Vero, i testi advaita sono sorti per aiutare l'uomo a conquistare jnana e dargli la conoscenza che potrà dissolvere le nuvole di a-vidya: l'ignoranza di base, e liberarlo dalla miseria (spirituale) e dall'errore.latriplice ha scritto: ↑22/03/2018, 20:54Quando l'io si identifica con il corpo-mente e non con il Sé- consapevolezza, si crea una separazione tra l'individuo e il mondo. Questa scissione fa credere all'io individuale (ahamkara) di essere un derivato del mondo e non il suo creatore. In realtà esiste soltanto il Sé, ma l'io (il corpo-mente) che gli si sovrappone crea inconsapevolmente il mondo dando origine sia al testimone sia alla testimonianza che, a causa dell'ignoranza, appaiono come due: il soggetto e l'oggetto. La cosiddetta "schiavitù" consiste nell'identificarsi con il fenomeno transitorio del corpo-mente e non con il Sé imperituro, che è l'unico osservatore, ma anche tutto ciò che è osservato perché soltanto il Sé esiste realmente. Pertanto pensarsi in schiavitù dal quale deriva l'stanza alla liberazione (moksha) ha la sua radice nell'ignoranza, quella in cui si può diventare il Sé, dimenticando che si può soltanto essere il Sé.
In realtà, lo ripeti spesso, noi siamo nell'ignoranza sino a quando sentiamo di esserlo, infatti non siamo stati creati, nè limitati o legati, siamo l'atma, la realtà che non ha avuto nascita, nè avrà morte.
Ma come diceva mia nonna: tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, il mare del samsara, che ci lega e ci tiene sulla ruota che gira sul perno fisso.
L'ignoranza fondamentale consiste proprio nel pensare che esista jagat, il mondo, che contiene me ed altri come me che ricercano la felicità ed in questa ricerca "io" deve penare e gioire ed affrontare le prove di innumerevoli nascite e morti, almeno fino a quando il riconoscimento come atma sarà stabilizzato e non anelato, pensato e interpretato.
Tutto questo è ajnana.
"Noi diventiamo ciò che pensiamo di essere", questi pensieri sulla validità del mondo fisico e sul valore delle gioie provenienti da esso sono ajnana: ignoranza.
C'è un percorso da fare, codificato da Shankara, ma ribadito da tutti i Conoscitori che richiede dei requisiti specifici, più o meno i seguenti:
- la propensione verso il progresso spirituale, l'anelito
- la pratica costante delle virtù dirette alla purificazione dei corpi indossati, tra cui splende una fede solida nelle parole delle shastra e del guru
- la devozione all'ideale e la donazione di sè senza aspettive di ritorno e di premio
e la Grazia di Iśvara, o Dio, il Sognatore di tutti i sogni.
Viene detto che se anche uno solo di questi requisiti è assente non si può sperimentare la beatitudine più elevata, quella dell'Assoluto, che autorisplende come Luce incausata, una luce che attira come un faro le falene che svolazzano.
E' necessario che la nostra indagine non si focalizzi sull'ovvio e il superficiale che ci porta fuori strada rinnovando il credere reale ciò che non lo è.
A volte mi soffermo a riflettere sul fatto che questo enorme e fantastico Cosmo che esploro per mezzo della percezione dipenda in fondo dal fatto che "io" lo riconosca come tale oppure no. Se c'è c'è, se non c'è, non c'è.
Se io sente che è presente, esso è presente, se io sente che è assente, esso è assente.
Questa consapevolezza spinge a cercare di approfondire questo processo mentale e, in seconda battuta a "disinnescarlo".
E' possibile dimostrare che la nostra affermazione dell'esistenza di una cosa la faccia esistere e la sua negazione la faccia sparire?
E', questa conclusione, ancora una nostra immaginazione?
Indagare per questa via potrebbe indubbiamente avvicinare alla verità.
Soccorre la famosa e arcinota metafora della corda e del serpente.
Quando la corda è vista nel buio, per errore o per ignoranza, diventa un serpente, nascondendo la realtà; ma quando la verità è conosciuta e si percepisce che quel "serpente" non è un serpente, ma una corda, esso sparisce perchè era una "immaginazione", una non verità.
Ne consegue che il sentire o il pensare può creare il serpente e distruggerlo.
Le affermazioni creano e le negazioni distruggono, entrambi sono processi mentali che possiamo definire come i "nostri pensieri"
C'è dunque da scoprire da dove nascono i pensieri. Sono liberi di emergere spontaneamente?
I Veda rispondono: "buddhi karma": l'intelletto segue il flusso delle nostre azioni e i pensieri nascono a causa dell'attaccamento che si sviluppa e dai risultati delle azioni che mantengono l'attaccamento, che legano e non sciolgono.
Il primo motivo per agire è: "Io devo avere felicità e benessere" e chiaramente questo impulso nasce dalla supposizione che il mondo sia reale, lo è solo parzialmente, finchè un io lo pensa come tale.
Resta il fatto che lo sforzo umano è passo da fare, almeno fino a quando soffriremo di simpatie e antipatie, di attrazioni e repulsioni, e fino a quando sopporteremo il mal di denti e la lombalgia, o ben più gravi malattie. E fino a quando temeremo la morte.
Nel tempo, forse, capiremo che neppure la conoscenza più sacra, se non assimilata e trasformata in auto-consapevolezza ed esperienza, è utile, esattamente come quella secolare. Però quella sacra conoscenza è come il diamante che possiamo tenere tra le mani per rimirarne i riflessi alla luce.
Come ogni diamante che si rispetti, quando cade non si rompe, anche se magari abbiamo paura che accada, lo possiamo recuperare intatto.