torna della così detta Filosofia dell'Essere, sempre secondo tua interpretazione delle parole di Raphael, così come da lui proposta e descritta nei suoi libri e articoli?

Ma anche a prescindere da cosa Raphael abbia detto e scritto, quale in tuo pensiero o dubbio o aporia in merito? Cosa è che non ti torna, che non ti è chiaro, che non ti quadra?

Non "rimprovero" niente alla filosofia dell'Essere, ma sottolineo che essa è relativa, come tutto ciò che essa cerca di relativizzare (cioè il divenire). E quindi i suoi risultati saranno altrettanto relativi. In pratica, la sua funzione dovrà essere perpetua nel divenire (in qualunque modo esso si presenterà, e in qualunque modo la filosofia dell'Essere si adatterà ad esso), non ci sarà mai una cessazione assoluta del relativo, un risultato finale. Mi sembra invece che spesso si ponga l'assoluto come meta finale dell'applicazione della filosofia dell'Essere (prospettando così una cessazione dell'utilizzo di tale filosofia: si tratta del famoso "lasciare la zattera dopo che si è attraversato il fiume", ma secondo la mia comprensione questo va inteso come una relativizzazione della "zattera", non come una cessazione effettiva e totale del suo utilizzo); l'assoluto non è una meta (non troveremo mai una "spiaggia" chiamata assoluto), Esso è semplicemente la stoffa di tutto questo processo (è l'acqua di ogni fiume samsarico che troveremo; una volta capito questo, sta a noi spostarci nelle zone con meno rapide e gorghi, senza sperare inutilmente di allontanarsi dal fiume).
Questa è la comprensione della filosofia dell'Essere a cui sono pervenuto per ora.

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cannaminor
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cannaminor » 25/08/2018, 18:40

KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
Non "rimprovero" niente alla filosofia dell'Essere, ma sottolineo che essa è relativa, come tutto ciò che essa cerca di relativizzare (cioè il divenire
Il divenire è già relativo di suo, non mi sembra serva un particolare sforzo o filosofia per relativizzarlo.
Il divenire, il duale, il relativo, etc sono nomi diversi per descrivere lo stesso piano, anzi volendo restare in ambito vedanta, i vari piani, grossolano e sottile, perchè anche il sottile in fondo è duale, è relativo, è movimento conformato (con-forme al suo piano sottile).

Certo che la "Filosofia dell'Essere" è relativa, come lo sono tutte le dottrine e istruzioni varie (sapienziale o meno) che hanno e trovano luogo su questo piano relativo e duale. Come mai potrebbe l'essere descriversi (testimoniarsi?) e relarsi (all'altro da lui) se non in un contesto duale.
Troverei quantomeno curioso che L'essere avesse bisogno di una qualche filosofia dell'essere o altra che sia per sapere ed essere ciò che è.

KaaRa, siamo nel duale e sul duale e relativo di conseguenza (inquanto di relazione tra due o più parti) si vive e si campa di relazione e dualità-opposizioni, talvolta contrasti e conflitti, ma pur sempre alterità.
KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
E quindi i suoi risultati saranno altrettanto relativi. In pratica, la sua funzione dovrà essere perpetua nel divenire (in qualunque modo esso si presenterà, e in qualunque modo la filosofia dell'Essere si adatterà ad esso), non ci sarà mai una cessazione assoluta del relativo, un risultato finale.
Ovvio che qualsiasi filosofia intesa come di relazione e relativa al piano in cui e su cui opera non potrà mai di suo e per suo tramite uscire da alcunchè il piano in cui è. Una filosofia duale resta nel duale in tutti i suoi risultati.
KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
Mi sembra invece che spesso si ponga l'assoluto come meta finale dell'applicazione della filosofia dell'Essere (prospettando così una cessazione dell'utilizzo di tale filosofia: si tratta del famoso "lasciare la zattera dopo che si è attraversato il fiume", ma secondo la mia comprensione questo va inteso come una relativizzazione della "zattera", non come una cessazione effettiva e totale del suo utilizzo); l'assoluto non è una meta (non troveremo mai una "spiaggia" chiamata assoluto)
Esatto, corretto (secondo il mio punto di vista duale); non troveremo mai una spiaggia chiamata assoluto. Infatti essendo l'assoluto ab-solutus, senza relazioni, esente da relazioni, non ci può essere alcuna "spiaggia" appartenente di fatto al mondo del divenire-duale-relativo che possa sussistere quale meta su tale piano di relazioni.
KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
Esso è semplicemente la stoffa di tutto questo processo (è l'acqua di ogni fiume samsarico che troveremo; una volta capito questo, sta a noi spostarci nelle zone con meno rapide e gorghi, senza sperare inutilmente di allontanarsi dal fiume).
Questa è la comprensione della filosofia dell'Essere a cui sono pervenuto per ora.
Fiume samsarico? bella analogia che ricorda molto da vicino il fiume di eraclito, quello del panta rei. L'assoluto è l'acqua, ma il fiume ne esprime il movimento, il divenire, il pantarei. Il divenire è movimento, è relazione di parti, del resto il movimento stesso per essere descritto necessita di almeno due "parti" in relazione di movimento reciproco tra di loro. Il treno si muove rispetto alla stazione, l'aereo rispetto alla superficie terrestre, un'astronave interstellare si muove rispetto alle stelle "fisse" anche se di fatto non esiste nulla di fisso nell'universo conosciuto, ma tutto si muove rispetto a qualcos'altro assunto arbitrariamente come riferimento fisso. Anche il fiume del samsara si muove rispetto alla sponda, al mondo, alla vita, al tempo; il tempo stesso è secondo una certa dizione successione di eventi, di forme eventi, è il movimento stesso. Platone nella sua celebre "il tempo è l'immagine mobile dell'eternità" ne dava una bella immagine appunto. Il fiume (tempo) è l'immagine mobile dell'acqua-eternità.

Tutto questo per dire che il fiume samsarico della tua analogia è solo da cogliere e comprendere nella sua natura di tempo e divenire, per quello che è, un'immagine mobile dell'aqua. Se poi nella vita ci si ritrova a cercare condizioni fluviali di minor rapide e gorghi (per vivere un pò meglio e santa pace) non ci vedo nulla di male, anzi, mi pare abbastanza logico e umano tutto ciò. Sempre fenomeni sono, sempre divenire è, sempre apparenza è, ma finchè ci siamo (nel fiume) cercare il divenire, l'apparenza, il movimento più armonico possibile, mi sembra una "meta" e mira accettabile e perseguibile nella vita umana. Non vedo perchè ci si debba per forza tirare le martellate sui...., per dimostrare cosa? che fanno male? Lo sappiamo che fanno male, è insito nella condizione duale e relativa (nel senso di relazione) umana. Quindi stante il piano in cui si opera, quello duale e relativo del divenire mi pare che la ricerca di una condizione di vita armonica, sia pienamente giustificabile e consono al piano in questione.

Di più da questo piano non si può chiedere ed ambire, non spetta al divenire traghettare oltre se stesso, ma certamente gli spetta armonizzare il piano stesso il più possibile.

Da qualche parte nel viveka (sloka 172) si dice...

172. Il vento (vayu) ammassa le nuvole e lo stesso vento le disperde (aniyate meghah punastenaiva niyate), così la mente immagina la schiavitù (manasa kalpyate bandho), ma immagina anche la liberazione (moksa).

Se noti dice "immagina", immagina la schiavitù e immagina anche la liberazione. La mente immagina è nella sua natura immaginare, quindi tutto in regola, ci immaginiamo (crediamo) in schiavitù così come ci immaginiamo liberi, liberati. Sempre immaginazione della mente è, nell'un caso come nell'altro, o come diceva latriplice sul problema immaginario, la schiavitù è un problema della mente immaginato dalla medesima, così come lo sarà la liberazione sempre della mente e sempre immaginato; siamo e restiamo nell'ambito dell'immaginazione, dell'apparenza, del divenire, del relativo, così come immaginiamo la schiavitù immaginiamo la liberazione, parimenti...quindi non ha soluzione vera il "problema" schiavitù, ce l'ha solo immaginaria come immaginaria era anche la liberazione dalla schiavitù. La mente non può uscire dall'immaginare la realtà (schiava o liberata che sia), però almeno può indirizzarla a suo volere, compreso che ciò che immagina è appunto immaginazione e non realtà, e sta e rientra nei suoi poteri e sopratutto volontà immaginare cosa vuole essere.

Se posso permettermi un paragone è un pò come certi sogni, o meglio il sognare classico quando diviene consapevole. Per tanta vita si sogna ed il sogno sembra del tutto casuale e imperscrutabile dal sognatore, come la vita stessa; poi ad un certo punto compare una consapevolezza nel sogno, per prima quella che si è consapevoli di stare sognando. Da lì parte tutto un mondo che comincia a subire l'influenza della volontà del sognatore, nel senso che sempre di più si dirigono e decidono i sogni, l'esito dei sogni, l'andamento, il verso, la piacevolezza o meno, e comunque anche nelle parti che ancora non si riescono a dirigere e decidere, resta sempre ferma la consapevolezza che si sta sognado e che quindi è un pò come al cinema, per partecipato e coinvolto che sia non sei mai tu in tutto e per tutto, ma una figura, un'immagine, un'attore che recita una qualche parte di sogno.

Spesso poi, si comincia anche nella vita così detta reale a vivere questo distacco rispetto agli eventi che accadono e si susseguono, anche se devo dire per quanto mi riguarda con molto meno volontà decisionale degli eventi di quanto riesca nel sogno. La vita reale ancora mi sfugge dall'ambito volitivo, la vivo sì con un certo distacco del personaggio "cannaminor" (visto che qui mi son dato questo nome) ma non riesco quasi mai a volgere gli eventi secondo mia volontà. Spesso è la vita (o chi per lei) invece a decidere gli eventi, ed "io" mi ritrovo soltanto a recitarli mio malgrado secondo un copione non scritto da me.

Ci stiamo lavorando sopra comunque....

cielo
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cielo » 26/08/2018, 8:57

cannaminor ha scritto:
25/08/2018, 18:40

Se posso permettermi un paragone è un pò come certi sogni, o meglio il sognare classico quando diviene consapevole. Per tanta vita si sogna ed il sogno sembra del tutto casuale e imperscrutabile dal sognatore, come la vita stessa; poi ad un certo punto compare una consapevolezza nel sogno, per prima quella che si è consapevoli di stare sognando. Da lì parte tutto un mondo che comincia a subire l'influenza della volontà del sognatore, nel senso che sempre di più si dirigono e decidono i sogni, l'esito dei sogni, l'andamento, il verso, la piacevolezza o meno, e comunque anche nelle parti che ancora non si riescono a dirigere e decidere, resta sempre ferma la consapevolezza che si sta sognado e che quindi è un pò come al cinema, per partecipato e coinvolto che sia non sei mai tu in tutto e per tutto, ma una figura, un'immagine, un'attore che recita una qualche parte di sogno.

Spesso poi, si comincia anche nella vita così detta reale a vivere questo distacco rispetto agli eventi che accadono e si susseguono, anche se devo dire per quanto mi riguarda con molto meno volontà decisionale degli eventi di quanto riesca nel sogno. La vita reale ancora mi sfugge dall'ambito volitivo, la vivo sì con un certo distacco del personaggio "cannaminor" (visto che qui mi son dato questo nome) ma non riesco quasi mai a volgere gli eventi secondo mia volontà. Spesso è la vita (o chi per lei) invece a decidere gli eventi, ed "io" mi ritrovo soltanto a recitarli mio malgrado secondo un copione non scritto da me.

Ci stiamo lavorando sopra comunque....

nel finale accenni al tentativo, fallito, di usare la volontà nel mondo, è il tipico errore di chi è individuato, ma sarebbe da approfondire perchè è uno snodo fondamentale, trattasi dell'esercizio o meno del "libero arbitrio", che si presume di poter esercitare anche quando si comprende di essere impulsati da un flusso causale inarrestabile, di cui il nostro corpo-veicolo è frutto e strumento.
Difatti dici che ci stai lavorando, non è facile perdere il desiderio di orientare il movimento per il "nostro" bene e di avere aspettative, se si risolvessero entrambi: desiderio e attesa dei risultati, di qualcosa che modifichi ciò che è, togliendoci dal conflitto e dalle onde samsariche, si sarebbe "illuminati", liberi dall'ignoranza.

Sull'orientamento dei sogni non sono molto brava, a volte riesco a "riprenderli per la coda" e proseguirli, ma più spesso dal sogno, pur se consapevole di sognare (il testimone sullo sfondo che porti richiamando il cinema lo trovo perfetto) piombo nel nulla del sonno profondo e dimentico pure il sogno nei suoi dettagli, mantengo solo il ricordo di aver sognato tizio e caio e relative emozioni, ma non la "storia" del sogno.

A volte mi domando se gli incontri di sogno, solitamente con persone morte, siano parto della mia mente o anch'essi espressione del flusso causale, ma sul piano sottile, non grossolano e, pertanto, soggetti all'imprevisto (non "mentalmente" autonomi del tutto).

Nel primo caso (mero parto della mia mente immaginaria) mi chiedo perchè non riesco a pilotarli e a costruirli a corollario dei pensieri della veglia che orientano il flusso dei pensieri e dei desideri verso uno specifico essere che è o che fu.
Penso alla nonna e desidero i suoi spaghetti al sugo, visualizzando il "quadro" temporale in cui li mangiavo insieme a lei, e la notte la sogno e mi mangio gli spaghetti facendo due chiacchiere, ad esempio.
Ci sto lavorando sopra...
D'altra parte siamo solo sognatori, non certo il divino Sognatore dei mondi, riflessi coscienziali della creazione e dissoluzione di universi, poco consapevoli dei nostri stessi sogni, nel Sogno.

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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cannaminor » 26/08/2018, 10:29

KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
Faccio un discorso generale (per Cannaminor invece rispondo a parte dopo la citazione): se mi permettessi di dare un giudizio (e dando per scontato di aver ben compreso ciò che avete detto), direi che state centrando il punto: il problema è il senso dell'io, e anche voler risolverlo direttamente è un problema perché niente di ciò che viene fatto da esso può risolverlo (anche perché viene fatto proprio a partire da esso e per esso).


Sarà difficile che il senso dell'io possa risolvere se stesso in via diretta o anche indiretta che sia. Così come porta di esempio-analogia il vedanta dell'impossibilità del danzatore di danzare sulle sue stesse spalle. Ci si è mai chiesti perchè il vedanta parla di "senso dell'io" (ahamkara) è non di io direttamente (aham) in relazione all'organo interno-mente (antahkarana) ? Perchè l'io (aham) nudo e crudo non è un soggetto di relazione, lo è e lo diventa inquanto ahamkara, in quanto senso dell'io, perchè l'io inquanto tale non esiste non c'è; è solo in veste di senso, senso di relazione, senso dell'io che può assumere sembianze e apparenza di realtà, di esistente (ex-sistere). È solo nel rapporto-relazione soggetto (aham) - oggetto (idam) che può venire in esistenza l'ahamkara (il senso dell'io), altrimenti non ci sarebbe alcun aham inteso come soggetto di relazione e relativo. La realtà dell'aham è legata invece alle formulazioni-mahavakya "aham brahmasmi" (Io sono Brahman). L'aham è il filo di arianna, il filo di continuità, il raggio-scintilla divina che lega il jiva al brahman-atman. Ed è proprio l'unica via percorribile (a ritroso) che abbiamo, inquanto jiva-aham, per tornare al "Padre". Ma la via la percorre l'aham, l'io nella sua più autentica e vera purezza, non il senso dell'io che è del tutto fittizio e immaginario.
KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
La soluzione suggerita fondamentalmente da ogni ramo della filosofia dell'Essere l'abbiamo ripetuta più volte: impegnarsi in una qualsiasi attività (fisica, emotiva, intellettiva, meditativa, ecc.), soprattutto se è quella a cui si è più affini, cercando di non concentrarsi su nessun fine particolare, ma concentrandosi sull'attenzione con cui tale attività viene compiuta. Questo produce una specie di consumo della spinta che ci fa agire, spinta che è anche la causa del senso dell'io.
Quindi se ben comprendo il "cercando di non concentrarsi su nessun fine particolare" immagino alluda ad una specie di rinuncia al frutto delle azioni di scuola bhakti, mentre il "concentrandosi sull'attenzione con cui tale attività viene compiuta" suppongo alluda ad una sorta di presenza del/nel "qui e ora" di derivazione tipicamente zen e non solo ovviamente.

Non capisco bene la seconda parte "Questo produce una specie di consumo della spinta che ci fa agire, spinta che è anche la causa del senso dell'io.

Qual'è la spinta che ci fa agire, che muove e promuove un "senso dell'io" agente e fruitore dell'agire stesso? Credo vi siano varie ottiche e visioni che rispondano alla domanda, dalla più classica del karma (da cui la pratica del karmayoga molto vicino a quanto affermi sopra), alle varie cadute e dei assopiti della filosofia occidentale, alla visione jnana in cui il punto cardine di tutta la questione diventa proprio il senso dell'io, la sua nascita e provenienza, il "conosci te stesso", il "chi sono io?" di proposta Ramana, etc. In senso e modo più ristretto e ortodosso vedanta si potrebbe anche dire che tutta la spinta di cui parli provenga dai vari semi-samskara-vasana che cercano e trovano nuova vita-fioritura-frutto nelle vite di ogni singolo individuo che hanno loro stesse promosso e sviluppato. Ricorda per certi versi una teoria degli anni '80 di un tale genetista Richard Dawkins, nel suo più noto libro "il gene egoista" in cui sosteneva in sostanza che gli individui (non solo umani) fossero semplicemente dei contenitori di trasmissione di una informazione genetica codificata (dna) e nulla più, e che tutta la selezione darwiniana ipotizzata delle specie etc, fosse di fatto una selezione dei geni-dna più adatti alla sopravivvenza. Come dire che anche i geni-dna cercano e trovano negli individui (umani e non) che creano e assemblano biologicamente, solamente dei mezzi espressivi (manifestazione?) del loro stesso codice e programma genetico, e che sopravivvono quindi di fatto quelli che hanno assemblato e costruito i migliori individui più adatti all'ambiente del momento. Insomma noi, inquanto esseri biologici, siamo solo dei tramite e sperimenti della selezione del codice genetico. Chiudo la parentesi...

Riguardo al consumo della spinta che ci fa agire, sì è vero, meno identificazione c'è nel soggetto agente, meno energie e frutti dell'azione lo stesso troverà per continuare la sua azione, ma credo anche però che certe azioni, certe motivazioni, siano inalienabili, nel senso che stanno proprio alla base della nostra presenza inquanto individui su questo piano. La classica domanda che credo tutti si siano fatti "che ci sto a fare qui al mondo, per quale motivo e scopo sono qui", et similaria, non sono di facile decifrazione e risposta, ma aldilà delle mille motivazioni inesistenti e fittizie, ce ne possono (e credo ci siano) anche delle altre, almeno una voglio sperare, che giustifichi, su questo piano e pur con i limiti di questo piano, la presenza di ognuno di noi su questo piano. Io non so se sono qui, per aver dato vita a due esseri così detti "miei figli" (notare il mio), e di averli avuti per il tramite di un'altro essere così detto "mia moglie", etc etc che abbia svolto e fatto questi mestieri, compiuto queste azioni (benemerite o malemerite che fossero) etc etc. Ho vissuto quasi sessanta anni, e ancora non mi sono dato risposta del perchè sia qui, inquanto individuo etc etc. Forse la domanda è malposta o non va posta del tutto, anche questo non lo so ancora e non ci sono arrivato ancora a saperlo se sia corretto porla o meno. Tant'è che comuqnue al momento, ponendomela, non gli ho dato risposta.
KaaRa ha scritto:
25/08/2018, 14:47
Rimane così appunto solo l'osservazione pura, in realtà sempre presente. Il problema è che, anche se solo tale osservazione è veramente costante, questo non significa che il processo che "consuma" gli elementi relativi dovrà cessare: anzi, dovrà essere periodicamente riproposto, poco importa quanto il "gocciolio" degli elementi relativi (e dei suddetti rimedi per ridurlo) ci sia venuto a noia (per quanto ciò sia comprensibile in certe fasi della vita). Anche se comunque un giorno sarà talmente sottile (come in certe "realizzazioni superiori") da divenire praticamente automatico e quasi inavvertibile.
Io non credo che il "processo che "consuma" gli elementi relativi cessarà" altriementi verrebbe meno il motivo stesso di esistere ed essere qui. La vita stessa è di fatto "elementi relativi", l'abbiamo già detto siamo su questo piano relativo per sua stessa natura (duale) e quindi credo che una motivazione di tale piano e dualità e del nostro esserci quale individui relativi e duali sussista di per sè, per la nostra stessa presenza. Che poi sia tutta un'apparenza, un'immaginazione, una non del tutto realtà Reale, certo anche questo lo sappiamo, ma questo però non lo rende di fatto un'inesistente, come porta di esempio sankara, le corna di una lepre o il figlio di una donna sterile.

Questo piano è apparente, fenomenico, relativo, duale, in divemire, etc ? Sì, anche noi inquanti individui lo siamo, non per questo non ci siamo e non esistiamo, così come i soggetti e mondi di sogno; sono apparenti, fenomenici, al risveglio del mattino spariscono come nebbia al sole? sì tutto vero, ma per l'ambito in cui sussistono, noi ci siamo e pure il mondo di sogno, quindi è come di solito viene detto un'apparente realtà, una parziale realtà, un "certo gradio di realtà" ma non una irrealtà-le corna di una lepre.

Francamente non credo sia una questione di rallentare alcunchè, di fermare alcunchè, non c'è nulla da fermare, le apparenza si fermano e svaniscono da sole al risveglio (che sia realizzativo o meno); e così come ogni notte che andiamo a dormire probabilmente ri-sogneremo qualcosa, un nuovo mondo, un nuovo personaggio di sogno, nuove avventure, nuove tragedie, nuovi inseguimenti, nuovi amori, etc, e non per questo pur sapendo che sono sogni non li sogneremo (e non ci identificheremo nel personaggio di sogno) così credo avvenga della vita-veglia. È un "sogno", sui generis, ma pur sempre sogno, e per quanto tu nel sogno possa anche essere consapevole di stare sognando, così come nei sogni veri, non di meno il sogno prosegue e si esaurisce da solo in ultimo, fosse anche con la morte del soggetto in questione.

KaaRa, continua a sognare la veglia, qual'è il problema? o meglio non farne un problema, non cercare di rallentare alcunchè (anche perchè perfettamente inutile), l'unica cosa semmai se ti riesce prendine consapevolezza del tuo sognare la veglia e questo è quanto. Come prenderne consapevolezza? Con l'attenzione, la meditazione, la centratura....stacca, scolla l'identificazione nel soggetto e riportati all'osservatore, al testimone del tutto, non c'è altro che si possa fare. E non per questo non farai, anzi alle volte in quella condizione ci si ritrova a "fare" anche di più di quanto si facesse prima, o si credesse-immaginasse di fare prima. I sogni guidati sono i più belli, i più utili, i più soddisfacenti per il sogno stesso dico, non per il soggetto di sogno che ne è solo un personaggio dei tanti.

La vita-veglia è un sogno? Sì lo è, ma non il nostro, nostro di individui singoli e individuali, ma è il sogno di "Dio", di "Isvara", dell'"Uno" o altri nomi simili. Nel sogno-veglia non si compie la "nostra di volontà" ma quella di Dio (scusami se uso questo termine invece di altri ma è quello più famigliare a tutti). Più noi ci si uniforma e "sincronizza" alla volontà di Dio, più siamo nel sogno e partecipi veri e veritieri del sogno. Più invece noi adottiamo e applichiamo una nostra volontà, individuale e singola, più il sogno diventa un incubo, una sofferenza, questo proprio a motivo dell'alterità che immettimo nell'unità di sogno. Il sogno di Dio è perfetto, è il paradiso terrestre, siamo noi nella nostra individualità e volontà singola ad esserci scissi e caduti da quel sogno nel nostro facsimile del Suo, ma non il Suo. Siamo caduti dal Paradiso per questo, per non partecipare del sogno di Dio, per volontà di individualità e singolarità. Se riusciamo a ripercorrere quella luce, quel raggio che comunque noi nella nostra singolarità e individualità siamo e non abbiamo mai smesso di essere, sino alla fonte alla luce originaria, torniamo nel sogno del Padre, torniamo al Padre, come da insegnamenti di Gesù. È tutto un discorso che nelle sue varie diciture e formulazioni è sempre lo stesso, sia in occidente che oriente.

Abbiamo tutti, nessuno escluso, una via del ritorno; gli ebrei la chiamano Teshuvah, la via del ritorno appunto, ritorno al Padre, all'origine etc.

Abbiamo solo da percorrerla...

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cannaminor
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da cannaminor » 26/08/2018, 11:12

cielo ha scritto:
26/08/2018, 8:57
cannaminor ha scritto:
25/08/2018, 18:40

Se posso permettermi un paragone è un pò come certi sogni, o meglio il sognare classico quando diviene consapevole. Per tanta vita si sogna ed il sogno sembra del tutto casuale e imperscrutabile dal sognatore, come la vita stessa; poi ad un certo punto compare una consapevolezza nel sogno, per prima quella che si è consapevoli di stare sognando. Da lì parte tutto un mondo che comincia a subire l'influenza della volontà del sognatore, nel senso che sempre di più si dirigono e decidono i sogni, l'esito dei sogni, l'andamento, il verso, la piacevolezza o meno, e comunque anche nelle parti che ancora non si riescono a dirigere e decidere, resta sempre ferma la consapevolezza che si sta sognado e che quindi è un pò come al cinema, per partecipato e coinvolto che sia non sei mai tu in tutto e per tutto, ma una figura, un'immagine, un'attore che recita una qualche parte di sogno.

Spesso poi, si comincia anche nella vita così detta reale a vivere questo distacco rispetto agli eventi che accadono e si susseguono, anche se devo dire per quanto mi riguarda con molto meno volontà decisionale degli eventi di quanto riesca nel sogno. La vita reale ancora mi sfugge dall'ambito volitivo, la vivo sì con un certo distacco del personaggio "cannaminor" (visto che qui mi son dato questo nome) ma non riesco quasi mai a volgere gli eventi secondo mia volontà. Spesso è la vita (o chi per lei) invece a decidere gli eventi, ed "io" mi ritrovo soltanto a recitarli mio malgrado secondo un copione non scritto da me.

Ci stiamo lavorando sopra comunque....

nel finale accenni al tentativo, fallito, di usare la volontà nel mondo, è il tipico errore di chi è individuato, ma sarebbe da approfondire perchè è uno snodo fondamentale, trattasi dell'esercizio o meno del "libero arbitrio", che si presume di poter esercitare anche quando si comprende di essere impulsati da un flusso causale inarrestabile, di cui il nostro corpo-veicolo è frutto e strumento.
Difatti dici che ci stai lavorando, non è facile perdere il desiderio di orientare il movimento per il "nostro" bene e di avere aspettative, se si risolvessero entrambi: desiderio e attesa dei risultati, di qualcosa che modifichi ciò che è, togliendoci dal conflitto e dalle onde samsariche, si sarebbe "illuminati", liberi dall'ignoranza.
Sì il libero arbitrio è proprio l'esercizio di volontà individuale e singola nel mondo. Ci si crede agenti, agenti di volontà, di azione, di agire, di fare, agenti dei frutti che le nostre azioni comporteranno, fruitori di tali frutti, etc; tutto il gioco si svolge attorno al soggetto-ahamkara, al senso dell'io.

Come dicevo in risposta a KaaRa, mentre il sogno notturno è individuale-singolo del singolo soggetto nel quale e dove lui può applicare la sua volontà di singolo, di aham (anche se poi sul soggetto notturno di sogno se ne potrebbe parlare, perchè essendo l'aham che sogna, non l'ahamkara, in effetti un grado superiore o comunque una "vista" sulla via del ritorno dalla singolarità-individualità il soggetto di sogno ce l'ha), ma comuque senza entrare nel discorso, quello di veglia invece, della vita di tutti i giorni è il sogno di Isvara, di Dio, e dove l'unica volontà applicata è quella di Dio.
Noi inquanto personaggi di quel sogno ne siamo solo attori, comparse, e quindi l'unica possibilità che abbiamo è quella di conformarci, sincronizzarci , "fare la volontà del Padre", come si suol dire. È solo adempiendo alla Sua Volontà (di sogno, del Suo sogno, manifestazione per noi) che possiamo essere armonici e "perfetti" come il Padre nostro nei cieli.

Là dove invece applichiamo una nostra di volontà, individuale, altra e necessariamente singola delle molteplici, ci ritroviamo subito nel conflitto e contrapposizioni delle parti, così come spesso contro o altra dalla volontà del Padre.

Decidendo di assumere e vivere una nostra singola e autonoma volontà rispetto a quella Unitaria del Padre, ci mettiamo di fatto fuori dall'Unità, fuori da quello che veniva definito il Paradiso Terrestre; ci mettiamo e immergiamo nel molteplice là dove ovviamente le parti non possono che entrare in conflitto prima o poi essendo le une altre alle altre. È proprio la dualità, la molteplicità, per sua stessa natura ad essere di base predisposta alla contrapposizione, conflitto, alterità, dolore, etc. Nell'unità di Volontà e Azione (etc) essendo una non ci possono essere alterità e quindi conflitti, contrapposizioni, etc.

La preghiera del Padre nostro,

Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.

credo la più autentica e significativa del vangelo sia indicativa di tutto ciò...di un percorso, di un cammino, di una modalità del/per il ritorno al Padre, così come indicava gesù di se stesso di essere via e strumento di via al Padre.

In quel tempo, Gesù disse a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».
Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?
Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere.
Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre».
Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio.
Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò.» (Gv 14,6-14)

Scusami, scusatemi se ripropongo certi passi evangelici, ma è che lungo un cammino che evangelico non è stato nel mio caso, sto riscoprendo (e non senza un certo sottile piacere interiore) significati e significanze che prima non vedevo e non comprendevo in quelle parole.

Buona via (di ritorno) a tutti....

latriplice
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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da latriplice » 26/08/2018, 11:53

cannaminor ha scritto:
25/08/2018, 14:23
latriplice ha scritto:
25/08/2018, 13:23

Chiudere il rubinetto non è la soluzione. Tentare di farlo non fa altro che rafforzare il "senso di me" da cui si intende liberarsi.

Renditi conto che non c'è una soluzione ad un problema immaginario.

QUELLA E' LA SOLUZIONE.
Immaginario è vero, è immaginario, ma perchè problema?

Nel senso è un problema o diventa tale nel momento che lo vivi per tale, un problema, altrimenti in sè, il "senso di me" non è un problema per alcuno men che meno per il presunto "me", immaginario appunto. Non c'è nessun "me", in senso stretto e reale, c'è in senso di apparenza, di fenomeno, di divenire e relazionale (duale), ma appunto è solo apparenza, fenomeno, immaginario, non c'è nessun me e nessun problema me, a meno che lo si voglia vivere e dargli vita per tale, come di solito accade al mondo e chi in esso.

Quanto dici latriplice sul senso del me (o dell'io) è ineccepibile, tutto corretto, non fa una piega, e di fondo è vero anche quanto dici non esiste una soluzione ad un problema immaginario, se non una soluzione immaginaria anch'essa, che vive e si muove sullo stesso piano del fenomenico-immaginativo, su quel piano, apparente, immaginario, duale, in divenire etc etc, i problemi e le soluzioni ovviamente giacciono sullo stesso piano, e che io sappia non hanno mai risolto nulla di nulla in via definitiva, perchè ogni causa è motivo di un effetto che è causa lui stesso di un altro effetto etc etc.

Quindi non è certo su quel piano che si possono mai trovare soluzioni, ovviamente (ma evidentemente non basta l'ovvietà logica) se soluzione, o almeno comprensione, realizzazione o come la si voglia chiamare si va cercando, non è certo sullo stesso piano della domanda che va cercata. In fatti non si trova nulla, ma si realizza dicono, là dove il realizzare non è analogo e omologo a trovare una soluzione, a risolvere, perfino a comprendere direi, perchè tutte queste si svolgono e rimandano ad un risultato che rimane sempre sullo stesso piano della ricerca azione intrapresa.

Ultimamente pensavo al classico discorso della verità, e di quanti nei secoli l'abbiano cercata la verità, quella con la V maiuscola. Il classico metodo di ricerca della verità (ma non solo) è esclusivo, per esclusione, per certi versi molto simile al neti neti vedanta; non questo, non questo, non questo è vero, non quello è vero, e forse dopo un paio di miliardi di non verità trovate e scartate, si crede che si possa giungere alla due-miliardesima-e uno verità, quella vera, quella con V maiuscola. Ma non è così, non può essere così, non può essere che la Verità che tanto cerchiamo sia sullo stesso piano delle due-miliardi di verità precedentemente scartate. Che verità sarebbe mai se fosse e si ponesse sullo stesso piano delle precedenti due-miliardi di verità trovate e scartate perchè false?

Esiste un concetto in filosofia che si chiama sintesi, e questo concetto viene spesso simbolizzato col triangolo, là dove i due vertici di base sono (per esempio) il piano delle verità trovate e scarate o meno, e quello di vertice, sopra a queste simbolicamente due ma che rappresentano il molteplice, è la verità di sintesi di tutte quelle appunto che stanno sulla base, molteplici verità.

La sintesi, il vertice in apice alla base del triangolo, non è in opposizione alle molteplici verità, non le nega nè le somma o sincretizza, semplicemente è qualcosa di altro e diverso dalla base molteplice e contradittoria che rappresenta appunto il moteplice, il duale (due vertici), è appunto sintesi.

La contrapposizione di vero e falso, vere verità e false verità, la si trova solo sul piano duale, la sintesi non è in alternativa duale di verità o falsità con nessuna verità duale e molteplice. In un certo senso le comprende tutte e le nega tutte parimenti. Nessuna verità duale è del tutto falsa, come non è del tutto vera e questo proprio e solo a motivo della sua natura duale. Ogni individuo su questo mondo non mai del tutto vero o del tutto falso, siamo inquanto individui e inquanto molteplici e parti del molteplice, specchi, schegge, scintille di verità (o anche di realtà) della una Verità ed Una Realtà.

E' proprio a motivo della nostra frammentazione e crederci tali, frammenti e molteplici, che non siamo interi, intere verità e intere realtà, quali di base e di fondo siamo tutti invece. E' proprio una temerarietà come diceva plotino, quella del frammento a viversi per tale e crearsi tutto il "problema" da solo e con le sue stesse mani. E' vero latriplice, un problema immaginario non ha soluzione, se non nell'immaginario stesso di chi lo ha creato, forse. Ma è l'immaginario da mettere semmai sotto osservazione non l'essere un problema.
"...Ma è l'immaginario da mettere semmai sotto osservazione non l'essere un problema..."

L'immaginario, porre il pronome personale "io" dinnanzi all'attività impersonale della coscienza:

vedere - io vedo
sentire - io sento
toccare - io tocco
pensare - io penso
consapevolezza - io sono consapevole

se creduta diventa un problema, perché ora abbiamo un sostantivo (l'io) che rivendica il verbo (le attività impersonali) come propri attributi, mentre in verità c'è solo il Verbo.

Questa è una palese sostituzione e usurpazione dell'autentica Sorgente.

L'egocentrismo, la tendenza di riferire ad un me immaginario l'esperienza, di per sé è un processo mentale che sorge spontaneamente, ma è la fede che riponiamo in essa che va a costituire una visione falsata e apparente (maya) di ciò che è.

Pertanto l'accento è sul credere. Abbiamo questa libertà di scegliere se aderire o meno all'immaginario. L'identificazione con un contenuto mentale è sempre preceduta da un atto di fede, ed è proprio in virtù di questa concessione che conferiamo all'immaginario l'apparente concretezza.

Siamo la realtà, e l'unico modo in cui l'apparenza può esercitare la sua influenza su di noi è nel crederci, perché le conferiamo la realtà che ci appartiene.

Riunirsi ad un satsang come onde per discutere il tema dell'oceano è in un certo senso profondamente divertente. Perché tutto ciò che devi fare è niente. Tutto il fare è una attività collegata all'essere un'onda, che non fa altro che riaffermare la sensazione di essere un'onda, pertanto non ne esci. L'onda che cerca di cogliere l'essenza dell'oceano non fa che riaffermare il suo ondeggiare, cioè nel definirsi separato e non l'oceano.

Che è la vera sicurezza del me! Adorerà l'oceano finché potrà farlo come un'onda. Potrebbe considerare un'altra onda un Gesù o Buddha e dire: "Ah si, lui è stato l'oceano", e riferirlo al passato perché al momento non vogliamo alcun oceano vivente. Perché allora vedremmo attraverso il gioco di essere un'onda e porrebbe fine allo spettacolo.

Pertanto non sto discutendo le qualità e la profondità dell'oceano. Soltanto chiedersi: "Sei veramente un'onda?" Questa è la domanda cruciale che mette in discussione l'intero costrutto mentale immaginario. Se ti rendi conto che non sei un'onda, sei immediatamente l'oceano che esclude qualsiasi passaggio intermedio. Intrinsecamente non sei un'onda, sei invece una espressione dell'oceano. Lo spazio della consapevolezza che esprime se stessa come apparenze. Per un'altra onda sei un'onda. Questo è il modo in cui un'onda vede un'altra onda. L'atto di vedere le onde come onde è una negazione attiva dell'oceano, l'attenzione su cosa vuol dire essere un'onda ma non l'oceano.

Non appena vedi la possibilità che forse non sei un'onda, ciò che può accadere è che la verità possa risuonare in te. Ci sarà la sensazione di essere l'oceano mentre ci sarà l'apparenza di un'onda. Non sono esclusivi.

Quando l 'onda riconosce che è l'oceano, questo non gli impedisce di essere un'onda. L'onda può continuare a ondeggiare, ma ora c'è la confidenza nell'essere l'oceano. Il che permette all'onda di viaggiare più leggero. In effetti nel godere del suo stesso ondeggiamento, senza farne per questo una questione personale.

Questa per me è in sintesi ciò che concerne l'intera faccenda spirituale.

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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da latriplice » 27/08/2018, 1:12

Latriplice ha scritto:

"...Ma è l'immaginario da mettere semmai sotto osservazione non l'essere un problema..."

L'immaginario, porre il pronome personale "io" dinnanzi all'attività impersonale della coscienza:

vedere - io vedo
sentire - io sento
toccare - io tocco
pensare - io penso
consapevolezza - io sono consapevole

se creduta diventa un problema, perché ora abbiamo un sostantivo (l'io) che rivendica il verbo (le attività impersonali) come propri attributi, mentre in verità c'è solo il Verbo.

Questa è una palese sostituzione e usurpazione dell'autentica Sorgente.

In termini religiosi, è il cosiddetto peccato originale. Tutto parte da qua, la genesi delle nostre misere vite.


"IO".

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Re: Filosofia dello... stare

Messaggio da Fedro » 27/08/2018, 5:00

..ma continuare a vedere "problemi" è una visione che parte da quell'io che li avrebbe creati.
Perché occuparsene come problema da risolvere?
L'oca è già fuori, recita il koan.
Altrimenti c'è la bottiglia da cui non poter mai uscire, perché costituisce la sua stessa realtà illusoria, un limite che mostra la sua stessa natura, non trasformabile in non limite, ovvero in soluzione

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