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Avadhutagita - Autoconoscenza

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Fedro
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Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 12/05/2021, 11:39

48. Il Sè non diventa certamente puro con lo yoga in otto parti né diventa puro con la distruzione della mente né lo diventa con le istruzioni di un Maestro. Egli stesso è verità e illuminazione.

La purificazione che molte scuole propongono per raggiungere la realizzazione, non modifica o migliora in alcuna maniera il Sè. La realizzazione del Sè non è l'effetto di un cambiamento, di una serie di azioni o artifizi che modifichino qualcosa. Non esiste un Sè che necessiti di purificazione per essere realizzato. Il Sè o atman è ugualmente identico alla Realtà assoluta che pertanto non è migliorabile, modificabile o comunicabile.
Non esistono segreti, incantesimi o mantra che una volta bisbigliati sottovoce da un Maestro diano la realizzazione a chiunque li ascolti o li ripeta; altrimenti sarebbero false tutte le sacre scritture del mondo, poiché ognuna sostiene la propria veracità, ma nessuna ha mai comportato realizzazioni di massa, dopo il loro semplice ascolto o lettura. Ugualmente, dove sono coloro che si sono realizzati attraverso lo yoga o la meditazione? Milioni di persone praticano queste tecniche, seguono dei corsi, pagano degli istruttori, ma quanti di costoro si sono realizzati? E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente, invece di cercare solo riscontri materiali o psichici?

Avadhutagita sutra 48, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)

latriplice
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da latriplice » 12/05/2021, 15:05

Fedro ha scritto:
12/05/2021, 11:39
48. Il Sè non diventa certamente puro con lo yoga in otto parti né diventa puro con la distruzione della mente né lo diventa con le istruzioni di un Maestro. Egli stesso è verità e illuminazione.

La purificazione che molte scuole propongono per raggiungere la realizzazione, non modifica o migliora in alcuna maniera il Sè. La realizzazione del Sè non è l'effetto di un cambiamento, di una serie di azioni o artifizi che modifichino qualcosa. Non esiste un Sè che necessiti di purificazione per essere realizzato. Il Sè o atman è ugualmente identico alla Realtà assoluta che pertanto non è migliorabile, modificabile o comunicabile.
Non esistono segreti, incantesimi o mantra che una volta bisbigliati sottovoce da un Maestro diano la realizzazione a chiunque li ascolti o li ripeta; altrimenti sarebbero false tutte le sacre scritture del mondo, poiché ognuna sostiene la propria veracità, ma nessuna ha mai comportato realizzazioni di massa, dopo il loro semplice ascolto o lettura. Ugualmente, dove sono coloro che si sono realizzati attraverso lo yoga o la meditazione? Milioni di persone praticano queste tecniche, seguono dei corsi, pagano degli istruttori, ma quanti di costoro si sono realizzati? E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente, invece di cercare solo riscontri materiali o psichici?

Avadhutagita sutra 48, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)
"E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente...". Che cosa? l'Atman? Oltre all'Atman non vedo nessun altro candidato sebbene l'ignoranza aspira a diventare tale. L'unica realizzazione di massa che attualmente conosco è quello delle vaccinazioni. :D

cielo
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cielo » 13/05/2021, 9:55

latriplice ha scritto:
12/05/2021, 15:05
Fedro ha scritto:
12/05/2021, 11:39
48. Il Sè non diventa certamente puro con lo yoga in otto parti né diventa puro con la distruzione della mente né lo diventa con le istruzioni di un Maestro. Egli stesso è verità e illuminazione.

La purificazione che molte scuole propongono per raggiungere la realizzazione, non modifica o migliora in alcuna maniera il Sè. La realizzazione del Sè non è l'effetto di un cambiamento, di una serie di azioni o artifizi che modifichino qualcosa. Non esiste un Sè che necessiti di purificazione per essere realizzato. Il Sè o atman è ugualmente identico alla Realtà assoluta che pertanto non è migliorabile, modificabile o comunicabile.
Non esistono segreti, incantesimi o mantra che una volta bisbigliati sottovoce da un Maestro diano la realizzazione a chiunque li ascolti o li ripeta; altrimenti sarebbero false tutte le sacre scritture del mondo, poiché ognuna sostiene la propria veracità, ma nessuna ha mai comportato realizzazioni di massa, dopo il loro semplice ascolto o lettura. Ugualmente, dove sono coloro che si sono realizzati attraverso lo yoga o la meditazione? Milioni di persone praticano queste tecniche, seguono dei corsi, pagano degli istruttori, ma quanti di costoro si sono realizzati? E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente, invece di cercare solo riscontri materiali o psichici?

Avadhutagita sutra 48, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)
"E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente...". Che cosa? l'Atman? Oltre all'Atman non vedo nessun altro candidato sebbene l'ignoranza aspira a diventare tale. L'unica realizzazione di massa che attualmente conosco è quella delle vaccinazioni. :D
Nel mondo di Cesare i fini delle realizzazioni di massa sono altre e specifiche alla tenuta "ordinata" di quel mondo. :)
Nel caso delle vaccinazioni di massa il fine dovrebbe essere quello di preservare i corpi grossolani (di tutti, belli e brutti, giovani e vecchi, bianchi o colorati, ricchi e poveri) e insegnar loro (forse, si spera) a fronteggiare l'imprevisto dell' emergenza pandemica che ha sparigliato il gioco delle carte sui tavoli da gioco di tutto il mondo.

Come si nota, dove la paura dell'infezione di massa ha lasciato il posto alla sicurezza di massa (che se mi infetto forse non morirò) si riprende a giocare sui tavoli da gioco della guerra millenaria, di cui evidentemente non si ha paura, anche se il rischio che si perdano masse di corpi grossolani di "persone con nome forma" è reale, sul piano grossolano, tanto quanto i morti portati via rapidamente dal nemico invisibile del virus.

Spostandoci di mondo e tornando alla "filosofia" e in particolare a quella filosofia metafisica universale unica testimoniata nell'Avadhuta Gita, i tavoli da gioco sono altri e pare che ci giochino in pochi visto che si dice che "il cammino metafisico è riservato solo a "quei pochi" in grado di realizzarlo."
Un tavolo da gioco per giocatori "sui generis"? Quelli che hanno davvero smesso di cercare solo riscontri materiali o psichici e si limitano alla pura testimonianza di sè, senza orpelli, aspettative, proiezione di desideri e speranze...? E chi giudica il giocatore e lo ammette ai tavoli...?

Che significa in grado di realizzarlo? Forse testimonianza di ciò che si è, che pare cosa diversa dallo sfoggio di erudizione o dal numero di japamala dedicati alla realizzazione che si srotolano, o dalle ore dedicate a "guardarsi dentro" meditando soli o nei ritiri...
Lasciare gli abiti mentali per poi lasciare anche quello fisico, prima o poi, attraversando una porta immaginaria verso un mondo nuovo sognato come perfino migliore di questo (l'aldilà). Sognare di un sogno meraviglioso per quel poi, con gli amici e le persone amate che ci aspettano e ci accolgono "dall'altra parte del velo". Un modo come un altro per dare coraggio e consistenza all'"io sono questo e quello" che continuerò ad essere pure senza l'bito del corpo...Consolatario e non reale.
Ma quale aldilà e aldiqua!!! Sempre pezzi di verdura a tocchetti nel brodo dell'Atma. Bisognerebbe imparare a concentrarsi sul brodo e non sul pezzo di carota che sono a bollire nel brodo...

Uno dei tavoli da gioco dedicato è appunto quello dello della "purificazione" che dovrebbe consentirci di poter "tornare al Sè" a ciò che siamo veramente. Tornare e incarnare la sintesi essenziale non duale, quell'unico atma. Provocare un "cambiamento". E invece no, non è così, dice il commento.
Perchè la premessa per tale "purificazione" è proprio quell'assenza di sforzo che si accompagna al non attaccamento alle pratiche, ai sostegni utilizzati, al desiderio che qualcosa ci cambi secondo la nostra visione di "meglio-peggio", prima e dopo, adesso e in futuro.
Perchè qualsiasi sforzo per ottenere "qualcosa che già si è", di per sè distoglie proprio dalla consapevolezza di ciò che si è.
Fare uno sforzo e soprattutto credere che ci sia qualcosa (un mezzo "abile") per ottenere qualcosa che crediamo di non avere è perdersi nell'illusione.
Vedere il dito che indica la Luna (la via) e non guardare la Luna (la meta).

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cannaminor
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cannaminor » 13/05/2021, 10:18

Fedro ha scritto:
12/05/2021, 11:39
48. Il Sè non diventa certamente puro con lo yoga in otto parti né diventa puro con la distruzione della mente né lo diventa con le istruzioni di un Maestro. Egli stesso è verità e illuminazione.

La purificazione che molte scuole propongono per raggiungere la realizzazione, non modifica o migliora in alcuna maniera il Sè. La realizzazione del Sè non è l'effetto di un cambiamento, di una serie di azioni o artifizi che modifichino qualcosa. Non esiste un Sè che necessiti di purificazione per essere realizzato. Il Sè o atman è ugualmente identico alla Realtà assoluta che pertanto non è migliorabile, modificabile o comunicabile.
Non esistono segreti, incantesimi o mantra che una volta bisbigliati sottovoce da un Maestro diano la realizzazione a chiunque li ascolti o li ripeta; altrimenti sarebbero false tutte le sacre scritture del mondo, poiché ognuna sostiene la propria veracità, ma nessuna ha mai comportato realizzazioni di massa, dopo il loro semplice ascolto o lettura. Ugualmente, dove sono coloro che si sono realizzati attraverso lo yoga o la meditazione? Milioni di persone praticano queste tecniche, seguono dei corsi, pagano degli istruttori, ma quanti di costoro si sono realizzati? E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente, invece di cercare solo riscontri materiali o psichici?

Avadhutagita sutra 48, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)
Mi permetto di copiancollare la Presentazione a firma Raphael, dell'Avadhutagita commentata da Bodhananda, da lui stesso definita "una interessante e profonda esposizione della Dottrina Advaita..." Mi sono altresì permesso di riportare in grassetto nella Presentazione sudetta alcuni passaggi a me particolarmente significativi.

PRESENTAZIONE (di Raphael)

Avadhūtagītā, che significa il “Canto del liberato”, è un’opera in otto capitoli attribuita al Saggio Dattātreya. È una interessante e profonda esposizione della Dottrina Advaita che richiama lo spirito delle Upaniṣad e anche dell’Ātmabodha di Śrī Śaṅkarācārya. La stessa parola avadhūta può essere considerata sinonimo di jivanmukta, Liberato in vita, appellativo dato appunto a Dattātreya.
L’esposizione risponde a ciò che si può chiamare jñānavāda, il sentiero della Conoscenza. Conoscenza che verte sulla natura dell’Essere in quanto è e non diviene. È dunque una metafisica che riguarda la Realtà suprema la quale può essere compresa e realizzata con un atto di “immedesimazione coscienziale” perché essa è parte integrante di quello stato di essere che siamo noi stessi a certi livelli. Di qui la Dottrina della Non-dualità; l’ātman, lo Spirito, l’Anima, ecc., sono tanti i nomi che si danno a ciò che realmente siamo, che non è mai nato e mai potrà morire perché è un riflesso coscenziale dell’ātman-brahman supremo (nirguṇa).
Dattātreya infatti si domanda: «Come saluterò l’Essere senza forma, indivisibile, propizio, immutabile che riempie col suo Sé (supremo) questo (universo) e riempie col suo Sé anche il Sé (che siamo noi stessi)?» (Sutra 2)
La Visione Advaita non è né monista, né panteista né ovviamente dualista. Essa trascende qualunque concezione che riguarda la natura (prakṛti), o kóra in termini platonici, e trascende anche il Principio causale che presiede all’intera manifestazione; così sia il Principio causale (Īśvara o l’Essere-Mondo delle Idee di Platone) sia la stessa manifestazione hanno come loro fondamento quel Sé supremo (nirguṇa).
Il Brahman corrisponde all’Uno-Bene di Platone, all’Uno di Plotino e all’Essere di Parmenide e rappresenta lo Schermo su cui si intessono i chiaroscuri dell’intera vita manifesta.
“Tat tvam asi” (Tu sei Quello) è la più alta espressione delle Upaniṣad. L’unico errore che un discepolo può commettere è quello di consentire alla mente empirica (manas) di concettualizzare tale Realtà ponendola di fronte a sé come semplice oggetto creando così una dualità.
Molti parlano del Brahman, pochi sono Brahman. È bene riflettere che l’Ātman è il Grande Silenzio in cui si risolvono tutte le vṛtti di qualunque natura e grado.
Il commento di Bodhānanda è aderente all’unità della Tradizione e dilucida i vari sutra, è indispensabile per un discepolo, soprattutto occidentale, che sia animato dalla profonda consapevolezza di realizzare Quello.

Raphael

ortica
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da ortica » 14/05/2021, 15:31

Fedro ha scritto:
12/05/2021, 11:39
48. Il Sè non diventa certamente puro con lo yoga in otto parti né diventa puro con la distruzione della mente né lo diventa con le istruzioni di un Maestro. Egli stesso è verità e illuminazione.

La purificazione che molte scuole propongono per raggiungere la realizzazione, non modifica o migliora in alcuna maniera il Sè. La realizzazione del Sè non è l'effetto di un cambiamento, di una serie di azioni o artifizi che modifichino qualcosa. Non esiste un Sè che necessiti di purificazione per essere realizzato. Il Sè o atman è ugualmente identico alla Realtà assoluta che pertanto non è migliorabile, modificabile o comunicabile.
Non esistono segreti, incantesimi o mantra che una volta bisbigliati sottovoce da un Maestro diano la realizzazione a chiunque li ascolti o li ripeta; altrimenti sarebbero false tutte le sacre scritture del mondo, poiché ognuna sostiene la propria veracità, ma nessuna ha mai comportato realizzazioni di massa, dopo il loro semplice ascolto o lettura. Ugualmente, dove sono coloro che si sono realizzati attraverso lo yoga o la meditazione? Milioni di persone praticano queste tecniche, seguono dei corsi, pagano degli istruttori, ma quanti di costoro si sono realizzati? E quanti di coloro che lo dichiarano lo sono realmente, invece di cercare solo riscontri materiali o psichici?

Avadhutagita sutra 48, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)


Splendido!


Tuttavia sarebbe utile che allo studio di certe opere si facesse precedere quello della loro introduzione alle stesse, che - come indica la parola stessa - prepara all'accesso, allo scopo di evitare perniciosi equivoci e di non cadere in dispersive illusioni.

Seguono alcuni passaggi chiarificatori dell'introduzione di Bodhananda all'Avadhutagita, benché si sottolinei l'opportunità di leggerla tutta.

Dopo aver evidenziato "la difficoltà del cammino filosofico nonché l'esclusività di quello metafisico, riservato solo a quei pochi in grado di realizzarlo" Bodhananda prosegue domandandosi e domandandoci quale sia "l'ordine di grandezza da attribuire al termine pochi" e risponde: "per avere una dimensione di quei pochi, si consideri che gli ultimi due secoli hanno visto ben pochi esseri unanimemente riconosciuti come Conoscitori o avadhuta. Sri Ramana Maharshi e Sri Ramakrishna sono gli unici su cui è possibile trovare una vasta confluenza di pareri positivi, non considerando nel novero i sogli shankariani. Sugli altri, seppur famosi, non c'è unanimità, ma, anche volendo considerare tutti costoro, il loro numero non supererà le dita di due mani, ad essere ottimisti.
Ecco, forse, determinata l'ampiezza di quei pochi, un'ampiezza con cui ogni aspirante dovrebbe confrontarsi nella scelta del proprio percorso spirituale"

Successivamente Bodhananda continua testimoniando che: "L'Avadhutagita è quasi una provocazione per quegli aspiranti che cercano una guida per l'autorealizzazio: distrugge l'adesione ad ogni possibile pratica perché inutile ai fini della realizzazione del Brahman o Realtà assoluta.
E' un avviso per coloro che, novelli Icaro, vorrebbero raggiungere il sole con ali di cera; serve a coloro che superano i rudimenti del filosofare (l'equilibrio dell'essente all'interno del molteplice); serve a comprendere che la via asparsa di Gaudapada, quella advaita di Shankara, o la via della non generazione (ajati-vada) sono pratiche il cui uso appartiene veramente ai pochi che ne hanno lasciato testimonianza, "quei" pochi. Una testimonianza metafisica in cui non credere, di cui non abusare, ma da conoscere, perché è possibile che si sia fra quei pochi, essendo la Non-dualità la trascendenza del molteplice e dello stesso intellegibile religioso e filosofico: pertanto possibilità accessibile ad ogni ente.
...
Dopo aver sinteticamente quanto limpidamente delucidato le diverse vie proposte dal Vedanta, ovvero karma-yoga, bhakti-yoga e jnana-yoga, Bodhananda scrive: "Il punto è che, se si considera l'essere individuato, non è nelle sue possibilità determinare alcuna realizzazione, se si considera invece l'essere in sé che esso è e non diviene, allora non esiste più alcuna realizzazione, perché non è certo da realizzare ciò che già si è in sé. Considerando il secondo caso dal punto di vista del primo, ecco prendere forma e corpo, non solo la realizzazione, ma anche tutta una serie di modalità per cercare di determinarla.
Vediamo così che, se in realtà, non solo non è possibile causare la realizzazione, ma essa stessa è non esistente; dal punto di vista di questi piani di esistenza, essa non solo esiste, ma è determinabile, anche se questo non è assolutamente vero.
Si consideri che il paradosso appena espresso è determinato dal muoversi sul confine fra il molteplice e il reale, un confine che esiste in termini di linguaggio e di definizione, ma che non esiste in termini di essenza che noi siamo. Questa forzatura determina il paradosso di non causalità (akarma) nella (sfera) metafisica e di causalità (karma) nel [mondo] fisico. Ovviamente il paradosso è tale solo nell'ambito della causalità.
Dattatreya sottolinea questo paradosso portandolo in evidenza: nessuna via può portare al Sè, ma se non si percorrono queste vie non si può arrivare al Sè.
Per uscire dall'impasse occorre accettare che la via prospettata da questo Avadhuta sia percorribile se, e solo se, si è portata interamente a compimento una delle altre; è là, in prossimità dell'universale, del Divino, che saremo sulla linea di confine fra il molteplice e il permanente e, pertanto, là inizierà il cammino-che-qui-non-esiste".




Che aggiungere?

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cannaminor » 14/05/2021, 16:29

2. Come saluterò l’Essere senza forma, indivisibile, propizio e immutabile che riempie col suo Sé tutto questo e anche il sé con il suo Sé?

L’insegnamento tradizionale non appartiene ad alcuno, non essendo il prodotto di uno o più intelletti; è la semplice e incontrovertibile testimonianza di una conoscenza propria della Realtà assoluta, che ognuno può cogliere attraverso un processo realizzativo di consapevolezza. L’insegnamento di un Filosofo tradizionale o Conoscitore è una semplice testimonianza di sé stesso, senza alcuna speculazione, interpretazione o inferenza, è non duale. Egli testimonia sé stesso, un Sé privo di connotazioni individuate; è per questo che Dattātreya, in luogo di porgere il saluto (1), si interroga sul come porgerlo. Dattātreya è considerato un avatāra di Viṣṇu, per gli Indù un’incarnazione del Principio divino di preservazione. Il Divino, secondo la tradizione non duale, è l’espressione della Realtà assoluta e, attraverso la sua Grazia, l’aspirante prende coscienza del proprio stato di indigenza e ignoranza metafisica (avidyā).

«Se lo pensi come Intelligenza o Dio, egli [l’Assoluto] è da più.»(2)

L’avadhuta è uno sthitaprajñā, colui che ha realizzato stabilmente la pienezza del Sé, pertanto può considerare solo lo stesso Assoluto come Maestro, ma Quello non può essere adorato né ringraziato.

58. Non c’è necessità di conoscenza, ragionamento, samādhi, spazio, tempo e insegnamento di Maestro. Io sono naturalmente Conoscenza perfetta, Realtà come il cielo, spontanea e stabile.

La consapevolezza della Realtà non può essere desunta dall’istruzione di un Maestro o dallo stesso insegnamento tradizionale o upadeśa, questi sono solo ausili che indirizzano l’aspirante verso l’autoconoscenza, che può essere solo diretta e non mediata dalla mente, da uno scritto, da un Maestro. La verità non è una nozione acquisibile da qualche parte, né può essere un possesso o una proprietà, una congettura, la creazione di una mente.
Accade talvolta che l’ente che abbia esperito per identità lo stato supremo, non ne abbia coscienza. Il suo stato è così elevato che la mente, ricondotta alla semplice funzione di strumento, non può concepirlo nemmeno. Così può succedere che un ente abbia conseguito la realizzazione non duale e non lo sappia. Egli non sa che lo stato che vive come essere è quanto viene chiamato dalla tradizione come Suprema Realtà o Sé. Non avendo più percezione di divisione, vive l’intera manifestazione come realtà e quindi non concepisce una non-conoscenza diretta, una divisione. Essendo conoscenza lui stesso, non può concepire l’ignoranza ma nemmeno la conoscenza. Alcuni sostengono che questo implichi la coesistenza insieme di ignoranza e conoscenza, e così sarebbe se la conoscenza fosse indiretta, ossia se fosse conoscenza di qualcosa, ma così non è perché la conoscenza della Realtà assoluta è di identità, come l’aria in un vaso che, essendo contenuta, può conoscersi indirettamente attraverso la percezione del vaso e, rotto il vaso, potrà conoscersi solo per identità, avendo perso la limitazione, ma allora non si potrà più parlare di ignoranza o conoscenza.

«Il conoscitore della Realtà assoluta (Brahman), diviene Realtà assoluta (Brahman).»(3)

La sofferenza della mente, di fronte al dissolvimento della separazione, ha portato qualche aspirante ad individuare in essa il nemico da sconfiggere. Molti interpretano le esortazioni tradizionali a controllarla, come se essa potesse essere controllata direttamente dall’ente. Questo è impossibile perché il mezzo attraverso cui effettuare il controllo è la mente stessa. La mente è il movimento dei pensieri e non si può imporre la quiete dove è il movimento. Ogni movimento, se non alimentato, è destinato all’immobilità, una volta esaurita l’inerzia; così la tradizione indirizza proprio a questo, a sospendere l’alimentazione del movimento stesso; affinché, non più alimentata, la mente possa essere ricondotta al suo stato naturale di quiete. Solo da questo punto di vista, possiamo considerare la mente lo strumento attraverso cui è possibile la realizzazione.

«Le anime individuali si servono del loro impulso intellettuale nel ritornare all’essere dal quale ebbero origine.»(4)

1 Kaṭha Upaniṣad, 1.2.12.
2 Plotino, Enneiadi, VI, 9, 6
3 Muṇḍaka Upaniṣad 3.2.9.
4 Plotino, Enneiadi, IV, 8, 4.

Avadhutagita sutra 2 e 58, cap. I
con commento di Bodhananda. (Edizioni I Pitagorici)

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cannaminor » 14/05/2021, 17:48

ortica ha scritto:
14/05/2021, 15:31
Tuttavia sarebbe utile che allo studio di certe opere si facesse precedere quello della loro introduzione alle stesse, che - come indica la parola stessa - prepara all'accesso, allo scopo di evitare perniciosi equivoci e di non cadere in dispersive illusioni.

Dipende come lo leggi e come lo interpreti: dispersive illusione è anche quella di continuare a credersi ostinatamente individuo e individualità, destinata per sempre a percorrere il samsara in un divenire senza fine. Pernicioso è fare sempre di ogni lettura (sacra o meno che sia) concettualizzazione mentale atta a mantenere i confini e le mura alte dell’ ”io”, a continuare a volerlo ribadire e consolidare quasi a tema che possa sparire, annichilirsi. Meglio, molto meglio restare nel gregge nel mucchio vasto e molteplice che pascola i verdi prati del divenire, giorno dopo giorno, che tentare mai di poter anche solo pensare di essere uno\una dei pochi che realizzano-sono (l’) essere.

Sì, i jivamukta autentici, gli sthitaprajna gli avadhuta sono pochi, pochissimi si contano su una mano, tutto vero, ma perché allora vien da chiedersi, perché ci sono noti, perché si sono resi noti? Perché un Dattareya, cui viene attribuita l’Avadhuta gita, scritta per chi? per quei quattro o cinque pari suoi? Cos’è l’Avaduthagita l’hanno forse copiaincollata da un chat privata per pochi eletti che si capivano e comprendevano solo tra di loro, che non cadevano in perniciosi equivoci e dispersive illusioni?

Forse che, invece, un’Avadhutagita “non va oltre questo limite, di additare cioè, la via e il viaggio ma la visione è già tutta un'opera personale di colui che ha voluto contemplare" ?

Come riportato nella presentazione di Raphael alla stessa Avadhutagita commentata da Bodhananda si diceva (tra l’altro): «Tat tvam asi” (Tu sei Quello) è la più alta espressione delle Upaniṣad. L’unico errore che un discepolo può commettere è quello di consentire alla mente empirica (manas) di concettualizzare tale Realtà ponendola di fronte a sé come semplice oggetto creando così una dualità.»

Mi ripeto, non so se sia l’unico, ma certo è un errore di base, di metodo e pure di pratica.

L’Avadhutagita, così come altri scritti metafisici, sono a dare un’indicazione di cammino, di percorso, di pratica e metodo operativo; sono dei fari per i naviganti dei mari del divenire e samsara.
Ci si dirige “verso di là” verso quella direzione così come ci viene testimoniata da coloro (quei pochi) che vi sono stabilmente giunti. Nessuno ha mai detto che il viaggio debba avere un tempo, né che terminato di leggere l’Avadhuta (o testo simile) e chiuso il libro tra le mani si sia giunti e “arrivati” là dove il libro ci indica di dirigerci.

«La consapevolezza della Realtà non può essere desunta dall’istruzione di un Maestro o dallo stesso insegnamento tradizionale o upadeśa, questi sono solo ausili che indirizzano l’aspirante verso l’autoconoscenza, che può essere solo diretta e non mediata dalla mente, da uno scritto, da un Maestro. La verità non è una nozione acquisibile da qualche parte, né può essere un possesso o una proprietà, una congettura, la creazione di una mente.»

La tradizione ci offre innumerevoli fari, innumerevoli indicatori di direzione, e non ce li offre per il pasto della mente, per farne concettualizzazione e\o erudizione; ce li offre perché li usiamo, ma non mentalmente, quale pasto appunto, ma facendo uso di quella parte più alta ed elevata dell’intelletto umano, la buddhi, l’intuizione superconscia.
“L’autoconoscenza può solo essere diretta, e non mediata dalla mente”.
E le indicazioni che i vari testi ci danno da sempre sono univoci in tal senso, non è con la mente che si è, non è col mentale e col manas che si realizza l’esseità che si è. Non è pensando e riflettendo (mentalmente) su un testo che lo si comprende e sopratutto lo si realizza per le indicazioni che da, non funziona così.

«La sofferenza della mente, di fronte al dissolvimento della separazione, ha portato qualche aspirante ad individuare in essa il nemico da sconfiggere. Molti interpretano le esortazioni tradizionali a controllarla, come se essa potesse essere controllata direttamente dall’ente. Questo è impossibile perché il mezzo attraverso cui effettuare il controllo è la mente stessa. La mente è il movimento dei pensieri e non si può imporre la quiete dove è il movimento. Ogni movimento, se non alimentato, è destinato all’immobilità, una volta esaurita l’inerzia; così la tradizione indirizza proprio a questo, a sospendere l’alimentazione del movimento stesso; affinché, non più alimentata, la mente possa essere ricondotta al suo stato naturale di quiete. Solo da questo punto di vista, possiamo considerare la mente lo strumento attraverso cui è possibile la realizzazione.»

È stato detto in tutte le lingue e tutte le salse, eppure...si continua a leggere altro da ciò che scritto, pur di restare nello status quo, pur di continuare a vivere ed esistere nel\del movimento mentale che ci caratterizza e definisce tali, individui pensanti. Siamo ciò che pensiamo (di essere) e ce ne guardiamo bene di smettere di pensarlo, perché a noi significa morte, fine dell’esistere ed esistenza.

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 14/05/2021, 19:22

cannaminor ha scritto:
14/05/2021, 17:48
si continua a leggere altro da ciò che scritto, pur di restare nello status quo, pur di continuare a vivere ed esistere nel\del movimento mentale che ci caratterizza e definisce tali, individui pensanti. Siamo ciò che pensiamo (di essere) e ce ne guardiamo bene di smettere di pensarlo, perché a noi significa morte, fine dell’esistere ed esistenza.
Se per un solo attimo smetto di (credere di) essere un pensiero che mi identifica in una parzialità immaginata chiamata "io", propaggine illusoriadi quello strumento utile a funzioni ordinarie e pratiche (manas), che, oltre a: valutare, calcolare, immaginare si presta ad altri usi supplementari ma non utili come il giudicare, nel ventaglio di tutte l possibili variabili (condannare,svalutare, paragonare, esaltare, misurare) e ancora: trattenere, emulare, rimuovere ecc.
se per un attimo smetto di crederci, dicevo (perchè cosi evidentememte si vuole che sia, come la famosa pera che cade dal ramo perchè matura)
allora ciò che può accadere non è nè immaginabile, nè desiderabile, poichè significherebbe portare alla morte stessa ciò che lo sta desiderando e immaginando (visto che non posso immaginare nè pensare il Sè/ l'essere che si è.)
E' quindi trattenendomi in quest'idea, da cui non poter uscire nel frattempo, in un circolo vizioso,
che creo quella stessa sofferenza che tiene in piedi l'allucinazione del processo di questo "me".

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da ortica » 15/05/2021, 1:28

Uno su mille ce la fa


Nel caso specifico più o meno uno su un miliardo, ma tant’è, perché non pensare si possa essere “noi”?


🥳

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Fedro
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 15/05/2021, 3:54

ortica ha scritto:
15/05/2021, 1:28
Uno su mille ce la fa


Nel caso specifico più o meno uno su un miliardo, ma tant’è, perché non pensare si possa essere “noi”?


🥳
E quindi? A chi importa?
All'io che non vuole morire credendo pure un domani di realizzarsi?

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cannaminor
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cannaminor » 15/05/2021, 8:09

ortica ha scritto:
15/05/2021, 1:28
Uno su mille ce la fa


Nel caso specifico più o meno uno su un miliardo, ma tant’è, perché non pensare si possa essere “noi”?


🥳
Ma infatti il discorso (tradizione, magistero, Avadhutagita etc) non verte, né è indirizzato a chi ce l’ha già fatta, ma a chi si vuole indirizzare in tal senso, verso quella direzione, l’autoconoscenza.

«La consapevolezza della Realtà non può essere desunta dall’istruzione di un Maestro o dallo stesso insegnamento tradizionale o upadeśa, questi sono solo ausili che indirizzano l’aspirante verso l’autoconoscenza, che può essere solo diretta e non mediata dalla mente, da uno scritto, da un Maestro. La verità non è una nozione acquisibile da qualche parte, né può essere un possesso o una proprietà, una congettura, la creazione di una mente.»

Il magistero non va oltre questo limite, di additare cioè, la via e il viaggio….si addita una via, non si consegna né si promette di consegnare la “realizzazione chiavi in mano” dopo una prima lettura, chiuso il libro tra le mani (anche se in teoria, ad uno su un miliardo può anche capitare). Viene indicata una direzione per mezzo cui (“processo realizzativo di consapevolezza”) giungere ad una certa meta, ad una certa condizione, “stato coscienziale”. Dare una direzione, additare una via, non implica dare anche un tempo e nemmeno uno spazio di conseguimento la via stessa, significa solo additare la via ed il viaggio, donare-testimoniare un’ausilio che indirizzi l’aspirante verso l’autoconoscenza.

«L’insegnamento tradizionale non appartiene ad alcuno, non essendo il prodotto di uno o più intelletti; è la semplice e incontrovertibile testimonianza di una conoscenza propria della Realtà assoluta, che ognuno può cogliere attraverso un processo realizzativo di consapevolezza. L’insegnamento di un Filosofo tradizionale o Conoscitore è una semplice testimonianza di sé stesso, senza alcuna speculazione, interpretazione o inferenza, è non duale.»

Il discorso mente, mentale etc mi pare possa trovare esauriente chiarimento (circa il suo uso o non uso, utilità etc) nel breve brano riportato a seguire.

«La sofferenza della mente, di fronte al dissolvimento della separazione, ha portato qualche aspirante ad individuare in essa il nemico da sconfiggere. Molti interpretano le esortazioni tradizionali a controllarla, come se essa potesse essere controllata direttamente dall’ente. Questo è impossibile perché il mezzo attraverso cui effettuare il controllo è la mente stessa. La mente è il movimento dei pensieri e non si può imporre la quiete dove è il movimento. Ogni movimento, se non alimentato, è destinato all’immobilità, una volta esaurita l’inerzia; così la tradizione indirizza proprio a questo, a sospendere l’alimentazione del movimento stesso; affinché, non più alimentata, la mente possa essere ricondotta al suo stato naturale di quiete. Solo da questo punto di vista, possiamo considerare la mente lo strumento attraverso cui è possibile la realizzazione.»

Molti usano dire, al seguito della lettura di un testo tradizionale, o di brani particolarmente significativi della tradizione e testimoni tradizionali, che ci mediteranno sopra, che ci rifletteranno sopra, che quasi a forma di mantra li leggeranno e rileggeranno, come se fosse una cosa che debba scolpirsi nella mente.

La tradizione afferma in ogni dove (a cominciare dalle upanisad stesse) che la mente è motivo della prigionia ma altresì della liberazione.

172. Il vento (vayu) ammassa le nuvole e lo stesso vento le disperde (aniyate meghah punastenaiva niyate), così la mente immagina la schiavitù (manasa kalpyate bandho), ma immagina anche la liberazione (moksa). (Vivekacudamani, Raphael, Ed. Asram Vidya)

"Ecco cosa pensano i Saggi: il mentale è la causa della schiavitù e della Liberazione. La mente, identificata agli oggetti-sogni sensoriali, conduce alla schiavitù. Quando ritorna in se stessa porta alla Liberazione".(Amrtabindopanisad: II)

“Molti interpretano le esortazioni tradizionali a controllarla, come se essa potesse essere controllata direttamente dall’ente. Questo è impossibile perché il mezzo attraverso cui effettuare il controllo è la mente stessa.”

“La mente è il movimento dei pensieri e non si può imporre la quiete dove è il movimento.”

Come dire e come usava dire Raphael, non è camminando che ci si ferma, o non è parlando che si tace. Quindi tutte quelle buone intenzioni di “riflettere”, “ponderare”, “etc etc”, “bla bla bla” non trovano senso e logica in termini vedanta. Non è pensando che si smette di pensare, “così la tradizione indirizza proprio a questo, a sospendere l’alimentazione del movimento stesso; affinché, non più alimentata, la mente possa essere ricondotta al suo stato naturale di quiete. Solo da questo punto di vista, possiamo considerare la mente lo strumento attraverso cui è possibile la realizzazione”

È lo stesso identico discorso relativo alla meditazione:

"Fare la meditazione (zazen) non serve a niente. E finchè non si impara a fare
la meditazione che non serve a niente, non serve a niente fare la meditazione".

Parafrasandolo al pensiero si potrebbe dire: pensare di smettere di pensare non serve a niente. E finché non si impara a ricondurre la mente al suo stato naturale di quiete (non-movimento mentale) non serve a niente pensare di smettere di pensare.

Non è per il tramite del pensiero-pensare che si ottiene la quiete mentale.
Non è pensando di non-pensare che si smette di pensare.
Non è camminando che ci si ferma.
Non è parlando che si tace.

In denominatore comune di tutte queste affermazioni è che la cessazione del movimento (sia esso mentale o altro) avviene e può avvenire solo per disalimentazione dello stesso. Detto più brutalmente per fame, per inedia.

È solo da una condizione di quiete (mentale e non), di silenzio, di fermo e centralità che si può innescare una visione diretta, la contemplazione, la realizzazione etc etc che realizza appunto per identità l’essere che la tradizione, i testi, i conoscitori-viventi ci additano e indicano di guardare.

Non è pensando e continuando a pensare il “dito”, l’indicatore, invece che a ciò cui addita e rimanda, che si potrà mai Essere per identità diretta (l’unica possibile) Quello.

Tu sei Quello, indica il dito, e tutti a guardare tu e stare nel tu, e vita dopo vita, vivere nel tu.

La tradizione addita, indica, direziona, non ti consegna in mano nulla di nulla di ciò che sta a te realizzare ed essere; non può e non potrà mai farlo, né mai l’ha fatto. E chi crede di averlo ricevuto, appunto lo “crede”, lo pensa….

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cielo » 15/05/2021, 8:13

ortica ha scritto:
15/05/2021, 1:28
Uno su mille ce la fa


Nel caso specifico più o meno uno su un miliardo, ma tant’è, perché non pensare si possa essere “noi”?


🥳
Chi ha pensato o detto di essere "noi" che la citiamo o leggiamo tra quei pochi?
Sui pensieri altrui non saprei (preferisco non immaginarmeli), sull'aver letto affermazioni tali in merito, io non ne ho lette.
Commentare non è affermare di aver compreso e tantomeno realizzato quanto letto, ma solo lo specchio di un'istanza personale interiore a condividere con altri "parenti" del consesso filosofico-forum uno scritto che ci risuona come indicatore della meta.
Una segnaletica per chi percorre con i propri passi incerti la via proposta dalla filosofia metafisica universale e unica (come la chiamava Bodhananda, correggendomi se saltavo un attributo).

Accostarsi con umiltà e apertura a un testo come l'Avadhuta non implica per forza di cose che ci si senta in grado di prima comprendere e poi realizzare quell'istruzione, anche se non guasteresse provarci e rifletterci su, magari proprio per capire che allo stato attuale, in questo istante, si riflette sui sutra dell'Avadhuta e contestualmente si vede e si patisce la propria paura interiore connessa all'identificazione che permane.
Così la mano invece che aprirsi e lasciare andare le concettualizzazioni "filosofiche" credute comprese e cristallizzate, si stringe ancora per trattenere il proprio "qualcosa".

L'antinomia dell'individuo deriva da una "insoddisfazione di essere" (quello che si è), da un'irrequietezza che lo spinge a cercare lungo sentieri che sono ulteriori prigioni concettuali ove non compresi e realizzati.
L'avadhuta gita propone essenzialmente all'aspirante il percorso di autoconoscenza per uscire dai gorghi del fiume della dualità conflittuale, difatti curiosamente ci sono addirittura due capitoli (II e III) dedicati ad approfondire l'autoconoscenza, ed è costante la domanda dell'avadhuta all'aspirante: "Perchè piangi o mente?" .

Come si dice: "Non puoi ottenerlo (il sè) pensandolo, non puoi ottenerlo non pensandolo".
La mente deve smetterla di servire il principio dell'ego che non è la Verità in quanto non è privo di qualità e si sente differenziato e non è "natura omogenea come il cielo", ed è soggetto all'indagine, all'interrogazione e al dubbio sulla propria "vera natura".

Per me l'avadhuta è il libro che mi accompagna da sempre. Al mio primo incontro (fisico) con Bodhananda ci siamo messi subito a parlare del libro (da poco pubblicato) e gli mostrai dove secondo me c'era una nota a piè pagina "sbagliata", che tale non era, e che Bo con estrema gentilezza e pazienza mi spiegò.
Ero entusiasta del libro che per me era "bellissimo" e "chiarissimo" e lui sorridendo mi rispose: "Sono contento e dire che tanti aspiranti anche avanzati nello studio del vedanta che l'hanno letto mi hanno detto che non si capisce niente di quel libro".

Lo leggo sia quando "sto bene" che quando "sto male", me lo porto dietro nei viaggi.
Mi fa vedere ogni volta come mi stringo da sola le catene, i limiti, le costrizioni, le necessità, identificandomi nel personaggio che sto recitando sui vari palcoscenici del mondo. Perchè piangi o mente? risuona sempre in me e ogni volta cerco di dare a me stessa una risposta appropriata, lasciando perdere le lamentazioni continue della mente su quello che accade, su quello che hanno detto o fatto gli altri, e via discorrendo.

Se la "liberazione" poggia sulla rottura di tutte queste catene, l'essenza dell'essere poggia sulla libertà di scelta (di autoconoscenza e autoconsapevolezza) che implica la comprensione preliminare di muoversi in una certa condizione coscienziale ancora conflittuale.

ortica
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da ortica » 17/05/2021, 15:28

cannaminor ha scritto:
14/05/2021, 17:48
ortica ha scritto:
14/05/2021, 15:31
Tuttavia sarebbe utile che allo studio di certe opere si facesse precedere quello della loro introduzione alle stesse, che - come indica la parola stessa - prepara all'accesso, allo scopo di evitare perniciosi equivoci e di non cadere in dispersive illusioni.

Dipende come lo leggi e come lo interpreti: dispersive illusione è anche quella di continuare a credersi ostinatamente individuo e individualità, destinata per sempre a percorrere il samsara in un divenire senza fine. Pernicioso è fare sempre di ogni lettura (sacra o meno che sia) concettualizzazione mentale atta a mantenere i confini e le mura alte dell’ ”io”, a continuare a volerlo ribadire e consolidare quasi a tema che possa sparire, annichilirsi. Meglio, molto meglio restare nel gregge nel mucchio vasto e molteplice che pascola i verdi prati del divenire, giorno dopo giorno, che tentare mai di poter anche solo pensare di essere uno\una dei pochi che realizzano-sono (l’) essere.

Certamente, ogni credenza e ogni concettualizzazione sono soltanto dispersive illusioni che producono perniciosi equivoci.


Sì, i jivamukta autentici, gli sthitaprajna gli avadhuta sono pochi, pochissimi si contano su una mano, tutto vero, ma perché allora vien da chiedersi, perché ci sono noti, perché si sono resi noti? Perché un Dattareya, cui viene attribuita l’Avadhuta gita, scritta per chi? per quei quattro o cinque pari suoi? Cos’è l’Avaduthagita l’hanno forse copiaincollata da un chat privata per pochi eletti che si capivano e comprendevano solo tra di loro, che non cadevano in perniciosi equivoci e dispersive illusioni?

perché si tratta di "una testimonianza metafisica in cui non credere, di cui non abusare, ma da conoscere, perché è possibile che si sia fra quei pochi, essendo la Non-dualità la trascendenza del molteplice e dello stesso intellegibile religioso e filosofico: pertanto possibilità accessibile ad ogni ente" (Bodhananda).


Inoltre, ma questa è una semplice esperienza personale, la conoscenza di questa testimonianza può apportare, proprio qui in questa vita, gioia profonda, serenità completa ed appagata, causata talvolta da qualche lampo di luce che arriva a squarciare l'oscurità e, comunque, dal semplice fatto che questa possibilità esiste e, se non sarà a questo giro di giostra, sarà al prossimo o a quell'altro ancora, ma comunque accadrà perché è già presente, anzi è l'unico presente, tutto ciò che è, anche se "io" ancora non riesco a vederlo, ad esserlo, perché troppe sono le sovrapposizioni che velano la Realtà.
Tutti noi siamo alla ricerca di un senso, di un significato da attribuire alla nostra esistenza in questo talquando, la conoscenza tradizionale rivela questo senso, oltre ogni illusione.
Ognuno lo cerca a modo suo, ma non l'ho trovato mai altrove, pur avendolo cercato dappertutto, neppure nei più sublimi vertici artistici, nelle meraviglie della natura, fra lo splendore delle stelle o nelle più ardite costruzioni filosofiche.
Senso che è proprio qui ed è sempre stato qui, "più vicino della vena giugulare", nella grotta del cuore.

Il che non significa che non vi sia niente da fare, nel frattempo, perché tanto si è già Quello.
Se ci sono cispe negli occhi il sole risplende ugualmente sul santo e sull'assassino, solo che l'occhio cisposo non lo vede.
I modi per rimuovere le cispe sono tanti quante sono le caratteristiche degli aspiranti alla visione del sole e nessuno è migliore degli altri.


***

D. Lei afferma che non occorre alcuno sforzo per realizzare il Sé.
R. Come può ciò che è l’Assoluto incausato essere determinato da altro? Esso non ha alcuna relazione con qualsiasi causa. Se lei chiude gli occhi, non sta cancellando il sole e quando li riapre non lo sta ricreando. Il sole è a prescindere da lei e da quello che lei può fare. Non deve fare nessuna fatica per vedere il sole, non è lei a crearlo. Ma se lei non ha alcuna intenzione di aprire gli occhi è chiaro che il sole non lo può vedere. Tutto lo “sforzo” è nel convincersi ad aprire gli occhi, ma se lei ha altro da immaginare, da sognare, etc. etc. ecco che prima di aprire gli occhi vorrà soddisfare i suoi desideri di altro. La realizzazione non duale del Sé, per come testimoniata dalla tradizione advaita, è la stessa cosa. La dualità fa sì che nell’ente ci siano contrapposizioni, da un lato si desidera l’assolutezza del sommo bene, dall’altro si desiderano soddisfazioni circostanziali. È solo una questione di urgenza, di importanza, di potenza... il desiderio più urgente, più importante, più potente è quello che prevale.
Premadharma
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da ortica » 17/05/2021, 15:57

Questo breve dialogo con Premadharma è stato già pubblicato diverse volte, sia su questo forum che sulla pagina Facebook dei Pitagorici.
Sembra appropriato inserirlo in questa discussione, in quanto delucida ogni equivoco che potrebbe sorgere dalla lettura nuda e cruda di un sutra dell'Avadhutagita avulso dal suo contesto, rispondendo peraltro alle domande espresse e inespresse che un viandante, trovandosi a passare da queste parti, potrebbe porsi.



R. Non confondere le istruzioni dirette date a chi si trova sul baratro del vuoto, con la visione di chi ha superato ogni vuoto.

D. Potresti fare degli esempi di chi si trova sul baratro e di chi lo ha superato? E la dimensione soggettiva, personale, quale ruolo assume nei due casi?

R. La volgarizzazione dell'insegnamento un tempo riservato agli anacoreti e poi ai monaci erranti (samnyasin) ha reso accessibili ai più informazioni riservate a chi le necessita nel momento in cui vanno applicate. Tiri fuori la chiave dalla tasca e la usi nel momento in cui devi aprire la porta, così è per certe istruzioni, praticarle vanamente a vuoto per anni non serve. La maggioranza di queste informazioni un tempo erano mnemoniche e passate di maestro in discepolo, quale memento e traccia. C'era poi la navigazione a vista ossia le istruzioni specifiche alle conseguenze della sadhana. Molte di queste non sono state mai pubblicate e probabilmente mai lo saranno poiché vengono date verbalmente ai quei pochissimi che le necessitano, e costoro proprio perché le necessitano sono qualificati e pertanto mai le daranno sino a quando non troveranno altri che le necessitano. Il necessitarle o qualificazione è data dall'essere sull'orlo del baratro.

Oggi le informazioni disponibili concernono solo i manuali mnemonici solitamente destinati a chi non ha più alcun interesse per la vita sociale e mondana. Questo non significa che il Vedanta Advaita è destinato solo a costoro, ma che quelle pratiche descritte (asparsa vada) sono destinate solo a costoro.

L'Advaita Vedanta nel suo insieme si appoggia come sadhana all'ajati vada (pratica della non generazione [di nuove cause]). E l'ajati vada viene praticato attraverso il karma vada (con tutte le sue accezioni nel grossolano denso, dalle posture, alle respirazioni, ai riti, ai mantra, ai suoni, etc.), il bhakti vada, lo jnana vada, l'asparsa vada.

Da qui le credenze sull'illusorietà del mondo, sul suo abbandono, etc.: le maggiori informazioni disponibili sono l'interpretazione corrotta di insegnamenti destinati a quei pochi in grado di realizzarli.

Chi invece ha già superato ogni baratro e ogni vuoto, mostra a ciascuno il percorso più adatto (alla fine tutti sono una combinazione più o meno variata e combinata di karma, bhakti e jnana yoga) in funzione della aderenza ai diversi piani esistenziali di ciascun aspirante.

Il Vedanta Advaita si pone oltre ogni contrapposizione ed è oltremodo risibile osservare come in molti si affannino a contrapporsi ad un qualcosa che non solo non comprendono ma non è nemmeno concepibile dalla mente empirica.
E' oltre ogni contrapposizione perché la parte finale, l'asparsa vada diviene disponibile solo quando l'ajati vada viene a concludersi: i vari piani esistenziali sono stati armonizzati nella risoluzione delle causalità (attraverso i vari yoga) ed è possibile fare il salto coscienziale di pura consapevolezza.


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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 17/05/2021, 17:22

ortica ha scritto:
17/05/2021, 15:57
Questo breve dialogo con Premadharma è stato già pubblicato diverse volte, sia su questo forum che sulla pagina Facebook dei Pitagorici.
Sembra appropriato inserirlo in questa discussione, in quanto delucida ogni equivoco che potrebbe sorgere dalla lettura nuda e cruda di un sutra dell'Avadhutagita avulso dal suo contesto, rispondendo peraltro alle domande espresse e inespresse che un viandante, trovandosi a passare da queste parti, potrebbe porsi.





Da qui le credenze sull'illusorietà del mondo, sul suo abbandono, etc.: le maggiori informazioni disponibili sono l'interpretazione corrotta di insegnamenti destinati a quei pochi in grado di realizzarli.

Chi invece ha già superato ogni baratro e ogni vuoto, mostra a ciascuno il percorso più adatto (alla fine tutti sono una combinazione più o meno variata e combinata di karma, bhakti e jnana yoga) in funzione della aderenza ai diversi piani esistenziali di ciascun aspirante.

Il Vedanta Advaita si pone oltre ogni contrapposizione ed è oltremodo risibile osservare come in molti si affannino a contrapporsi ad un qualcosa che non solo non comprendono ma non è nemmeno concepibile dalla mente empirica.

il problema è sempre quell' "uno su un miliardo ce la fa"?
Anche volendo non è la storia di uno spermatozoo...
Quindi lettura e equivoco per la mente empirica di chi eventualmente?
Saresti pure così gentile di segnalare, alla luce di quanto sopra detto, quali interpretazioni corrotte avresti constatato, grazie?

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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cannaminor » 17/05/2021, 17:44

«Il che non significa che non vi sia niente da fare, nel frattempo, perché tanto si è già Quello.»

Non è questo di cui si stava parlando; certo ci sarà sempre chi leggendo un certo testo tradizionale possa giungere alla conclusione-concettualizzazione mentale che non ci sia nulla da fare, tanto si è già Quello. Ma è appunto una concettualizzazione, una credenza, un’inferenza e opinione della mente, nulla a che fare con la Realtà, con Quello.

«D. Lei afferma che non occorre alcuno sforzo per realizzare il Sé.
R. Come può ciò che è l’Assoluto incausato essere determinato da altro? Esso non ha alcuna relazione con qualsiasi causa. Se lei chiude gli occhi, non sta cancellando il sole e quando li riapre non lo sta ricreando. Il sole è a prescindere da lei e da quello che lei può fare. Non deve fare nessuna fatica per vedere il sole, non è lei a crearlo. Ma se lei non ha alcuna intenzione di aprire gli occhi è chiaro che il sole non lo può vedere. Tutto lo “sforzo” è nel convincersi ad aprire gli occhi, ma se lei ha altro da immaginare, da sognare, etc. etc. ecco che prima di aprire gli occhi vorrà soddisfare i suoi desideri di altro. La realizzazione non duale del Sé, per come testimoniata dalla tradizione advaita, è la stessa cosa. La dualità fa sì che nell’ente ci siano contrapposizioni, da un lato si desidera l’assolutezza del sommo bene, dall’altro si desiderano soddisfazioni circostanziali. È solo una questione di urgenza, di importanza, di potenza... il desiderio più urgente, più importante, più potente è quello che prevale.»
Premadharma Vedanta Novembre 2016, Vidya Bharata

come si dice nel brano di cui sopra da te postato, “Non deve fare nessuna fatica per vedere il sole, non è lei a crearlo.” Non c’è nessun fare o non fare, “come può ciò che è l’Assoluto incausato essere determinato da altro?”. “Se lei chiude gli occhi, non sta cancellando il sole e quando li riapre non lo sta ricreando. Il sole è a prescindere da lei e da quello che lei può fare. Non deve fare nessuna fatica per vedere il sole, non è lei a crearlo.”
“Ma se lei non ha alcuna intenzione di aprire gli occhi è chiaro che il sole non lo può vedere.”
“Tutto lo “sforzo” è nel convincersi ad aprire gli occhi, ma se lei ha altro da immaginare, da sognare, etc. etc. ecco che prima di aprire gli occhi vorrà soddisfare i suoi desideri di altro.”

Il punto è tutto qui. Se si ha altro (di più urgente, di più importante, di più potente…) da fare, da desiderare, da portare a termine e risoluzione-soddisfazione, allora quello prevale.

“È solo una questione di urgenza, di importanza, di potenza... il desiderio più urgente, più importante, più potente è quello che prevale.”

«La realizzazione non duale del Sé, per come testimoniata dalla tradizione advaita, è la stessa cosa. La dualità fa sì che nell’ente ci siano contrapposizioni, da un lato si desidera l’assolutezza del sommo bene, dall’altro si desiderano soddisfazioni circostanziali.»

La contrapposizione (di cui si parla) è la dualità stessa; noi inquanto individui siamo l’esempio lampante di contrapposizione duale. La contrapposizione ce l’hai solo nella dualità e da nessuna altra parte.

Come diceva Raphael in quel breve brano tratto dalla sua Presentazione all’Avadhutagita commentata da Bodhananda;

«L’unico errore che un discepolo può commettere è quello di consentire alla mente empirica (manas) di concettualizzare tale Realtà ponendola di fronte a sé come semplice oggetto creando così una dualità.»

Permetti che te lo proponga in altra forma? L’unico errore che un discepolo può commettere (leggendo alcuni testi tradizionali etc) è quello di consentire alla mente empirica (manas) di concettualizzare tale Realtà ponendola di fronte a sé come semplice oggetto creando così una dualità. Creare una dualità vuol dire creare una contrapposizione, soggetto-oggetto, tu-testo letto, e quasta creazione avviene ad opera della “concettualizzazione” della mente che opera la creazione dell’oggetto-credenza-testo letto.

Si concettualizza (desumendolo e interpretandolo dal testo tradizionale) che “non vi sia niente da fare, nel frattempo, perché tanto si è già Quello”. Ma questo permettimelo, è un problema di concettualizzazione dell’aspirante, che non riesce a vedere altro che ciò che pensa e crede (sono ciò che penso), non dipende dal testo, e men che meno dalla Realtà-Sole.

«La realizzazione non duale del Sé, per come testimoniata dalla tradizione advaita, è la stessa cosa. La dualità fa sì che nell’ente ci siano contrapposizioni, da un lato si desidera l’assolutezza del sommo bene, dall’altro si desiderano soddisfazioni circostanziali.»

Assodato che contrapposizione=dualità...

«Il Vedanta Advaita si pone oltre ogni contrapposizione ed è oltremodo risibile osservare come in molti si affannino a contrapporsi ad un qualcosa che non solo non comprendono ma non è nemmeno concepibile dalla mente empirica.
E' oltre ogni contrapposizione perché la parte finale, l'asparsa vada diviene disponibile solo quando l'ajati vada viene a concludersi: i vari piani esistenziali sono stati armonizzati nella risoluzione delle causalità (attraverso i vari yoga) ed è possibile fare il salto coscienziale di pura consapevolezza.»

L’advaita, l’asparsa, sono oltre la possibilità della mente empirica. Cercare di concettualizzarli vuol dire atterrarli, vuol dire tradire quella stessa testimonianza che gli avadhuta ci hanno lasciato. La testimonianza ci è stata lasciata di indicazione, di direzione, nessun avadhuta può o potrebbe descrivere in termini concettuali e manasici cosa sia l’advaita-aspara, cosa sia la realizzazione metafisica. Hanno da sempre indicato un percorso, una via, (Il magistero non va oltre questo limite, di additare cioè, la via e il viaggio) consapevoli che realizzare non è e non coincide con concettualizzare, “ma la visione è già tutta un'opera personale di colui che ha voluto contemplare"

Contemplare, che è sinonimo di realizzare e non di pensare, credere, capire, opinare.

113. Capire è una cosa, comprendere è un'altra, realizzare è ancora altra cosa.
I molti capiscono e discettano, i pochi comprendono e meditano, i pochissimi
realizzano e sono.

Sempre quei pochissimi, di sempre, gli stessi che sono certamente passati per capire prima, comprendere poi, e realizzare in ultimo. Nessuno ha mai detto che la realizzazione sia immediata (anche se alcuni casi la tradizione ce li ricorda), nessuno ha mai parlato di tempo e di quante “vite” servano e occorrano, o se preferisci tradotto altrimenti, di quanti desideri (più urgenti, più importanti, più potenti) abbiano richiesto priorità di attenzione e soluzione, prima di poter aprire gli occhi e vedere il sole, che era sempre stato lì, dietro le palpebre dei nostri occhi, più prossimo della nostra stessa giugulare.

Se si preferisce dormire e (continuare) a sognare la vita, la dualità, la contrapposizione, etc etc benissimo, scelta personale e autonoma, tanto quella di aprire gli occhi e vedere il sole.
Non sta a me, non sta a te, non sta a nessuno al mondo decidere per gli altri come dove e quanto dormire e/o svegliarsi. Il limite del magistero è additare la via ed il viaggio, ma lo svegliarsi o meno (continuare a sognare) è già tutta un'opera personale di colui che ha voluto contemplare.

Se uno vuol concettualizzare (così come la stragrande maggioranza della gente fa “sono ciò che penso e credo di essere”) non c’è dio e non c’è mai stato dio in terra che glielo possa impedire di continuare a fare. La pera cade quando è matura, non sarà un libro o delle parole scritte in un libro, ma nemmeno dio in terra se fosse, che possa accelerare (o ritardarne) la caduta.

Quindi quale è il problema? La gente concettualizza un testo o un libro? Fosse solo quello!
La gente concettualizza tutto e tutti, la vita stessa è concettualizzazione, è pensiero e pensare, è credersi ciò che si pensa, cosa c’è di nuovo in questo? Che creda leggendo un testo o le parole sante di un avadhuta che non ci sia nulla da fare tanto siamo già Quello, sarà l’ennesimo, milionesimo, miliardesimo concetto che sarà passato per la sua testa e a cui avrà creduto e aderito.

Finchè uno vuol credere al sogno, al pensiero-pensare e a credersi ciò che pensa e legge, è nella sua libertà duale di farlo; questo è il mondo, questo è il divenire, questa la realtà contingente e relativa che vi vive su questo piano. Non sta a te decidere cosa gli altri vogliano (o debbano) non vogliano (o non debbano) pensare o credere, leggere o scrivere, argomentare e contrapporsi a cosa e a chi.

Ognuno è responsabile per se stesso, e tu non lo sei degli altri, nessuno te lo ha chiesto e nessuno te lo ha demandato in alcuna forma. Nella presentazione di questo forum c’è scritto, tra l’altro:

«In questo forum non si indossa alcun magistero, non vengono dati indirizzi, ciascuno porta, se ritiene, la propria esperienza.»

Quella presentazione fu scritta di pugno da Bodhananda stesso; finché quella indicazione sarà praticata e attuata, ogni intervento su questo forum, nei limiti della netiquette e rispetto del prossimo sarà libero di essere dato e portato. Il giorno che ciò non sarà più, il giorno in cui si comincerà a dire che questo intervento o quel testo postato è da moderare o peggio censurare “allo scopo di evitare perniciosi equivoci e di non cadere in dispersive illusioni”, forse allora non ne varrà più la pena di partecipare di questo forum, oggi ancora libero, ma chissà per quanto.

ortica
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da ortica » 17/05/2021, 19:53

Fedro ha scritto:
17/05/2021, 17:22
ortica ha scritto:
17/05/2021, 15:57
Questo breve dialogo con Premadharma è stato già pubblicato diverse volte, sia su questo forum che sulla pagina Facebook dei Pitagorici.
Sembra appropriato inserirlo in questa discussione, in quanto delucida ogni equivoco che potrebbe sorgere dalla lettura nuda e cruda di un sutra dell'Avadhutagita avulso dal suo contesto, rispondendo peraltro alle domande espresse e inespresse che un viandante, trovandosi a passare da queste parti, potrebbe porsi.





Da qui le credenze sull'illusorietà del mondo, sul suo abbandono, etc.: le maggiori informazioni disponibili sono l'interpretazione corrotta di insegnamenti destinati a quei pochi in grado di realizzarli.

Chi invece ha già superato ogni baratro e ogni vuoto, mostra a ciascuno il percorso più adatto (alla fine tutti sono una combinazione più o meno variata e combinata di karma, bhakti e jnana yoga) in funzione della aderenza ai diversi piani esistenziali di ciascun aspirante.

Il Vedanta Advaita si pone oltre ogni contrapposizione ed è oltremodo risibile osservare come in molti si affannino a contrapporsi ad un qualcosa che non solo non comprendono ma non è nemmeno concepibile dalla mente empirica.

il problema è sempre quell' "uno su un miliardo ce la fa"?
Anche volendo non è la storia di uno spermatozoo...
Quindi lettura e equivoco per la mente empirica di chi eventualmente?
Saresti pure così gentile di segnalare, alla luce di quanto sopra detto, quali interpretazioni corrotte avresti constatato, grazie?



Non so, chiedi a Premadharma.

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Fedro
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 17/05/2021, 20:04

ortica ha scritto:
17/05/2021, 19:53
Fedro ha scritto:
17/05/2021, 17:22
ortica ha scritto:
17/05/2021, 15:57
Questo breve dialogo con Premadharma è stato già pubblicato diverse volte, sia su questo forum che sulla pagina Facebook dei Pitagorici.
Sembra appropriato inserirlo in questa discussione, in quanto delucida ogni equivoco che potrebbe sorgere dalla lettura nuda e cruda di un sutra dell'Avadhutagita avulso dal suo contesto, rispondendo peraltro alle domande espresse e inespresse che un viandante, trovandosi a passare da queste parti, potrebbe porsi.





Da qui le credenze sull'illusorietà del mondo, sul suo abbandono, etc.: le maggiori informazioni disponibili sono l'interpretazione corrotta di insegnamenti destinati a quei pochi in grado di realizzarli.

Chi invece ha già superato ogni baratro e ogni vuoto, mostra a ciascuno il percorso più adatto (alla fine tutti sono una combinazione più o meno variata e combinata di karma, bhakti e jnana yoga) in funzione della aderenza ai diversi piani esistenziali di ciascun aspirante.

Il Vedanta Advaita si pone oltre ogni contrapposizione ed è oltremodo risibile osservare come in molti si affannino a contrapporsi ad un qualcosa che non solo non comprendono ma non è nemmeno concepibile dalla mente empirica.

il problema è sempre quell' "uno su un miliardo ce la fa"?
Anche volendo non è la storia di uno spermatozoo...
Quindi lettura e equivoco per la mente empirica di chi eventualmente?
Saresti pure così gentile di segnalare, alla luce di quanto sopra detto, quali interpretazioni corrotte avresti constatato, grazie?



Non so, chiedi a Premadharma.

Ma l'appunto è tuo, quindi con quale misura personale sei entrata in merito, con l'obiettivo di chiarire visioni corrotte, equivoci e letture nude e crude di chi?
Se vedi equivoci li esponi altrimenti di cosa o chi stai parlando, a chi segnali questo limite della mente empirica (di chi?) sta qui leggendo?
Sta a te e con quale diritto, esporre limiti e chiarimenti in proposito che poi neanche esponi e chiarisci, nel vederli?

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Fedro
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da Fedro » 18/05/2021, 6:51

ortica ha scritto:
17/05/2021, 15:28

Inoltre, ma questa è una semplice esperienza personale, la conoscenza di questa testimonianza può apportare, proprio qui in questa vita, gioia profonda, serenità completa ed appagata, causata talvolta da qualche lampo di luce che arriva a squarciare l'oscurità e, comunque, dal semplice fatto che questa possibilità esiste e, se non sarà a questo giro di giostra, sarà al prossimo o a quell'altro ancora, ma comunque accadrà perché è già presente, anzi è l'unico presente, tutto ciò che è, anche se "io" ancora non riesco a vederlo, ad esserlo, perché troppe sono le sovrapposizioni che velano la Realtà.
Questa è la tua testimonianza, che accolgo come tale senza contrapposizioni, proprio perché tua.
Ma non mia comunque.
Se seguiamo ancora il testo proposto, e che sarebbe possibile oggetto di perniciosi equivoci, come dici tu, vi si legge in altro commento di Bodhananda:

"Il semplice fatto che un aspirante approcci seriamente l’autoconoscenza fa cadere tutte le possibili obbiezioni o il conteggio di eventuali vite, passate e future. Infatti l’ente che svolge l’indagine di autoconoscenza non si cura né di vite passate, né di vite future; non di qualificazioni, non di titoli: è mosso solo dall’istanza di conoscersi; e questa stessa istanza è l’unica qualificazione necessaria insieme alla consapevolezza umana e l’accesso ad un Realizzato."

Alla luce di ciò, mi sembra evidente che, non so quanto perniciosi, ma di equivoci interpretativi (quasi sempre frutto della mente analitica) ve ne siano, a vanno contemplati in questa relativizzazione effettuata.

cielo
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Re: Avadhutagita - Autoconoscenza

Messaggio da cielo » 18/05/2021, 8:54

Pensavo, tra me e me, come i problemi di comunicazione tra esseri umani si manifestino ovunque: dalla famiglia, alla società, attraversando i gruppi di vario genere che si frequentano, in presenza o on line.

Condensando al massimo lo sforzo personale di rimanere ben ancorata a poche indicazioni tra le tante ricevute nel corso della mia vita di aspirante "spirituale", focalizzo sull'importanza di esprimere la propria visione o parlare con il prossimo evitando la contrapposizione. Di non fermare il viaggio della nave proprio nel cuore della tempesta per discutere con l'altro navigante sulla migliore rotta per uscire dai marosi agitati. Concentrare tutti gli sforzi per uscire dalla tempesta (emotiva, mentale che sia).

Però continuo a farlo: mi metto a discutere, dico la mia e pur se mi sforzo di dirla con "gentilezza" e rispetto per l'opinione altrui (pari alla mia) capita spesso che l'altro navigante si metta a discutere la rotta pure mostrandomi dove ho male interpretato i dati della mappa e questo mi fa reagire, di solito.

Così ogni volta dico a me stessa: era meglio se stavi zitta. Ma non è vero, siamo mossi dal bisogno di comunicare e nel caso specifico ci sono stati messi a disposizione spazi per farlo, come questo forum.
Ma questo non è vero, che è meglio tacere a prescindere, non basta non entrare in dialogo per timore ch si crei la contrapposizione delle idee e delle visioni. E' da mettere in conto.

Ci vuole qualcos'altro, qualcosa che fermi l'oscillazione tra il riconoscimento della dignità di ogni opinione e l'inevitabile giudizio su opinioni che a noi sembrano infondate o fuorvianti.
Non è facile integrare la comprensione che ogni individuo esprime qualità sue proprie, energie di varia natura e colore e che insieme tuti i colori hanno la potenzialità di ritornare alla luce incolore della Vita una.
Comprendere che nel tempo-spazio ogni cosa si trova al suo giusto posto.
Questa comprensione implica non-contrapposizione.
Nel frattempo porsi giuste domande, ma senza dimenticare che molte domande non avranno risposta. Altre sono mal poste e scatenano reazioni, contrapponendo le forze di ciascuno invece che unirle nell'opera.
Una giusta posizione coscienziale presuppone giuste domande, e un vero dialogo con se stessi finalizzato all'autoconoscenza anche.

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