Il gruppo che cura Vedanta.it inizia ad incontrarsi sul web a metà degli anni 90. Dopo aver dialogato su mailing list e forum per vent'anni, ha optato per questo forum semplificato e indirizzato alla visione di Shankara.
Si raccomanda di tenere il forum libero da conflittualità e oscurità di ogni genere.
Grazie

Seva e xuto, considerazioni.

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Fedro
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Re: Seva e xuto, considerazioni.

Messaggio da Fedro » 15/05/2017, 23:46

latriplice ha scritto:
15/05/2017, 23:17
La stessa ha scritto:

Vedi, latriplice, in questa esperienza del variegato mondo della 'ricerca spirituale' un dato è risultato certo, potremmo dire scientificamente certo: chi si dice illuminato, maestro e similaria non lo è.
Coloro invece che lo sono, non lo dicono non per peccare di presunzione ma per la vergogna dovuta all'implicita ammissione di essere stati degli ignoranti per tutto il tempo della loro esistenza terrena. Una vergogna ed una bestemmia nei propri confronti di portata così colossale per la sua ovvietà e lampante evidenza da infilare la coda in mezzo le gambe e correre a nascondersi.

In fondo che cosa hanno realizzato? Che sono l' ORDINARIA consapevolezza testimone, la "luce" in presenza della quale le esperienze mondane inclusi i vari samadhi hanno luogo. E che quest'ultime dipendono da quella. Mica un gran affare. ;)

E non lo erano stati per tutto il tempo questa consapevolezza? E chi non è questa consapevolezza?

Pertanto non è una esperienza speciale e non è speciale colui che lo realizza come volete far credere.

Perché è scientificamente certo: l'esperienza dipende dalla consapevolezza,

come è scientificamente certo che è il cane che scodinzola la coda e non viceversa.

Ma tu ed il gruppo che rappresenti pensate che sia una esperienza unica e speciale come è speciale colui che non ne parla. Ma non ne parla per la ragione illustrata di cui sopra.

Quindi smettetela di far scodinzolare il cane dalla coda.

Capito la metafora?

Il Vedanta è una scienza esatta dello Spirito che rimette le cose al loro posto come si propone l'auto-indagine di cui è promotrice.


Un illuminato :D

oops, troppa luce 8-)
E quindi perché tutta sta voglia di ribadirlo, visto che appunto non è niente di speciale?
Devi forse convincere te stesso?
In ogni caso, sforzati di non rivolgerti genericamente al plurale, immaginando un gruppo da una parte e te dall'altra.

latriplice
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Re: Seva e xuto, considerazioni.

Messaggio da latriplice » 16/05/2017, 0:18

Fedro ha scritto:
15/05/2017, 23:46
latriplice ha scritto:
15/05/2017, 23:17
La stessa ha scritto:

Vedi, latriplice, in questa esperienza del variegato mondo della 'ricerca spirituale' un dato è risultato certo, potremmo dire scientificamente certo: chi si dice illuminato, maestro e similaria non lo è.
Coloro invece che lo sono, non lo dicono non per peccare di presunzione ma per la vergogna dovuta all'implicita ammissione di essere stati degli ignoranti per tutto il tempo della loro esistenza terrena. Una vergogna ed una bestemmia nei propri confronti di portata così colossale per la sua ovvietà e lampante evidenza da infilare la coda in mezzo le gambe e correre a nascondersi.

In fondo che cosa hanno realizzato? Che sono l' ORDINARIA consapevolezza testimone, la "luce" in presenza della quale le esperienze mondane inclusi i vari samadhi hanno luogo. E che quest'ultime dipendono da quella. Mica un gran affare. ;)

E non lo erano stati per tutto il tempo questa consapevolezza? E chi non è questa consapevolezza?

Pertanto non è una esperienza speciale e non è speciale colui che lo realizza come volete far credere.

Perché è scientificamente certo: l'esperienza dipende dalla consapevolezza,

come è scientificamente certo che è il cane che scodinzola la coda e non viceversa.

Ma tu ed il gruppo che rappresenti pensate che sia una esperienza unica e speciale come è speciale colui che non ne parla. Ma non ne parla per la ragione illustrata di cui sopra.

Quindi smettetela di far scodinzolare il cane dalla coda.

Capito la metafora?

Il Vedanta è una scienza esatta dello Spirito che rimette le cose al loro posto come si propone l'auto-indagine di cui è promotrice.


Un illuminato :D

oops, troppa luce 8-)
E quindi perché tutta sta voglia di ribadirlo, visto che appunto non è niente di speciale?
Devi forse convincere te stesso?
In ogni caso, sforzati di non rivolgerti genericamente al plurale, immaginando un gruppo da una parte e te dall'altra.
L'aspetto speciale che ho voluto invece ribadire, espresso a carattere cubitale come hai modo di vedere, è la sua assoluta ordinarietà, che vista l'evidenza non serve convincersene.

Gruppo Vedanta Citra
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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da Gruppo Vedanta Citra » 16/05/2017, 11:16

latriplice ha scritto:
15/05/2017, 23:17
La stessa ha scritto:

Vedi, latriplice, in questa esperienza del variegato mondo della 'ricerca spirituale' un dato è risultato certo, potremmo dire scientificamente certo: chi si dice illuminato, maestro e similaria non lo è.
Coloro invece che lo sono, non lo dicono non per peccare di presunzione ma per la vergogna dovuta all'implicita ammissione di essere stati degli ignoranti per tutto il tempo della loro esistenza terrena. Una vergogna ed una bestemmia nei propri confronti di portata così colossale per la sua ovvietà e lampante evidenza da infilare la coda in mezzo le gambe e correre a nascondersi.

In fondo che cosa hanno realizzato? Che sono l' ORDINARIA consapevolezza testimone, la "luce" in presenza della quale le esperienze mondane inclusi i vari samadhi hanno luogo. E che quest'ultime dipendono da quella. Mica un gran affare. ;)

E non lo erano stati per tutto il tempo questa consapevolezza? E chi non è questa consapevolezza?

Pertanto non è una esperienza speciale e non è speciale colui che lo realizza come volete far credere.


Perché è scientificamente certo: l'esperienza dipende dalla consapevolezza,

come è scientificamente certo che è il cane che scodinzola la coda e non viceversa.

Ma tu ed il gruppo che rappresenti pensate che sia una esperienza unica e speciale come è speciale colui che non ne parla. Ma non ne parla per la ragione illustrata di cui sopra.

Quindi smettetela di far scodinzolare il cane dalla coda.

Capito la metafora?

Il Vedanta è una scienza esatta dello Spirito che rimette le cose al loro posto come si propone l'auto-indagine di cui è promotrice.


Un illuminato :D

oops, troppa luce 8-)

Premetto che non rappresento alcun gruppo, ma scrivo in prima persona quale parte del Gruppo Vedanta Citra in virtù della benevolenza delle sorelle che me lo hanno permesso, avendo io rinunciato per motivi che non intendo rendere pubblici ad un nick personale.

Pertanto, poichè quanto scrivo rappresenta esclusivamente questa persona per ciò che è - qui e ora - , rispondendo a me sei pregato d'ora innanzi di rivolgerti esclusivamente a me.



È davvero buffo, latriplice, proprio ieri riflettevo fra me e me sulla tua encomiabile compostezza ed educazione, rimasta quasi sempre tale negli anni anche in presenza dei più gratuiti attacchi.
Eppure è bastato che si mettesse in discussione la tua affermazione di 'illuminazione' per farti perdere le staffe.
La mente umana è strana, gli attaccamenti sono diversi per ciascuno, ma quando li tocchi scatta la reazione, inevitabile perché, perdendo gli attaccamenti, si rimarrebbe privi di sostegno e questo l'io empirico non lo tollera, così come non tollera la sua propria morte.
Peccato, però, che 'sto famoso io empirico non esista, non essendo altro - in realtà - che un flusso energetico, da un certo punto di vista la mente stessa. Da quel punto di vista, dicono i Conoscitori, non c'è alcun io che possa essere consapevole.
È un circolo vizioso, come il cane che si morde la coda senza sapere che è sua.
;)

Io ti capisco, latriplice, perché sono ordinariamente umana proprio come te.
Quello che mostri che è un fenomeno ben noto fra i cercatori dello Spirito; dopo decenni trascorsi a cercare senza trovare il centro, saltellando spesso fra un raggio e l'altro della grande ruota delle vie, a taluni viandanti, solitamente i più adusti dall'ordinaria erudizione, invece di arrendersi finalmente, accade di sminuire la meta, rendendola così accessibile ai propri mezzi ordinari e creando l'illusione ulteriore di un fantasmatico conseguimento.
Si tratta di una delle tante forme in cui si manifesta ὕβϱις (hybris).
Ti parlo di questo fenomeno non perché sia il tuo ritratto, ma perché è il mio, se non lo fosse non potrei vederlo in te.
Lo conosco bene, per esperienza diretta e quotidiana. È un rischio con cui faccio i conti ogni giorno, ogni momento, quello di aggiungere invece di togliere, di adornarsi della conoscenza ordinaria come fosse un gioiello, perdendo così la capacità d'imparare dagli altri per quanto ordinariamente ignoranti possano apparire. È quella vocina che ti sussurra all'orecchio: tu sai, portandoti a confondere il 'sai' col 'sei'. È così facile, basta scambiare la vocale.
Ma l'Essere e il sapere ordinario sono separati da un insuperabile abisso.


Tu commetti un errore terminologico che è poi errore sostanziale.
Te lo indico, poi fanne ciò che vuoi.
Ricorrendo al paragone del film proiettato sullo schermo cinematografico sovente utilizzato da Ramana Maharshi, ciò che tu chiami consapevolezza ordinaria non è lo schermo ma la possibilità di essere cosciente del film (molteplicità dei nomi e delle forme) che in questo luogo - condividendo le indicazioni del riferimento - viene chiamata coscienza 'di' per distinguerla dalla consapevolezza.
Infatti esiste, dicono i Conoscitori, lo schermo, un livello più profondo che possiamo chiamare Consapevolezza, completamente slegato da ogni forma di coscienza, percezione e alterità, da cui emana la tua centralità.

Questo secondo livello - naturalmente usando le parole, il concetto stesso viene tradotto e quindi tradito nella sua essenza - è ciò che viene chiamato il Reale, l'Assoluto non duale, Brahman Nirguna, il Tao che non può essere detto.
Pur essendo ciò che È , sempre presente, inalterabile costante, è inaccessibile alla coscienza ordinaria così come all'ordinaria intelligenza umana.

Il realizzato non duale, l'illuminato come dici tu, il Conoscitore, non si qualifica come tale perché semplicemente non sa di esserlo. Egli si vede umano, limitato, ordinario perché lo è: è anche umano, limitato, ordinario, proprio in questo sta la sua grandezza.
Eppure egli, rarissimo fra gli uomini più della rosa più preziosa, è riconoscibile a chi ha la grazia d'incontrarlo.
Come?
Questo bisogna scoprirlo da soli.
Di certo un utile indizio è dato dalla sua totale incapacità di autoincensarsi, dal suo rifiuto di ogni titolo quale esso sia, dalla sua completa accettazione di ciò che c'è.


una del gruppo

latriplice
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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da latriplice » 16/05/2017, 15:09

Gruppo Vedanta Citra ha scritto:
16/05/2017, 11:16
latriplice ha scritto:
15/05/2017, 23:17
La stessa ha scritto:

Vedi, latriplice, in questa esperienza del variegato mondo della 'ricerca spirituale' un dato è risultato certo, potremmo dire scientificamente certo: chi si dice illuminato, maestro e similaria non lo è.
Coloro invece che lo sono, non lo dicono non per peccare di presunzione ma per la vergogna dovuta all'implicita ammissione di essere stati degli ignoranti per tutto il tempo della loro esistenza terrena. Una vergogna ed una bestemmia nei propri confronti di portata così colossale per la sua ovvietà e lampante evidenza da infilare la coda in mezzo le gambe e correre a nascondersi.

In fondo che cosa hanno realizzato? Che sono l' ORDINARIA consapevolezza testimone, la "luce" in presenza della quale le esperienze mondane inclusi i vari samadhi hanno luogo. E che quest'ultime dipendono da quella. Mica un gran affare. ;)

E non lo erano stati per tutto il tempo questa consapevolezza? E chi non è questa consapevolezza?

Pertanto non è una esperienza speciale e non è speciale colui che lo realizza come volete far credere.


Perché è scientificamente certo: l'esperienza dipende dalla consapevolezza,

come è scientificamente certo che è il cane che scodinzola la coda e non viceversa.

Ma tu ed il gruppo che rappresenti pensate che sia una esperienza unica e speciale come è speciale colui che non ne parla. Ma non ne parla per la ragione illustrata di cui sopra.

Quindi smettetela di far scodinzolare il cane dalla coda.

Capito la metafora?

Il Vedanta è una scienza esatta dello Spirito che rimette le cose al loro posto come si propone l'auto-indagine di cui è promotrice.


Un illuminato :D

oops, troppa luce 8-)

Premetto che non rappresento alcun gruppo, ma scrivo in prima persona quale parte del Gruppo Vedanta Citra in virtù della benevolenza delle sorelle che me lo hanno permesso, avendo io rinunciato per motivi che non intendo rendere pubblici ad un nick personale.

Pertanto, poichè quanto scrivo rappresenta esclusivamente questa persona per ciò che è - qui e ora - , rispondendo a me sei pregato d'ora innanzi di rivolgerti esclusivamente a me.



È davvero buffo, latriplice, proprio ieri riflettevo fra me e me sulla tua encomiabile compostezza ed educazione, rimasta quasi sempre tale negli anni anche in presenza dei più gratuiti attacchi.
Eppure è bastato che si mettesse in discussione la tua affermazione di 'illuminazione' per farti perdere le staffe.
La mente umana è strana, gli attaccamenti sono diversi per ciascuno, ma quando li tocchi scatta la reazione, inevitabile perché, perdendo gli attaccamenti, si rimarrebbe privi di sostegno e questo l'io empirico non lo tollera, così come non tollera la sua propria morte.
Peccato, però, che 'sto famoso io empirico non esista, non essendo altro - in realtà - che un flusso energetico, da un certo punto di vista la mente stessa. Da quel punto di vista, dicono i Conoscitori, non c'è alcun io che possa essere consapevole.
È un circolo vizioso, come il cane che si morde la coda senza sapere che è sua.
;)

Io ti capisco, latriplice, perché sono ordinariamente umana proprio come te.
Quello che mostri che è un fenomeno ben noto fra i cercatori dello Spirito; dopo decenni trascorsi a cercare senza trovare il centro, saltellando spesso fra un raggio e l'altro della grande ruota delle vie, a taluni viandanti, solitamente i più adusti dall'ordinaria erudizione, invece di arrendersi finalmente, accade di sminuire la meta, rendendola così accessibile ai propri mezzi ordinari e creando l'illusione ulteriore di un fantasmatico conseguimento.
Si tratta di una delle tante forme in cui si manifesta ὕβϱις (hybris).
Ti parlo di questo fenomeno non perché sia il tuo ritratto, ma perché è il mio, se non lo fosse non potrei vederlo in te.
Lo conosco bene, per esperienza diretta e quotidiana. È un rischio con cui faccio i conti ogni giorno, ogni momento, quello di aggiungere invece di togliere, di adornarsi della conoscenza ordinaria come fosse un gioiello, perdendo così la capacità d'imparare dagli altri per quanto ordinariamente ignoranti possano apparire. È quella vocina che ti sussurra all'orecchio: tu sai, portandoti a confondere il 'sai' col 'sei'. È così facile, basta scambiare la vocale.
Ma l'Essere e il sapere ordinario sono separati da un insuperabile abisso.


Tu commetti un errore terminologico che è poi errore sostanziale.
Te lo indico, poi tu fanne ciò che vuoi.
Ricorrendo al paragone del film proiettato sullo schermo cinematografico sovente utilizzato da Ramana Maharshi, ciò che tu chiami consapevolezza ordinaria non è lo schermo ma la possibilità di essere cosciente dello schermo, che in questo luogo - seguendo le indicazioni del riferimento - viene chiamata coscienza 'di' per distinguerla dalla consapevolezza.
Infatti esiste, dicono i Conoscitori, lo schermo, un livello più profondo che possiamo chiamare Consapevolezza, completamente slegato da ogni forma di coscienza, percezione e alterità, da cui emana la tua centralità.

Questo secondo livello - naturalmente usando le parole, il concetto stesso viene tradotto e quindi tradito nella sua essenza - è ciò che viene chiamato il Reale, l'Assoluto non duale, Brahman Nirguna, il Tao che non può essere detto.
Pur essendo ciò che È , sempre presente, inalterabile costante, è inaccessibile alla coscienza ordinaria così come all'ordinaria intelligenza umana.

Il realizzato non duale, l'illuminato come dici tu, il Conoscitore, non si qualifica come tale perché semplicemente non sa di esserlo. Egli si vede umano, limitato, ordinario perché lo è: è anche umano, limitato, ordinario, proprio in questo sta la sua grandezza.
Eppure egli, rarissimo fra gli uomini più della rosa più preziosa, è riconoscibile a chi ha la grazia d'incontrarlo.
Come?
Questo bisogna scoprirlo da soli.
Di certo un utile indizio è dato dalla sua totale incapacità di autoincensarsi, dal suo rifiuto di ogni titolo quale esso sia, dalla sua completa accettazione di ciò che c'è.


una del gruppo
Grazie della condivisione.

Mauro
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Re: Seva e xuto, considerazioni.

Messaggio da Mauro » 18/05/2017, 8:46

riflettevo fra me e me sulla tua encomiabile compostezza ed educazione, rimasta quasi sempre tale negli anni anche in presenza dei più gratuiti attacchi.
1). "anni". Da quanti "anni" latriplice è iscritto in questo forum che ha qualche mese di vita?
2). "gratuito". È un'inferenza condita da giudizio, un punto di vista, ad esser buoni. Ciò che per te è "gratuito" per me può essere "motivato".
3). "attacchi". Anche questa è un'inferenza condita da giudizio. Quali attacchi? Io ho visto obiezioni alla modalità didattico-dottrinale delle sentenze di latriplice, ed io stesso gliel'ho fatto spesso notare, confortato da messaggi privati di chi mi lodava per questo, condividendo le mie parole, ma rimanendo ovviamente silenti in pubblico.

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cannaminor
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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cannaminor » 20/05/2017, 8:50

Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Tu commetti un errore terminologico che è poi errore sostanziale.
Te lo indico, poi fanne ciò che vuoi.
Ricorrendo al paragone del film proiettato sullo schermo cinematografico sovente utilizzato da Ramana Maharshi, ciò che tu chiami consapevolezza ordinaria non è lo schermo ma la possibilità di essere cosciente del film (molteplicità dei nomi e delle forme) che in questo luogo - condividendo le indicazioni del riferimento - viene chiamata coscienza 'di' per distinguerla dalla consapevolezza.
Si usava e usa ancora distinguere, sempre in termini terminologici, la "coscienza di" dalla "coscienza in sè" o "pura coscienza" o ancora altrimenti detta consapevolezza.
Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Infatti esiste, dicono i Conoscitori, lo schermo, un livello più profondo che possiamo chiamare Consapevolezza, completamente slegato da ogni forma di coscienza, percezione e alterità, da cui emana la tua centralità.

Questo secondo livello - naturalmente usando le parole, il concetto stesso viene tradotto e quindi tradito nella sua essenza - è ciò che viene chiamato il Reale, l'Assoluto non duale, Brahman Nirguna, il Tao che non può essere detto.
Pur essendo ciò che È , sempre presente, inalterabile costante, è inaccessibile alla coscienza ordinaria così come all'ordinaria intelligenza umana.
Parlare di "livelli", di "secondo livello", in riferimento all'assoluto, credo che sia altrettanto errato, da un punto di vista terminologico.
L'assoluto non è un livello, perchè i livelli si distinguono l'un l'altro dai rispettivi limiti e confini, separazioni e alterità, tutte variabili inapplicabili all'assoluto. Ab-solutum senza legami, senza confini, senza relazioni. L'assoluto "sottende" (e già anche questo termine è fuorviante) il relativo il relato, il dipendente-qualificabile da-di, lo sottende nel senso che lo implica pur non essendone implicato.
La relazione, se relazione si può dire è di sola uscita, per un solo verso, uni-verso, dall'assoluto verso il relativo; l'assoluto implica il relativo, ma il relativo non implica l'assoluto. Non è una relazione duale e reciproca come nel mondo relativo dove ogni oggetto è relato ed esistente per duplice relazione, nei due versi, soggetto-oggetto, ovvero il soggetto implica l'oggetto, ma anche l'oggetto implica il soggetto, l'uno non c'è senza l'altro e viceversa. Se cade uno cade anche l'altro, perchè si sussistono-supportano entrambi a vicenda. Invece l'assoluto non dipende e non implica necessariamente un relativo, un "mondo", questo può esserci come no, ma lui resta "sempre presente, inalterabile, costante".
Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Il realizzato non duale, l'illuminato come dici tu, il Conoscitore, non si qualifica come tale perché semplicemente non sa di esserlo.
Mi devi scusare ma anche qui dissento sull'uso dei termini e significato che ne consegue.

Che il Conoscitore non si qualifichi al mondo per tutta una serie di (comprensibili e persino condivisibili) ragioni umane, ci può anche stare, ma che il Conoscitore "non sa di esserlo" questo sarebbe l'equivalente di dire che la consapevolezza non abbia coscienza di sè. Più correttamente sarebbe da dire, sempre per l'equivalenza posta, che (non) abbia coscienza in sè (invece che di sè), il che sarebbe illogico, visto che la consapevolezza è per (una delle possibili) definizione "coscienza in sè".

In un certo senso è il termine sapere ("non sa di esserlo") spesso equiparato all'altro termine conoscere, che crea l'ambiguità.
Sì è portati ad assimilare il sapere al conoscere, e quindi porre la sinomia sapere=conoscere. Se io so una cosa ergo la conosco.
Aristotele diceva che conoscere è essere ("L'anima è tutto ciò che essa conosce" - De Anima), esseità, ma questo, ammesso la veridicità dell'asserzione di Aristotele, non equivale a dire che sapere è essere.
Forse, sempre per restare nei termini e loro uso e significato si potrebbe dire che mentre il sapere è conoscenza di (questo e quello), quindi relativa e di relazione, il conoscere nella sua accezione più autentica è conoscenza in sè, esseità, e quindi essere, consapevolezza.

Quindi secondo me, se c'è proprio una conoscenza di cui il Conoscitore ha assoluta certezza è la conoscenza in sè-consapevolezza di chi e cosa sia, più succintamente di essere. Che poi questo non sia traducibile sui piani umani di relazione e sapere, altro discorso, questo è un nostro limite e ignoranza, del piano che noi viviamo, non suo.

Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Egli si vede umano, limitato, ordinario perché lo è: è anche umano, limitato, ordinario, proprio in questo sta la sua grandezza.
Anche qui, sul fatto che lui si veda "questo e quello" certo possibilissimo anzi è così certamente, ma vedersi questo e quello non vuol dire esserlo.
Io vedo benissimo l'abito che porto, ho coscienza di questo e quello, so e conosco questo e quello, ma non per questo lo sono, anche se ne vivo e accetto i limiti, ruolo, e quant'altro. Vedersi umani e limitati nell'abito e dell'abito che si indossa è proprio nella natura della coscienza, della consapevolezza; vedere lo schermo e ciò che vi scorre sopra, esserne coscienti e sopratutto consapevoli di quella "coscienza di" stessa che vede lo schermo, è appunto prerogativa e natura della consapevolezza, dell'essere consapevoli, il che è un sinonimo in termini, essere-consapevoli.

Lui non è "umano, limitato, ordinario", lui si vede, ne ha coscienza di, essere e vestire quei panni-schermo-film di "umano, limitato, ordinario", ma non lo è in esseità e consapevolezza, lui è pura coscienza, consapevolezza, è quello schermo bianco, libero di (essere come anche non essere) ogni proiezione, film, abito, "umano, limitato, ordinario" si voglia vestire e proiettare su questo piano spazio-temporale del momento. Non c'è nulla di grandioso nell' "umano, limitato, ordinario", nulla, solo e semplicemente tutto di accidentale, necessario, necessitato ed in ultimo mortale.

Cosa c'è di grandioso in qualcosa che non fa tempo a nascere e già sta morendo ed in ultimo, domani, se non prima ancora, muore?
Cosa c'è di grandioso in maya, nel divenire, nel mondo? Un battito di ciglia di brahma...
Pensi davvero che se domani un qualche pazzo di governante schiacci il bottone e ci annienti tutto e tutti col nuclere o altra arma ancora più recente, che d'improvviso non ci sia più alcun umano o essere vivente su questo pianeta a vestire alcun panno o abito di alcun genere, che per questo la consapevolezza, la pura coscienza venga meno o venga meno la sua consapevolezza di sè?

Questo mondo, qualsiasi mondo è un'accidentalità sulla\nella pura coscienza - consapevolezza, nient'altro che questo; un qualcosa che nasce e poi muore, che viene in esistenza e poi in cessazione di esistenza, cosa c'è di grandioso in tutto ciò? Cosa c'è di grandioso nel nascere e poi morire, nel transuente, nel divenire, nel dipendere ed esistenti in funzione e relativi a questo e quello, cosa c'è di grandioso?

Io non la colgo tutta sta grandiosità...solo una necessità esistenziale.

cielo
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Iscritto il: 01/10/2016, 20:34

Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cielo » 20/05/2017, 11:48

cannaminor ha scritto:
20/05/2017, 8:50
Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Tu commetti un errore terminologico che è poi errore sostanziale.
Te lo indico, poi fanne ciò che vuoi.
Ricorrendo al paragone del film proiettato sullo schermo cinematografico sovente utilizzato da Ramana Maharshi, ciò che tu chiami consapevolezza ordinaria non è lo schermo ma la possibilità di essere cosciente del film (molteplicità dei nomi e delle forme) che in questo luogo - condividendo le indicazioni del riferimento - viene chiamata coscienza 'di' per distinguerla dalla consapevolezza.
Si usava e usa ancora distinguere, sempre in termini terminologici, la "coscienza di" dalla "coscienza in sè" o "pura coscienza" o ancora altrimenti detta consapevolezza.
Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Infatti esiste, dicono i Conoscitori, lo schermo, un livello più profondo che possiamo chiamare Consapevolezza, completamente slegato da ogni forma di coscienza, percezione e alterità, da cui emana la tua centralità.

Questo secondo livello - naturalmente usando le parole, il concetto stesso viene tradotto e quindi tradito nella sua essenza - è ciò che viene chiamato il Reale, l'Assoluto non duale, Brahman Nirguna, il Tao che non può essere detto.
Pur essendo ciò che È , sempre presente, inalterabile costante, è inaccessibile alla coscienza ordinaria così come all'ordinaria intelligenza umana.
Parlare di "livelli", di "secondo livello", in riferimento all'assoluto, credo che sia altrettanto errato, da un punto di vista terminologico.
L'assoluto non è un livello, perchè i livelli si distinguono l'un l'altro dai rispettivi limiti e confini, separazioni e alterità, tutte variabili inapplicabili all'assoluto. Ab-solutum senza legami, senza confini, senza relazioni. L'assoluto "sottende" (e già anche questo termine è fuorviante) il relativo il relato, il dipendente-qualificabile da-di, lo sottende nel senso che lo implica pur non essendone implicato.
La relazione, se relazione si può dire è di sola uscita, per un solo verso, uni-verso, dall'assoluto verso il relativo; l'assoluto implica il relativo, ma il relativo non implica l'assoluto. Non è una relazione duale e reciproca come nel mondo relativo dove ogni oggetto è relato ed esistente per duplice relazione, nei due versi, soggetto-oggetto, ovvero il soggetto implica l'oggetto, ma anche l'oggetto implica il soggetto, l'uno non c'è senza l'altro e viceversa. Se cade uno cade anche l'altro, perchè si sussistono-supportano entrambi a vicenda. Invece l'assoluto non dipende e non implica necessariamente un relativo, un "mondo", questo può esserci come no, ma lui resta "sempre presente, inalterabile, costante".
Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Il realizzato non duale, l'illuminato come dici tu, il Conoscitore, non si qualifica come tale perché semplicemente non sa di esserlo.
Mi devi scusare ma anche qui dissento sull'uso dei termini e significato che ne consegue.

Che il Conoscitore non si qualifichi al mondo per tutta una serie di (comprensibili e persino condivisibili) ragioni umane, ci può anche stare, ma che il Conoscitore "non sa di esserlo" questo sarebbe l'equivalente di dire che la consapevolezza non abbia coscienza di sè. Più correttamente sarebbe da dire, sempre per l'equivalenza posta, che (non) abbia coscienza in sè (invece che di sè), il che sarebbe illogico, visto che la consapevolezza è per (una delle possibili) definizione "coscienza in sè".

In un certo senso è il termine sapere ("non sa di esserlo") spesso equiparato all'altro termine conoscere, che crea l'ambiguità.
Sì è portati ad assimilare il sapere al conoscere, e quindi porre la sinomia sapere=conoscere. Se io so una cosa ergo la conosco.
Aristotele diceva che conoscere è essere ("L'anima è tutto ciò che essa conosce" - De Anima), esseità, ma questo, ammesso la veridicità dell'asserzione di Aristotele, non equivale a dire che sapere è essere.
Forse, sempre per restare nei termini e loro uso e significato si potrebbe dire che mentre il sapere è conoscenza di (questo e quello), quindi relativa e di relazione, il conoscere nella sua accezione più autentica è conoscenza in sè, esseità, e quindi essere, consapevolezza.

Quindi secondo me, se c'è proprio una conoscenza di cui il Conoscitore ha assoluta certezza è la conoscenza in sè-consapevolezza di chi e cosa sia, più succintamente di essere. Che poi questo non sia traducibile sui piani umani di relazione e sapere, altro discorso, questo è un nostro limite e ignoranza, del piano che noi viviamo, non suo.

Gruppo Vedanta Citra ha scritto: Egli si vede umano, limitato, ordinario perché lo è: è anche umano, limitato, ordinario, proprio in questo sta la sua grandezza.
Anche qui, sul fatto che lui si veda "questo e quello" certo possibilissimo anzi è così certamente, ma vedersi questo e quello non vuol dire esserlo.
Io vedo benissimo l'abito che porto, ho coscienza di questo e quello, so e conosco questo e quello, ma non per questo lo sono, anche se ne vivo e accetto i limiti, ruolo, e quant'altro. Vedersi umani e limitati nell'abito e dell'abito che si indossa è proprio nella natura della coscienza, della consapevolezza; vedere lo schermo e ciò che vi scorre sopra, esserne coscienti e sopratutto consapevoli di quella "coscienza di" stessa che vede lo schermo, è appunto prerogativa e natura della consapevolezza, dell'essere consapevoli, il che è un sinonimo in termini, essere-consapevoli.

Lui non è "umano, limitato, ordinario", lui si vede, ne ha coscienza di, essere e vestire quei panni-schermo-film di "umano, limitato, ordinario", ma non lo è in esseità e consapevolezza, lui è pura coscienza, consapevolezza, è quello schermo bianco, libero di (essere come anche non essere) ogni proiezione, film, abito, "umano, limitato, ordinario" si voglia vestire e proiettare su questo piano spazio-temporale del momento. Non c'è nulla di grandioso nell' "umano, limitato, ordinario", nulla, solo e semplicemente tutto di accidentale, necessario, necessitato ed in ultimo mortale.

Cosa c'è di grandioso in qualcosa che non fa tempo a nascere e già sta morendo ed in ultimo, domani, se non prima ancora, muore?
Cosa c'è di grandioso in maya, nel divenire, nel mondo? Un battito di ciglia di brahma...
Pensi davvero che se domani un qualche pazzo di governante schiacci il bottone e ci annienti tutto e tutti col nuclere o altra arma ancora più recente, che d'improvviso non ci sia più alcun umano o essere vivente su questo pianeta a vestire alcun panno o abito di alcun genere, che per questo la consapevolezza, la pura coscienza venga meno o venga meno la sua consapevolezza di sè?

Questo mondo, qualsiasi mondo è un'accidentalità sulla\nella pura coscienza - consapevolezza, nient'altro che questo; un qualcosa che nasce e poi muore, che viene in esistenza e poi in cessazione di esistenza, cosa c'è di grandioso in tutto ciò? Cosa c'è di grandioso nel nascere e poi morire, nel transuente, nel divenire, nel dipendere ed esistenti in funzione e relativi a questo e quello, cosa c'è di grandioso?

Io non la colgo tutta sta grandiosità...solo una necessità esistenziale.
Noto in me stessa la duttilità della mente che aderisce alle visioni, in questo caso filosofiche.
Leggendo le considerazioni di Una del Gruppo entravo in quella visione e ne coglievo l'aroma, gustavo un buon tè.
Lo stesso è capitato leggendo le obiezioni - riflessioni di Cannaminoṛ La mente è entrata nella visione e ha compreso i rilievi sollevati e pure condiviso le conclusioni raggiunte.
Entrambi hanno offerto una visione personale, ma basata su dei fondamenti condivisi, che è necessaria una trasformazione, un passaggio, tra l'io che afferma e quello che lascia andare la presa sul mondo, quella che il Realizzato sembra trattenere ai nostri occhi, finchè indossa l'abito del nome forma.
Mi è venuto in mente dove si dice che il realizzato indica, con il suo essere nel mondo, uomo tra gli uomini, anagraficamente nato e morto, il Principio e non quelle sfumature che ogni aspirante anziano conosce. E chiaramente quel Principio è Vivente: mai nato, mai morto.
Con la parola anzianità, presumo che si intenda quella acquisità nella pratica dell'atmavicara (al catechismo dell'asilo lo chiamavano esame di coscienza), e conseguenze rettificazione dell'azione nel mondo (dharma), non certo con riferimento alle letture e le sapienze accumulate o ai titoli di merito acquisiti nel mondo di Cesare.
L'anzianità è altro. Forse anzianità nella sofferenza consapevole di indossare un abito che va stretto, che ogni giorno bisogna chiamare all'appello per calcare le orme che mostra la manifestazione in cui ci si sveglia la mattina.
Sto riflettendo su un brano di Premadharma (tratto dal forum pitagorico, ottobre 2008) che dice:
"Quale sia la verità o realizzazione o samadhi che un aspirante o uno yogin raggiunge, egli non vi può aderire, non lo può/deve ricordare, non lo puo' credere.
Un aspirante discepolo nella Tradizione non può mai parlare dal ricordo, dal passato, da una lettura (può ovviamente citare citando) ma solo dal suo presente. E' nel tuo presente che l'altro si riconosce, riconosce l'altro."


Mi chiedevo che cosa volesse dire che non si può parlare da una lettura, ma che si "può ovviamente citare citando", visto che ne abbiamo discusso anche qui sul fatto di riportare semi di riflessione, soprattutto ove finalizzati a esprimere qualcosa che non siamo in grado di esprimere, mentre quelle parole copia incollate cascano a fagiuolo.

citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.

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Fedro
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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da Fedro » 20/05/2017, 12:25

cielo ha scritto:
20/05/2017, 11:48


citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.
Può essere che la tua lettura sia quella giusta;
io invece vi leggevo questo: se citando stiamo aderendo a ciò, non è lo stesso di quando ciò, il citare, è il nostro presente:
ovvero ciò che emerge (quindi il nostro essere) nel mentre che lo stiamo citando.
In questo ambito di presenza-essere che mostriamo, sorge il dialogo con l'altro da ciò che si è (o in cui l'altro si vede, si può riconoscere).
E comunque, rimane il fatto che nell'altro non possiamo che riconoscere noi stessi: l'altro è comunque una relazione con noi stessi,altrimenti abbiamo solo immaginato un altro, immaginato una relazione, una differenza..

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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cannaminor » 20/05/2017, 14:30

cielo ha scritto: Sto riflettendo su un brano di Premadharma (tratto dal forum pitagorico, ottobre 2008) che dice:
"Quale sia la verità o realizzazione o samadhi che un aspirante o uno yogin raggiunge, egli non vi può aderire, non lo può/deve ricordare, non lo puo' credere.
Un aspirante discepolo nella Tradizione non può mai parlare dal ricordo, dal passato, da una lettura (può ovviamente citare citando) ma solo dal suo presente. E' nel tuo presente che l'altro si riconosce, riconosce l'altro."


Mi chiedevo che cosa volesse dire che non si può parlare da una lettura, ma che si "può ovviamente citare citando", visto che ne abbiamo discusso anche qui sul fatto di riportare semi di riflessione, soprattutto ove finalizzati a esprimere qualcosa che non siamo in grado di esprimere, mentre quelle parole copia incollate cascano a fagiuolo.

citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.
Sostenere, come da frase riportata di Premadharma, che un aspirante discepolo nella Tradizione non può mai parlare dal ricordo, dal passato, da una lettura (immagino sempre risalente ad un qual passato), ma solo dal suo presente, inquanto è solo nel piano comune e condiviso del nostro presente, che l'altro ci riconosce, si riconosce.

Al mio sentire, è solo nel presente, nell'ora e adesso, nella testimonianza di ora e adesso, il nostro ora e adesso, dell'istante in cui parliamo, in cui siamo e apriamo il cuore, che c'è una possibilità di condivisione e dialogo col nostro prossimo, altrimenti si sta solo giocando alle figurine, figurine tratte dal passato, dal ricordo, dalle letture varie. Io la intendo e immagino così, il presente siamo noi, ora e adesso, non i nostri ricordi, passati, letture e convinzioni varie, siamo quello che siamo adesso, solo che bisogna avere il coraggio di esserlo, di dirlo e manifestarlo, di aprirsi il cuore e farsi vedere chi e cosa siamo, qualunque cosa questa cosa che chiamiamo "noi" sia.

Citare citando vuol dire (sempre al mio sentire) porre al presente, ora e adesso la citazione, il seme di riflessione che stiamo portando e proponendo, porlo nel presente, nel presente di noi stessi, di noi tutti, ora, qui, con la nostra faccia, col nostro cuore, con la nostra anima e magari perchè no col nostro nome che ci siamo scelti di rappresentare. L'alternativa è continuare a giocarci le figurine delle vasane, a scambiarcele, certezze per convinzioni, solchi per solchi, vasane per vasane, non aggiungendo e non togliendo nulla al nostro passato ma non essendo nè vivendo mai il nostro presente.

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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cielo » 20/05/2017, 14:33

Fedro ha scritto:
20/05/2017, 12:25
cielo ha scritto:
20/05/2017, 11:48


citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.
Può essere che la tua lettura sia quella giusta;
io invece vi leggevo questo: se citando stiamo aderendo a ciò, non è lo stesso di quando ciò, il citare, è il nostro presente:
ovvero ciò che emerge (quindi il nostro essere) nel mentre che lo stiamo citando.
In questo ambito di presenza-essere che mostriamo, sorge il dialogo con l'altro da ciò che si è (o in cui l'altro si vede, si può riconoscere).
E comunque, rimane il fatto che nell'altro non possiamo che riconoscere noi stessi: l'altro è comunque una relazione con noi stessi,altrimenti abbiamo solo immaginato un altro, immaginato una relazione, una differenza..
non so, mi verrebbe da chiederti: se non citavamo il nostro essere non emergeva?
Riconoscere se stessi nell'altro è simbolico perchè nel duale due siamo, e due restiamo.
Nell'accoglienza reciproca le diversità si riconoscono presenti in se stessi, questo sì. Tante finestre per guardare il medesimo panorama.
Ma non so se ci siamo capiti...

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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cielo » 20/05/2017, 14:50

cannaminor ha scritto:
20/05/2017, 14:30
cielo ha scritto: Sto riflettendo su un brano di Premadharma (tratto dal forum pitagorico, ottobre 2008) che dice:
"Quale sia la verità o realizzazione o samadhi che un aspirante o uno yogin raggiunge, egli non vi può aderire, non lo può/deve ricordare, non lo puo' credere.
Un aspirante discepolo nella Tradizione non può mai parlare dal ricordo, dal passato, da una lettura (può ovviamente citare citando) ma solo dal suo presente. E' nel tuo presente che l'altro si riconosce, riconosce l'altro."


Mi chiedevo che cosa volesse dire che non si può parlare da una lettura, ma che si "può ovviamente citare citando", visto che ne abbiamo discusso anche qui sul fatto di riportare semi di riflessione, soprattutto ove finalizzati a esprimere qualcosa che non siamo in grado di esprimere, mentre quelle parole copia incollate cascano a fagiuolo.

citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.
Sostenere, come da frase riportata di Premadharma, che un aspirante discepolo nella Tradizione non può mai parlare dal ricordo, dal passato, da una lettura (immagino sempre risalente ad un qual passato), ma solo dal suo presente, inquanto è solo nel piano comune e condiviso del nostro presente, che l'altro ci riconosce, si riconosce.

Al mio sentire, è solo nel presente, nell'ora e adesso, nella testimonianza di ora e adesso, il nostro ora e adesso, dell'istante in cui parliamo, in cui siamo e apriamo il cuore, che c'è una possibilità di condivisione e dialogo col nostro prossimo, altrimenti si sta solo giocando alle figurine, figurine tratte dal passato, dal ricordo, dalle letture varie. Io la intendo e immagino così, il presente siamo noi, ora e adesso, non i nostri ricordi, passati, letture e convinzioni varie, siamo quello che siamo adesso, solo che bisogna avere il coraggio di esserlo, di dirlo e manifestarlo, di aprirsi il cuore e farsi vedere chi e cosa siamo, qualunque cosa questa cosa che chiamiamo "noi" sia.

Citare citando vuol dire (sempre al mio sentire) porre al presente, ora e adesso la citazione, il seme di riflessione che stiamo portando e proponendo, porlo nel presente, nel presente di noi stessi, di noi tutti, ora, qui, con la nostra faccia, col nostro cuore, con la nostra anima e magari perchè no col nostro nome che ci siamo scelti di rappresentare. L'alternativa è continuare a giocarci le figurine delle vasane, a scambiarcele, certezze per convinzioni, solchi per solchi, vasane per vasane, non aggiungendo e non togliendo nulla al nostro passato ma non essendo nè vivendo mai il nostro presente.
Concordo, anche se scrivere, ancor più che parlare de visu, richiede inevitabilmente una rievocazione, un riassunto del passato in cui ti stavo leggendo e pensavo e che ora ti racconto con le parole, da scegliere con cura nell'immediatezza dell'azione dello scrivente.
Butto sul tavolo una figurina!
La mia, con sullo sfondo il quadretto della citazione. Fermo il film, ti faccio un fotogramma e te lo mando.
Da questo presente ti racconto che oggi ho scoperto di essere molto fortunata nel riuscire a chiudere gli occhi lasciando il mio veicolo grossolano al sicuro sul letto ed aprire le finestre sull'altrove dove tutte le figurine della memoria si confondono e si colgono solo i bagliori autorilucenti di ciò che affiora tra suoni e odori del mondo relativo che corre per conto suo, intorno.
Ieri sera guardavo un ritratto - intervista di Human, un fantastico film di cui ogni tanto incappo in qualche stralcio tv. Era l'intervista a un uomo, un combattente palestinese, mi pare, che diceva che dopo tutte quelle che aveva passato, aveva grosse difficoltà a chiudere gli occhi anche per dormire, che non riusciva perchè i ricordi e la paura, le visioni affioranti dal passato lo spingevano a riaprirli subito.
Conosco, nel mio piccolo, la faccenda, perchè per tre giorni da giovane mamma non riuscivo a chiudere gli occhi dopo uno spaccamento di denti di un figlio trenne causa ginocchiata durante una partita di pallone adulti - bambini. Dopo tre giorni ero disperata, poi ne sono uscita dopo un "attacco di panico" catartico. Come chiudevo gli occhi mi mettevano tra le braccia un bambino quasi svenuto e sanguinante. E' qui, ancora e sempre, ma l'evento, quello ed altri dopo altrettanto "forti", mi permettono ancora di tenere gli occhi chiusi, pur vedendo anche con gli occhi aperti se vado a pescare i solchi e li percorro.
Quel soldato parlava con molta serenità, la sua sadhana era tentare di chiudere gli occhi. Ogni tanto li chiudeva, durante il video per un attimo e poi di nuovo lo sguardo diretto, verso fuori.
Questo per dire che non è facile la tua proposta di sadhana perchè è più facile cercare sostegno nella sruti e nelle parole dei Conoscitori.
Rassicurano e non sempre si trova la forza per essere trasparenti, non si riesce neppure ad essere trasparenti con sè stessi, si trovano autogiustificazioni per deviare dall'"obiettivo". Figurati verso l'esterno.

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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da Fedro » 20/05/2017, 15:02

cielo ha scritto:
20/05/2017, 14:33
Fedro ha scritto:
20/05/2017, 12:25
cielo ha scritto:
20/05/2017, 11:48


citare v. tr. [dal lat. citare «chiamare, invitare», frequent. di ciere «muovere, far venire a sé»].
Dunque chi cita, sta invitando, chiamando l'altro al dialogo.
Deduco che citare citando intende: "citare in prima persona-presente citando qualcun'altro" perchè è nel tuo presente che l'altro ti riconosce, che c'è condivisione e dialogo, che si muove l'altro allo scambio.
Può essere che la tua lettura sia quella giusta;
io invece vi leggevo questo: se citando stiamo aderendo a ciò, non è lo stesso di quando ciò, il citare, è il nostro presente:
ovvero ciò che emerge (quindi il nostro essere) nel mentre che lo stiamo citando.
In questo ambito di presenza-essere che mostriamo, sorge il dialogo con l'altro da ciò che si è (o in cui l'altro si vede, si può riconoscere).
E comunque, rimane il fatto che nell'altro non possiamo che riconoscere noi stessi: l'altro è comunque una relazione con noi stessi,altrimenti abbiamo solo immaginato un altro, immaginato una relazione, una differenza..
non so, mi verrebbe da chiederti: se non citavamo il nostro essere non emergeva?
E dove è stato detto che questa è la condizione?
La condizione è invece il presente che siamo mel mostrarci: tutto deve emergere da questa condizione.

Riconoscere se stessi nell'altro è simbolico perchè nel duale due siamo, e due restiamo.
Nell'accoglienza reciproca le diversità si riconoscono presenti in se stessi, questo sì. Tante finestre per guardare il medesimo panorama.
Ma non so se ci siamo capiti...
Dipende cosa s'intende per essere:
se sta per essente c'è l'abito dell'altro oltre ad uno nostro, ma non vedo come parlare di essere mantenendoci nel duale, per quanto anche in esso si mostri. Il mio o tuo essere è solo percezione della mente che s'identifica col corpo che accompagna.
Vedere nell'altro se stessi è tutt'altro che simbolico: se sei afasico vedi comunque una parte dell'altro e non tutto quello che ti si mostrerebbe. Dunque che vedi oltre ciò che puoi riconoscere come "tuo"?
Quindi, dal punto di vista dell'essere, "crei" ciò che conosci, dunque che già sei (compreso l'altro da te)

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Re: Seva e xuto, considerazioni.ra

Messaggio da cannaminor » 20/05/2017, 17:01

cielo ha scritto: Questo per dire che non è facile la tua proposta di sadhana perchè è più facile cercare sostegno nella sruti e nelle parole dei Conoscitori.
Rassicurano e non sempre si trova la forza per essere trasparenti, non si riesce neppure ad essere trasparenti con sè stessi, si trovano autogiustificazioni per deviare dall'"obiettivo". Figurati verso l'esterno.
La "mia" proposta di sadhana, che poi mia quanto ad originalità lo è per modo di dire, visto che ho antecedenti ben più illustri e autorevoli ad averla proposta, descritta e testimoniata di persona; ad ogni modo quella che dici mia proposta di sadhana è poi, molto alle spicce, la differenza che corre tra il vivere ed il farsi vivere.

Vivere la propria vita all'insegna del supporto, del dipendere sempre e farsi dipendere sempre da qualcosa qualcuno, siano esse parole, testi, maestri e quant'altro, non è a mio vedere vivere ma farsi vivere. Quando tutta la nostra esistenza è all'insegna del rapporto e della relazione, ovvero io di ogni cosa a cominciare da me per primo mi trovo costretto a dire di essere questo e quello, di sentire vedere, provare questo e quello, di credere, sapere, conoscere questo e quello, quando tutto me stesso, in tutti i suoi aspetti e modi trova fondamento nel "questo e quello", nel dipendere da questo e quello, altro da me, io personalmente, il giorno che ci ho posto attenzione e ho riconosciuto in me questa modalità esistenziale, di esistenza proprio, dell'esistere stesso, dipendente da, questo dato-fatto-conoscenza mi ha sconvolto ma anche cambiato e liberato la vita.

Conoscere le proprie catene non ti libera, ma almeno ti da una direzione e consapevolezza che prima non c'era.

Dopo di ciò, non è più questione di scelta e di scegliere alcunchè, quando le catene le hai viste, non te ne puoi più scordare, sono sempre lì presenti e quanto mai vivide nella tua quotidiana esistenza; il neti neti, il non questo non quello (è reale, è me, sono io...) non è più una scelta, un'opzione, una sadhana che decidi e scegli di percorrere, diventa l'unica via e possibilità di vita che ti resta, non ce ne sono altre.

Quando gli occhi si aprono sull'interiorità e ne vedi le catene che la costringono, che ti costingono, non puoi più far finta di nulla, in alcuna maniera.
Ti trovi per forza di cose a dover capire, comprendere quelle catene, dargli realtà o non realtà, e non c'è altra strada per questo che vedere, contemplare, "ma la visione è già tutta un'opera personale di colui ha voluto contemplare".

Contemplare al mio sentire ed esperienza vuol dire questo, fissare l'essere che siamo, il "io sono", il "sono" nudo e crudo di ognuno di noi, e scartare quindi tutto ciò che sono non è, le catene, il non essere. Tolto tutto ciò che non sono resta solo il sono, e quello contemplo e sono.

Parli di trasparenza, ma qui è ben oltre la trasparenza, non è più nemmeno una questione di trasparenza ma di esseità, di essere, di contemplare solo ed unicamente ciò che si è, il sono che si è, ciascuno di noi, scartando di conseguenza il ciò che non sono, che non si è. E quando dico di conseguenza, lo dico davvero in termini temporali e di divenire, perchè se questo è un processo assimilabile e descrivibile nello spazio e tempo del divenire, quindi soggetto a causa ed effetto, la causa è la meditazione, la concentrazione totale e assoluta nel ciò che si è, nel "sono" di ciascuno di noi, mentre lo scartare di conseguenza il ciò che non si è, è appunto una conseguenza, un effetto del primo e non la causa.

In una prima istanza di cammino mi sembrava fosse la causa e l'emergere del "sono" l'effetto dovuto allo scartamento di ciò che non ero, ma ora mi accorgo, che invece è il contrario, il ciò che non sono scivola via e fuori dalla visione di suo, senza un mio intervento decisionale di sorta, semplicemente esce dal campo di visione della contemplazione, restando solo di fatto ciò che sono nel campo di (ciò che) sono. Non c'è una volontà e discernimento nel neti neti, il neti neti è l'effetto di una contemplazione mirata e fissa su ciò che si è.

Io non propongo alcuna trasparenza, spogliazione e confessione di niente e nessuno, io propongo solo siate ciò che siete, abbiatene il coraggio di esserlo e manifestarlo, di testimoniarlo; la trasparenza, la spogliazione, la confessione e quant'altro vi si possa trovare al seguito vengono da loro di loro, come conseguenze ed effetti della prima, non volute, non richieste, non desiderate, ma solo semplicemente quali effetti.

A nessuno è chiesto di spogliarsi in pubblico, si chiede soltanto (con la dovuta cortesia ovviamente e libertà di scelta) siate, scoprite, cercate ciò che siete, e dove altrimenti se non in voi stessi. Se poi di questo cercare e scoprire ne volete lasciare testimonianza pubblica e condivisa con altri ricercatori, questa è una scelta e decisione tutta vostra, ma nessuno chiede nulla quanto a cosa ciò comporti, ma solo la prima di essere voi stessi.

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