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Io sono questo e quello...

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cannaminor
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Io sono questo e quello...

Messaggio da cannaminor » 27/10/2019, 8:35

1) Io sono questo e quello…

è la classica affermazione mondana, di mondo.

Afferma e definisce un soggetto (io) in funzione di relazione (sono) con un oggetto (questo e quello). Pone in relazione identitaria, di identità-uguaglianza il soggetto con l’oggetto dando vita ed esistenza coincidente ad entrambi.

Se viene meno il “questo e quello”, viene meno parimenti ciò che l’io-soggetto era, ovvero questo e quello (affermazione questa alquanto lapalissiana)

Ma se togliamo dalla frase il questo e quello e la lasciamo nella forma di...

2) Io sono

scopriamo che in effetti abbiamo radicalizzato l’affermazione, ovvero da una mondana ad una esistenziale. Mi spiego: se nell’affermazione io sono questo e quello si affermava il soggetto essere qualcosa, questo e quello, nella seconda io sono se ne afferma solo (!) l’esistenza, l’esistere, a prescindere dal qualcosa (questo e quello).

Se la prima è un’affermazione di alterità e di mondo la seconda è solo esistenziale, di esistenza del soggetto io.

Ovvero affermo il mio esistere (ex-sistere). Non affermo cosa io sia, ma solo e semplicemente che io esisto, quindi è l’affermazione ontologica per eccellenza.

Non per nulla Dio in risposta alla domanda di Mosè disse; Io sono Colui che sono.

Se ora da questa seconda affermazione togliessimo l’io, e lasciassimo il solo…

3) sono

ci si ritroverebbe improvvisamente (concedetemi questa discorsività) senza più alcun soggetto e oggetto (sostegni?), senza più un esistere ed esistenza, ma col “solo” sono, che poi non è altro che l’Essere.

Quell’Essere che è sempre stato, sotteso e latente, sotto i vari soggetti (questo e quello) e persino sotto l’uno Soggetto-ontologico, l’Esistente, Colui che è.

Giunti all’Essere, all’Essere che è (senza un io, senza un soggetto, senza un secondo) semplicemente È, alle volte quelli che vi giungono decidono (per amore del mondo piace tanto pensare a chi è rimasto al punto 1) di tornare indietro, reintegrando il soggetto (io) ma anche gli oggetti (questo e quello), quindi di tornare al mondo nella sua interezza ed esistenza manifesta (io sono questo e quello) ma, permettetemi e comprendetemi, mantenendo la centratura sul sono, ovvero sull’Essere.

Invero, a ben guardare anche da un punto di visto grafico della parola scritta, il “sono” è sempre stato presente, sin dall’inizio della 1) io sono questo e quello.

Ovvero le parole stesse “io” e “questo e quello” sono solo aggiuntive (sovrapposizioni) alla parola di base “sono”. L’Essere, il Sono è il “filo conduttore” sin dall’inizio e quindi non è mai venuto meno, è per questo che si può affermare “Tu sei Quello”, proprio per quel “sei” (Essere, Sono) in mezzo tra i due.

Ed è per lo stesso motivo che l’Essere può solo Essere (Sono) o può tornare “indietro” (scelta?) nella locuzione “Io sono questo e quello” senza venir meno a ciò che è, Essere-Sono.

È un cerchio che si richiude, un “andata e ritorno” il cui centro è sempre e solo l’Essere.

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cannaminor
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Re: Io sono questo e quello...

Messaggio da cannaminor » 31/10/2019, 9:50

Rileggendo dei vecchi periodici/quaderni vedanta ho trovato questo breve saggio-poesia di Bodhananda che mi pare attinente con quanto sopra:

Manolayasutra (di Bodhananda)

Per coloro cui è giunto il momento, si porge la pratica delle "parole di sospensione della mente" (manolayasutra).
Ascolta attentamente, esso può indirizzare al silenzio.

Chiudi gli occhi e sospendi i pensieri. Entra nella tua natura di silenzio.
Tu esisti. E’ la definizione di questo tuo esistere a percepire l’esistenza di altro.

Chiama questo altro, insieme alla tua definizione di esistere, molteplicità dell’essere o jagat o mondo.

Esamina adesso la percezione stessa che mostra l’esistenza di altro da te. Osserva come ti credi in realtà esistente proprio per essa, per la percezione-movimento-maya, che permette la definizione del tuo esistere.

Chiama questa definizione dell’esistente a cui credi, avidya, essa è l’individuazione dell’essere o jiva.
Adesso lascia affondare questa osservazione nel tuo esistere.

Dimentica di esistere perché percepisci altro. Affonda e annega nel tuo essere.
Lascia la percezione dov’è, in superficie. Tu non sei la superficie

Sposta l’attenzione sull’essenza che sei e che non hai mai osservato perché distratto dalla percezione e quindi dall’essere qualcosa rispetto al percepito.

Tu senti di esistere, perché sei. Non perché senti altro da te, attraverso il tuo definirti (ahamvitti). Sii.
Sii sempre perché sei. Sei l’essere da sempre.
Questa è la coscienza di essere o “Io sono” (in senso di affermazione di esistenza) o atman o Isvara (se lo trattieni e mantieni.)

Tu sei cosciente di essere. Questa è ancora dualità.

Lascia, adesso, questa coscienza di essere. Lascia il definirti esistente. Non ne hai bisogno.
Se sei, non ti “serve” essere cosciente di esserlo, non ti serve definirti.
L'essere non necessita di definizione, l'essere semplicemente è.

Ecco che “sei”. Sei.
Non c’e’ altro. È lo stesso “io sono” che smette di affermare la propria esistenza attraverso l'autodefinizione perché perde coscienza del definirsi: è. Quest'essere che sei, è il Reale.

Non c’è alcuna differenza fra il Reale, l’Essere e l’essere individuato.


Bodhananda, Advaita Bodha Dipika Kilakanta, in Advaita Bodha Dipika di Karapatra Svami (a cura di Bodhananda) per le Ed. I Pitagorici pag 146-147.

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Manolayasūtra: premesse e pratica

Messaggio da cielo » 20/06/2021, 21:10

Manolayasūtra (di Bodhananda)

Per coloro cui è giunto il momento, si porge la pratica delle "parole di sospensione della mente" (manolayasutra).
Ascolta attentamente, esso può indirizzare al silenzio.

Chiudi gli occhi e sospendi i pensieri. Entra nella tua natura di silenzio.
Tu esisti. E’ la definizione di questo tuo esistere a percepire l’esistenza di altro.

Chiama questo altro, insieme alla tua definizione di esistere, molteplicità dell’essere o jagat o mondo.

Esamina adesso la percezione stessa che mostra l’esistenza di altro da te. Osserva come ti credi in realtà esistente proprio per essa, per la percezione-movimento-maya, che permette la definizione del tuo esistere.

Chiama questa definizione dell’esistente a cui credi, avidya, essa è l’individuazione dell’essere o jiva.
Adesso lascia affondare questa osservazione nel tuo esistere.

Dimentica di esistere perché percepisci altro. Affonda e annega nel tuo essere.
Lascia la percezione dov’è, in superficie. Tu non sei la superficie

Sposta l’attenzione sull’essenza che sei e che non hai mai osservato perché distratto dalla percezione e quindi dall’essere qualcosa rispetto al percepito.

Tu senti di esistere, perché sei. Non perché senti altro da te, attraverso il tuo definirti (ahamvitti). Sii.
Sii sempre perché sei. Sei l’essere da sempre.
Questa è la coscienza di essere o “Io sono” (in senso di affermazione di esistenza) o atman o Isvara (se lo trattieni e mantieni.)

Tu sei cosciente di essere. Questa è ancora dualità.

Lascia, adesso, questa coscienza di essere. Lascia il definirti esistente. Non ne hai bisogno.
Se sei, non ti “serve” essere cosciente di esserlo, non ti serve definirti.
L'essere non necessita di definizione, l'essere semplicemente è.

Ecco che “sei”. Sei.
Non c’e’ altro. È lo stesso “io sono” che smette di affermare la propria esistenza attraverso l'autodefinizione perché perde coscienza del definirsi: è. Quest'essere che sei, è il Reale.

Non c’è alcuna differenza fra il Reale, l’Essere e l’essere individuato.


Bodhananda, Advaita Bodha Dipika Kilakanta, in Advaita Bodha Dipika di Karapatra Svami (a cura di Bodhananda) per le Ed. I Pitagorici pag 146-147.
E' capitato recentemente di praticare insieme ad amici il Manolayasūtra di Bodhananda ed è stato un viaggio nell'interiorità facilitato dalla voce del lettore che mi ha permesso di raggiungere, anche se solo per qualche minuto, quel quieto lago in fondo al cuore dove la mente ha placato le sue onde e non ci sono increspature.

E' pur vero che questo rimanere raccolti nell'interiorità, nella presenza del puro essere in noi, è pratica che dovrebbe proseguire h. 24, da fare in piena consapevolezza e senza supporti (o autisti).
Per chi ce la fa, in caso contrario (per chi non ce la fa) trovo utile dedicare qualche momento a questa pratica di sospensione della mente in modo che il nostro continuo oscillare tra il fuori (il mondo) e il dentro (la coscienza individuale) si risolva nell'equilibrio tra forze contrapposte.
Mi viene in mente il detto di Marco Aurelio: "Prendere senza illusioni. Lasciare senza difficoltà".

A seguire momenti di dialogo di V. e U. con Premadharma (tratti dal forum pitagorico) su questa pratica.


Immagine

V. All'inizio del manolayasūtra si dice: "Per coloro cui è giunto il momento" , ma mi domando: "Questo chi o cosa lo stabilisce?..."

U.
Mettiamo che tu trovi questo testo in libreria e decidi di praticare il manolayasūtra, nessuno ti verrà a dire: guarda che è una pratica molto elevata ecc. ecc..
Lo sbarramento alla pratica lo trovi dentro di te, da sola ti renderesti conto che non fa per te. Oppure potrebbe darsi che tu sia testarda e che decidi di continuare, scopri lo stato vuoto tra due pensieri e ti fissi li, il risultato è che le scissure potrebbero acuirsi. ecc. ecc.
E' vero che la mente si calma da sola, ma non è cosi semplice.
In ogni caso non sei sola qui e sedere semplicemente in silenzio è già una grande cosa, l'importante è non seguire i pensieri, ma osservarli, cosi per le sensazioni e ogni movimento dell'energia.

Premadharma
In caso inizia osservando il respiro che entra e riempie il corpo.
Entra dal naso e immagina il bastone pastorale del vescovo. Sale e percorre il cervello fra i due emisferi, poi lo riporti alla trachea e lo fai discendere a riempire i polmoni, ma rimani focalizzata due centimetri avanti alla spina dorsale, quando arrivi sotto, se ritieni, trattieni un attimo il respiro, poi espira risalendo ma senza giro ed esci dritta dalla fontanella.

Aiuta iniziare con una concentrazione sulla fiamma di una candela (anche immaginata) e poi portarla entro il corpo col respiro.
Respiro luce, entra luce, irradio luce.
Il manolayasutra presuppone la luce, sono tutti mo[vi]menti luminosi.

U.
Molto Dzogchen...

Premadharma
Non ho alcuna didattica e non ho ricevuto istruzioni... si tratta di processi sviluppatisi/praticati naturalmente quando servivano.
Per questo non ho mai capito le pratiche forzate e protratte nel tempo.

U.
Per questo sono molto Dzogchen, basate sulla comprensione naturale, come Dattatreya insegna.
Le pratiche forzate di solito bloccano...

Premadharma
Ho cercato più volte di spiegare che non è il comportamento del saggio a generare saggezza, ma la saggezza a determinare il comportamento. Quindi regole e pratiche desunte emulando i saggi non servono a niente.
Il 99% delle pratiche è del tutto inutile ai fini della realizzazione del Sé. Esse hanno altri scopi. Solo l'1% è propedeutico ad un approccio al silenzio.
Il problema è che ci campano maestri, monasteri, movimenti, editrici, etc etc e fanno tanta tenerezza.

Ciascuno necessita della sua pratica.

Dove per pratica si intende semplicemente essere noi stessi, senza alcuna forzatura.

Il noi stessi da essere di volta in volta è il distacco dai veicoli per vederli senza adesione.

Per giungere a questo serve sapersi centrare (meditazione con seme) su qualcosa e poi sapersi centrare e basta (meditazione senza seme).

E ciascuno inizia da dove è.

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