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Onestà e gentilezza - dialogo dIstruzione

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cielo
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Onestà e gentilezza - dialogo dIstruzione

Messaggio da cielo » 01/05/2017, 9:51

Bodhananda, dialogo tratto dalla ml Vedanta-Sai Baba, marzo 2001

D. Si dice che bisogna "amare sé stessi", secondo me il primo amore verso noi stessi parte dalla gentilezza.
Accettiamo di volerci veramente vedere per quel che siamo (lo so che è molto difficile) senza pregiudizi, imposizioni, violenza.

R. Molto spesso questo concetto di onestà è tutt'altro che gentile, necessita una certa spietatezza che poco incontra il concetto di gentilezza. Ma è altresì vero che un po' di gentilezza verso noi stessi non fa male.
Magari ce ne fosse abbastanza.

D. Non ho capito dove dici che: "Molto spesso questo concetto di onestà è tutt'altro che gentile, necessita una certa spietatezza che poco incontra il concetto di gentilezza."

R. L'onestà interiore conduce ad una visione spietata di sé stessi, al di là di ogni concetto acquisito di bontà o di rettitudine.

Sino a quando siamo turbati dalle nefandezze del mondo, sino a quando distinguiamo fra bene e male, fra buoni e cattivi, fino a quando siamo soggetti a simpatia e antipatia, allora c'è in noi un aspetto irrisolto che risuona per "similitudine" con l'evento che ci ha colpito.

Se vediamo il fuscello nell'occhio del vicino è perchè nel nostro occhio c'è una trave. Quel fuscello ci aiuta a riconoscere quella trave.

Per gentilezza in ambiente non sacro si intende quasi il mentire, il celare, il nascondere... quante volte si dice che la cruda onestà non è gentile?

Nel rapporto con noi stessi tendiamo a nasconderci i nostri lati negativi o addirittura alcuni indirizzi d’istruzione propongono di modificarli...il cattivo deve diventare buono... come se ciò fosse possibile.

Quello che vediamo come cattiveria è il sintomo di qualcosa che abbiamo dentro e, se vogliamo rettificare la cattiveria (o quanto chiamiamo cattiveria in funzione di una morale esterna), occorre operare sulla causa, non certo sul sintomo.

Ma una certa gentilezza tenderà a vedere la causa fuori da sè, ce la giustificherà o la condannerà, proponendosi la prossima volta di essere migliori, come se il comportarsi equivalesse all'essere.

In realtà, quanto viene chiamato miglioramento in ambito spirituale, è il risultato di un processo, di una disciplina che opera nel distacco dall'egoità, attraverso la sua integrazione.

Posizione del karma yogin:
Sono "fetente" perchè compio azioni fetenti.

Azione del karma yogin:
Compio azioni aderendo al mio dharma nel distacco dai loro frutti.

Posizione del bhakti yogin:
Sono "fetente" perchè sono cattivo.

Azione del bhakti:
Qualsiasi azione appartiene all'Ideale, io ne sono semplice esecutore, Lui possiede ogni merito e demerito.

Posizione dello jnanin:
Sono "fetente" perchè sono fetente.

Azione dello jnanin:
Testimonio all'azione e vedo se l'esser fetente è reale o meno.

Nelle tre modalità vediamo che c'è un distacco fra la convinzione di essere l'artefice dell'azione e l'azione stessa.

Nel caso del karma yogin, l'azione viene compiuta perchè è da compiere, quindi si tratta di raccogliere un qualcosa che comunque non ci appartiene, perchè non ci appartengono i frutti dell'azione, ossia la sua trasmutazione di causa in effetto.

Nel caso del bhakta, l'azione, come i suoi frutti, appartengono all'Ideale, ma così anche i nostri difetti, tutto è espressione della sua volontà, in tal caso allora l'azione del bhakta è restituirglieli, metterli ai suoi piedi e nel farlo è costretto a distaccarsene, è costretto ad osservarli per scoprire se per caso Egli ci aggiunge qualcosa di suo...

Lo jnanin invece non si cura dell'essere buono o meno, dato che comunque tali qualità sono definite in funzione di parametri esterni e quindi con un grado di realtà inferiore. Si cura di scoprire se quella caratteristica è reale o meno, se abbia origine da lui stesso o se sia originata da altro da sè.
Quindi è preso dall'osservazione di quanto avviene in sé stesso e non partecipa all'azione che compie, ma ne osserva semplicemente l'esecuzione.

A dirla così sembra una cosa difficile, e invero non è facile, però queste sono le modalità di applicazione dei vari cammini.

Infatti per Realizzare il Sè o l'Assoluto, non si tratta di modificare noi stessi per divenire chissà cosa.

Il Vedanta e la Tradizione in genere ci insegnano che noi siamo già quell'essenza, della stessa natura del Padre celeste, si tratta solo di far evaporare quei veli che ci impediscono di vedere la nostra vera natura di puro essere.

Questi veli sono creati dall'identificazione della mente con le azioni e i loro frutti, dal credere di essere gli artefici delle azioni e non semplici esecutori di azioni che sono da compiersi perché:

a) così è il karma
b) esse appartengono al Divino e noi siamo semplici mezzi
c) perchè in esse possiamo discriminare cosa di noi sia reale e cosa no.

Quindi la gentilezza, a seconda dei punti di vista, può esserci come non esserci.

Siccome di solito nella sadhana siamo identificati con la nostra egoità, ogni visione e risoluzione di essa può essere dolorosa e quindi non vediamo gentilezza verso noi stessi.

D'altra parte potremmo divenire colmi di gentilezza, perchè una volta che avremo affrontati noi stessi, saremo meno propensi a scagliarci contro gli altri, dato che sapremo che cosa vuol dire avere a che fare con un determinato difetto o dato che useremo il difetto che abbiamo visto [fuori] per scoprire in noi il medesimo difetto da risolvere.

Spietatezza o onestà per vedere.

Gentilezza per sanare.

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