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Advaita e divino - dialogo dIstruzione

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cielo
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Advaita e divino - dialogo dIstruzione

Messaggio da cielo » 27/03/2017, 10:49

A seguire, un dialogo, tratto dal forum Matematici dei Pitagorici tra Nio (l'apprendista alla Conoscenza che in "firma" riporta: "Tutti possiamo essere l'eletto, ma solo pochi sono così eletti da cercarsi. Di coloro che si cercano pochi vogliono veramente trovarsi, di questi pochissimi lo vogliono innanzi tutto. Fra questi è l'eletto. E io sono fra quali sono?" e Suomy Nona (l'"anonimo" istruttore tradizionale) in cui si affronta un tema molto delicato, ossia il rapporto tra l'adorazione, esteriore ed interiore, al Divino e l'Advaita.
In caso sentiste la necessità di intervenire, vi chiedo gentilmente di aprire un 3d di riflessioni anche perchè il dialogo è lungo e complesso e dovrà essere alleggerito, ove possibile, dai quote di riporto che non siano necessari alla comprensione.


Immagine


Dialogo » 06/01/2015

Nio. Ho letto altrove: Approcciando seriamente l'Advaita occorre abbandonare la Divinità.

Pensavo che l'Advaita fosse fusione, infatti quando si legge "Tu sei quello" ovvero "l'atman è il Brahman" non s'intende l'identità fra atman e Brahman Nirguna?

Avevo sempre pensato che il percorso verso l'Advaita passasse dall'adorazione del Divino visto quale alterità per giungere all'identità attraverso l'amore. Tenendo presenti le parole di Hanuman, che risponde [a Rama che gli domanda:] "In quale modo tu mi adori?" nello Yoga Vashistha.*
Ho difficoltà a stare senza il sostegno del Divino, mi sento sperduto, troppo piccolo per questo immenso mondo. Mi può aiutare?


[*: "Finchè conservo il sentimento di avere un corpo fisico, finché non mi è possibile liberarmi dall'idea della forma fisica, io non sono vostro servitore, io non sono che un misero organismo (prani) e un abisso insormontabile mi separa da Voi. Se, al contrario, perdendo la nozione del corpo grossolano mi ritrovo jiva con una coscienza individuata, parlo, utilizzo la mia mente e commetto errori. In questo stadio io mi rendo conto che faccio parte del vostro Corpo superiore, ho il sentimento della vostra immanenza. Se mi elevo ancora di un gradino e domino completamente la mia mente, scopro in me un Centro Spirituale che né il pensiero, né il linguaggio possono cogliere; questo Centro superiore, che si pone di là del mondo empirico, è l'atman, è il Sé: tra me e Voi non c'è più alcuna differenza, alcuna distinzione, esiste solo Brahman e nient'altro che Brahman"].

Suomy Nona
Tenendo presenti le parole di Hanuman nello Yoga Vasistha, possono aiutare quelle di Raphael riportate nell'introduzione della Bhagavadgita pubblicata dalle Edizioni Parmenides (già Asram Vidya).

Dalle parole di Raphael possiamo vedere come l'Advaita comprenda l'abbandono di ogni dualità, pertanto il Divino in ogni sua forma dovrà essere abbandonato. I vari aspetti del Divino corrispondono ad esperienze e per giungere a tali esperienze il sadhaka è chiamato ad abbandonare l'adesione alle precedenti esperienze, né a tutti è dato lo stato di jivanmuktha ove tali esperienze sono tutte contemporaneamente esperite. Nelle parole seguenti vediamo un accenno alla difficoltà che ebbe Sri Ramakrishna per abbandonare l'esperienza della Madre Divina. Consideriamo inoltre che non necessariamente i vari stati vengono esperiti sequenzialmente.

“Dopo l’iniziazione”, disse una volta Sri Ramakrishna descrivendo l’avvenuto, “Nangta cominciò ad insegnarmi le arie conclusioni dell’Advaita Vedanta e mi chiese di ritirare del tutto la mente da tutti gli oggetti e di immergerla nell’Atman. Nonostante tutti i miei tentativi, però, non riuscii ad attraversare completamente il dominio di nome e forma ed a portare la mia mente al livello in cui non esistono mutamenti. Non avevo difficoltà a ritirare la mente dagli oggetti del mondo, ma la radiante e troppo familiare figura della Madre Beata, Incarnazione dell’Essenza di Pura Consapevolezza, continuava ad apparirmi davanti come una realtà viva. Il Suo sorriso affascinante mi impediva di raggiungere il Grande Aldilà. Provai e riprovai, ma Ella mi era sempre davanti. Disperato, dissi a Nangta: ‘Non c’è speranza. Non ce la faccio ad elevare la mia mente ad uno stato incondizionato e ad arrivare all’Atman’. Egli divenne agitato e disse bruscamente: ‘Cosa? Non ce la fai? Ma lo devi fare’. Dando un’occhiata in giro, trovò un pezzo di vetro, lo raccolse e me lo premette tra le ciglia. ‘Concentra la mente in questo punto’ tuonò. Quindi con grande determinazione mi sedetti di nuovo a meditare e non appena la benevola forma della Madre Divina mi apparve davanti, usai la mia discriminazione come fosse una spada e con questa la tagliai in due. Cadde quindi l’ultima barriera ed immediatamente il mio spirito s’innalzò al di sopra del livello relativo e mi persi nel samadhi”.


[Dal Vangelo di Ramakrishna - Opera Integrale Edizioni I Pitagorici]

Nio.
La ringrazio per la risposta e per le opportune e precise segnalazioni che richiedono attenta riflessione.
Ora vorrei mostrarle un processo verificatosi, direi naturalmente, in seguito all'iniziale smarrimento prodotto dalla lettura delle parole:
Approcciando seriamente l'Advaita occorre abbandonare la Divinità.
Come indicato più sopra, queste parole sono state causa di un'emozione che potrei definire per approssimazione "spavento" e, anche, di una sorta di ribellione interiore.
Indagando su queste emozioni è sorta spontaneamente la domanda "chi ha paura?".
Si è osservato che il timore era sentito dall'intero complesso psico-fisico che normalmente definisco "io".
Era "io" che si ritraeva, e si ritrae alla prospettiva di "abbandonare il Divino", perché il Divino è confortante, è un solido e amorevole sostegno, probabilmente il più solido e il più amorevole.
"Io" è immensamente piccolo di fronte all'Immenso e teme l'immensità senza sostegni.

Eppure, nel corso di questa osservazione, a un certo punto è subentrata una grande pace sorridente.
Esiste, al centro di "io" qualcosa che non teme, non si ritrae dall'immenso perchè è Immensità.
Ciò ha prodotto la sparizione momentanea di "io" e anche una certa ilarità.

La domanda che vorrei porre è: il processo che ho tentato di descrivere ha un senso?
In altre parole: me la sono raccontata? Si tratta di un ulteriore trucco di "io" per garantire la sua sopravvivenza?

Grazie ancora per la disponibilità.

Suomy Nona.
A questa domanda può rispondere solo lei; il fatto stesso che sorge la domanda implica che lo stato descritto non è più presente e pertanto non essendo adesso, non è stato in senso assoluto, non è stato puro essere in quanto essenza. Questo però non significa che non sia stata un'esperienza di contatto, qualcuno potrebbe chiamarla una iniziazione: una apertura, una intuizione, che per un attimo le ha mostrato la sua stessa natura.

Per altri versi, una grazia, il Divino esterno cui il suo io confida che si mostra interiormente, il vero e unico Maestro, il Guru eterno o Mahapurusha a seconda il lignaggio cui si fa riferimento.

Se è la prima volta che si verifica questo riconoscimento lo consideri una iniziazione, un assaggio di ciò che realmente è; altrimenti lo veda come semplice evento parte di un processo di autoconoscenza. Quel flusso energetico che chiamiamo io, non siamo, non è. È un movimento che viene percepito, e che crede esistente la percezione. Con il tempo e se non sostenuto da altre causalità esso si esaurirà.

Nio.
Le sue parole mi hanno ricordato uno scritto di Meister Eckhart che lessi tempo fa.
L'autore stava parlando della vera povertà, ne riporto un brevissimo stralcio che mi colpì perchè lo sentii come blasfemo:
Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come inizio delle creature.

Ora, pur nella transitorietà dell'esperienza descritta, mi pare di cominciare a comprenderne il senso, la totale spoliazione indicata.

Ciò significa che una apertura, per quanto breve, può esser causa di un'ampliamento della comprensione?

Del resto lo stesso Meister Eckhart soggiungeva
Qui Dio è una sola cosa con lo spirito, e questa è la povertà più vera che si possa trovare. Chi non comprende questo discorso, non affligga perciò il suo cuore. Perché l'uomo non può comprendere questo discorso, finché non diventa uguale a questa verità. Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente dal cuore di Dio.
Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno.


Quando scrive: "Quel flusso energetico che chiamiamo io, non siamo, non è" intende che l'io non è, in quanto si tratta di fenomeno e, dunque, apparente? Ovvero: "È un movimento che viene percepito, e che crede esistente la percezione."
Potrebbe aiutarmi a comprendere il senso di quest'ultima frase: "Con il tempo e se non sostenuto da altre causalità esso si esaurirà."

Ho immaginato che, alla morte corporale, il fenomeno "io" si disgregherà in ogni caso nelle sue componenti psico-fisiche di base.
E' corretto?

In caso affermativo, quando lei afferma che "con il tempo e se non sostenuto da altre causalità esso si esaurirà", si sta riferendo alla morte in vita dei filosofi?
Quindi a qualcosa che potrebbe accadere nel corso di questa esistenza?

Da ultimo, mi perdoni per le tante domande (se ritiene le ripropongo una alla volta), vorrei chiederle di farmi un esempio di una delle causalità che sostengono l'io.

Suomy Nona.
Nio ha scritto:Le sue parole mi hanno ricordato uno scritto di Meister Eckhart che lessi tempo fa.
L'autore stava parlando della vera povertà, ne riporto un brevissimo stralcio che mi colpì perchè lo sentii come blasfemo:
Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come inizio delle creature.
Ora, pur nella transitorietà dell'esperienza descritta, mi pare di cominciare a comprenderne il senso, la totale spoliazione indicata.
Ciò significa che una apertura, per quanto breve, può esser causa di un'ampliamento della comprensione?
Non c' è alcunché che possa causare ciò che si è. Il flusso causale è proprio il velo/avidya che copre ciò che si è. Sono sprazzi di realtà, come un velo mosso dal vento scopre a tratti ciò che vela.
Quando scrive: "Quel flusso energetico che chiamiamo io, non siamo, non è." intende che l'io non è, in quanto si tratta di fenomeno e, dunque, apparente? Ovvero "È un movimento che viene percepito, e che crede esistente la percezione"
Non siamo l'io perché l'io non c'è. Provi a cercarsi e veda se si trova. Qualunque cosa trovi, sarà sempre altro da sé. A meno che lei non creda di essere l'insieme concatenato di cause ed effetti che man mano trova. Ma sarebbe come se affermasse di essere il suo corpo e se così fosse, più che dedicarsi a queste tematiche, sarebbe preferibile altro.
Potrebbe aiutarmi a comprendere il senso di quest'ultima frase: "Con il tempo e se non sostenuto da altre causalità esso si esaurirà."

Ho immaginato che, alla morte corporale, il fenomeno "io" si disgregherà in ogni caso nelle sue componenti psico-fisiche di base.
E' corretto?
In caso affermativo, quando lei afferma che "con il tempo e se non sostenuto da altre causalità esso si esaurirà", si sta riferendo alla morte in vita dei filosofi?
Quindi a qualcosa che potrebbe accadere nel corso di questa esistenza?
Qualunque filosofo cerchi la trascendenza, qualunque ierofante adori il Divino, starà praticando l'unica via, l'Ajati Vada, la Via della Non-Generazione.
Karma, Bhakti, Jnana, Asparsa Yoga sono tutte forme di Non-Generazione.
Da ultimo, mi perdoni per le tante domande (se ritiene le ripropongo una alla volta), vorrei chiederle di farmi un esempio di una delle causalità che sostengono l'io.
Facciamo così: ne trovi una che non lo sostenga.

Nio.
Pur avendolo iniziato, osservo una forte resistenza al proseguimento di questo colloquio.
C'è qualcosa in me che si rifiuta.
Anzi, potrei dire che tutto me si rifiuta e si aggrappa con determinazione a qualunque sostegno, per scivoloso che sia.
Comprendo piuttosto l'esperienza descritta di Ramakrishna, il suo abbraccio alla Madre, ma non c'è chi mi conficchi una scaglia di vetro fra le sopracciglia, forse non è l'ora.
Che vuol fare, ci si difende come si può.
Eppure mi tornano in mente, non senza allegria, le parole della Mandukya Upanishad (Advaita Prakarana)
39. Questo yoga, che viene denominato "asparsa" (senza alcun contatto), è difficile da comprendere per molti yogi perchè essi, che sentono la paura laddove non esiste, ne hanno timore.


Questo contrasto interiore è piuttosto interessante: da un lato l'ostilità, la paura, la rabbia, dall'altro un senso di leggerezza, stavo per dire di liberazione, ma sarebbe eccessivo.

La domanda che sorge spontanea è la seguente: che senso ha?
Affannarsi, faticare, soffrire e godere, sperare e disperarsi, nascere e morire, il dharma, il karma, preghiera e bestemmia, tutto quello che sembra accadere da questa parte del velo, che senso ha?
Se non si sta più che attenti si corre il rischio di desiderare di lasciar andare.


Suomy Nona.
Nio ha scritto:Pur avendolo iniziato, osservo una forte resistenza al proseguimento di questo colloquio.
C'è qualcosa in me che si rifiuta.
Anzi, potrei dire che tutto me si rifiuta e si aggrappa con determinazione a qualunque sostegno, per scivoloso che sia.
Comprendo piuttosto l'esperienza descritta di Ramakrishna, il suo abbraccio alla Madre, ma non c'è chi mi conficchi una scaglia di vetro fra le sopracciglia, forse non è l'ora.
Forse; ma lei ha insistito, ha chiesto chiarezza spietata e ha rimostrato quando si è cercato di indirizzarla altrove.

D'altra parte lei ha già una sua sadhana, sta entrando nella anacoresi di questa vita, ma svolge ancora dei compiti familiari non irrilevanti, ove realizzasse l'inconsistenza di quanto chiama io, chi rimarrebbe a condurli con la medesima intensità? In ambito tradizionale ciascuno affronta il carico karmico (causale) che ha. L'Advaita solitamente è il modus vivendi-esperienza degli asparsin ed esteriormente, tranne rari casi, questi sono samnyasin.
Che vuol fare, ci si difende come si può.
Eppure mi tornano in mente, non senza allegria, le parole della Mandukya Upanishad (Advaita Prakarana)
39. Questo yoga, che viene denominato "asparsa" (senza alcun contatto), è difficile da comprendere per molti yogi perchè essi, che sentono la paura laddove non esiste, ne hanno timore.


Questo contrasto interiore è piuttosto interessante: da un lato l'ostilità, la paura, la rabbia, dall'altro un senso di leggerezza, stavo per dire di liberazione, ma sarebbe eccessivo.

La domanda che sorge spontanea è la seguente: che senso ha?
Affannarsi, faticare, soffrire e godere, sperare e disperarsi, nascere e morire, il dharma, il karma, preghiera e bestemmia, tutto quello che sembra accadere da questa parte del velo, che senso ha?
Se non si sta più che attenti si corre il rischio di desiderare di lasciar andare.
Quanto lei ha descritto è la consunzione naturale e tradizionale del velo; chi invece di vivere la dissoluzione del velo, pratica la proiezione e sovrapposizione del velo stesso, dicono sia condannato alla dispersione della coscienza.

Nio.
Suomy Nona ha scritto: Forse; ma lei ha insistito, ha chiesto chiarezza spietata e ha rimostrato quando si è cercato di indirizzarla altrove.
Tutto vero.
Infatti si stava mostrando un moto interiore che si è chiamato "resistenza", ma non si è negata la persistenza della volontà di proseguire il presente colloquio.
D'altra parte lo sfregamento interiore fra il si è il no non è forse il miglior combustibile per mantenere acceso il fuoco?

[Poi] Scrive giustamente che L'Advaita di solito è il modus vivendi degli asparsin che rivestono la forma esteriore dei samnyasin.
Eppure ciò non rappresenta l'intera realtà.
Sono esistiti (ed esistono) asparsin che si sono fatti intero
carico del proprio ed altrui karma, mantenendo esteriormente forme diverse da quella del samnyasin.
Dunque si può, sebbene io non sappia come si può.
Chi c'era in questi casi a condurre quelle responsabilità?
Si tratta della corda incenerita che appare solo in quanto necessaria nel mondo del nome e della forma?
Quanto lei ha descritto è la consunzione naturale e tradizionale del velo; chi invece di vivere la dissoluzione del velo, pratica la proiezione e sovrapposizione del velo stesso, dicono sia condannato alla dispersione della coscienza.
Insomma un po' come dire: o mangi questa minestra o salti dalla finestra.
Bella scelta per un pover'uomo!

Ma lei non ha risposto alla domanda sul senso dell'apparenza.
Gliela ripropongo: che senso ha?

Suomy Nona
Nio ha scritto: Tutto vero.
Infatti si stava mostrando un moto interiore che si è chiamato "resistenza", ma non si è negata la persistenza della volontà di proseguire il presente colloquio.
D'altra parte lo sfregamento interiore fra il si è il no non è forse il miglior combustibile per mantenere acceso il fuoco?
L'attrito può accenderlo, ma il fuoco viene tenuto acceso dall'intensa aspirazione per il Reale.
Scrive giustamente che L'Advaita di solito è il modus vivendi degli asparsin che rivestono la forma esteriore dei samnyasin.
Eppure ciò non rappresenta l'intera realtà.
Sono esistiti (ed esistono) asparsin che si sono fatti intero carico del proprio ed altrui karma, mantenendo esteriormente forme diverse da quella del samnyasin.
Dunque si può, sebbene io non sappia come si può.
Chi c'era in questi casi a condurre quelle responsabilità?
Si tratta della corda incenerita che appare solo in quanto necessaria nel mondo del nome e della forma?
Osservi come in alcuni casi sono arrivati altri ad operare (Ramana e Ramakrishna). In altri c'erano già strutture operative (Shankara Math). Di altri casi non saprei, forse la corda aveva ancora delle fibre integre.
Insomma un po' come dire: o mangi questa minestra o salti dalla finestra.
Bella scelta per un pover'uomo!
Ma lei non ha risposto alla domanda sul senso dell'apparenza.
Gliela ripropongo: che senso ha?
Apprensione? E' lei ad affermare di Affannarsi, faticare, soffrire e godere, sperare e disperarsi, nascere e morire, dica lei che senso ha, è lei a viverla.


Nio. Lei dice:
L'attrito può accenderlo, ma il fuoco viene tenuto acceso dall'intensa aspirazione per il Reale.
Questa intensa aspirazione per il Reale potrebbe coincidere con lo sforzo del praticante?
Apprensione?
Apprensione nel significato di apprendimento?
In caso affermativo, se sono già Quello perchè apprendere e cosa apprendere che non sia già contenuto nel Sè?
E' lei ad affermare di Affannarsi, faticare, soffrire e godere, sperare e disperarsi, nascere e morire, dica lei che senso ha, è lei a viverla.
Mi scusi ma non capisco.
Per quanto abbia masticato e rimasticato non riesco a comprendere come potrei trovare in me il senso di ciò che esperisco consapevole della sua illusorietà.
Solo l'appiglio al Divino, interiore o esteriore che sia, mi aiuta a scoprire un senso alla vita.
Ma così si torna alle domande iniziali.
Potrebbe aiutarmi a risolvere il dilemma?

Suomy Nona
Lei chiede se questa intensa aspirazione per il Reale potrebbe coincidere con lo sforzo del praticante. Forse lo sforzo potrebbe esserne conseguenza.
Apprensione nel significato di apprendimento?
Sì.
Mi scusi ma non capisco.
Per quanto abbia masticato e rimasticato non riesco a comprendere come potrei trovare in me il senso di ciò che esperisco consapevole della sua illusorietà.
Solo l'appiglio al Divino, interiore o esteriore che sia, mi aiuta a scoprire un senso alla vita.
Ma così si torna alle domande iniziali.
Potrebbe aiutarmi a risolvere il dilemma?
Trovi le risposte sul piano ove le domanda. Altrimenti domanda e risposta collimeranno con difficoltà.

Nio.
Suomy Nona ha scritto:(Questa intensa aspirazione per il Reale potrebbe coincidere con lo sforzo del praticante?)
Forse lo sforzo potrebbe esserne conseguenza.
Certo, è così.
Lei ha la rara capacità di mettere ordine nel processo pensativo.
Ciò mi permette di osservare come non ci sia ordine nel mio pensare ma, al tempo stesso, mi offre la possibilità di apprendere, di educare la mente ad un pensiero più attivo.
La ringrazio.
E' questo il senso e lo scopo della dialettica?

Apprendere ad abbandonare i "se sono"?
Giusto, ma come si fa?
Contenuto del Sé? Che bello! Il Sé contiene come una brocca! Bene, lo pigli per il manico o per il bordo.
Ho tentato, ma sembra che non ci siano appigli, nè manico nè bordo, e mi son ritrovato a precipitare nel vuoto.
Invero, dà la nausea.
Trovi le risposte sul piano ove le domanda. Altrimenti domanda e risposta collimeranno con difficoltà.
In effetti, la confusione dei piani è un tipico errore dell'aspirante.
La ringrazio anche per questo richiamo.

Dunque, mantenendoci sul piano di esistenza in cui si sta verificando questo colloquio, che senso ha la sofferenza, il dolore del mondo, la crudeltà, in una parola: il male?
Perchè il male? Perchè, stanti le infinite possibilità dell'essere, non si è scelta una manifestazione essenziata esclusivamente di bene?



Suomy Nona
Nio ha scritto: Certo, è così.
Lei ha la rara capacità di mettere ordine nel processo pensativo.
Ciò mi permette di osservare come non ci sia ordine nel mio pensare ma, al tempo stesso, mi offre la possibilità di apprendere, di educare la mente ad un pensiero più attivo.
La ringrazio.
E' questo il senso e lo scopo della dialettica?
Non posso mostrare ciò che non ha, posso solo mostrare ciò che già i suoi occhi vedono e il suo cuore conosce. I suoi pensieri sono nelle sue parole, posso solo mostrare se essi si contraddicono.

Lei chiede: "Come si fa ad apprendere ad abbandonare i "se sono"?

Smettere di cercare certezze. Se qualcosa la si conosce, non c'è bisogno di indagare. Né si può indagare su qualcosa che non si conosce. Pertanto si può indagare solo su ciò che già si conosce, ma in tal caso essendo inutile indagare, ci si contenti di vedere, di osservare, senza costruire inutili inferenze tese a soddisfare il basso bisogno del manas o mente empirica di avere certezze. Possiamo discutere per ore su come sia una rosa o quante zampe abbia una mosca, faremo prima a osservare mosca e rosa. Perché permettere alla mente di avere certezze che non esistono?
Su sei miliardi di persone troveremo sempre chi sosterrà che quella non è una rosa e che quella non è una mosca. Pertanto non esisterà mai assolutezza in questo piano, ed è inutile cercarla qui.
(Contenuto del Sé? Che bello! Il Sé contiene come una brocca! Bene, lo pigli per il manico o per il bordo.)
Ho tentato, ma sembra che non ci siano appigli, nè manico nè bordo, e mi son ritrovato a precipitare nel vuoto.
Invero, dà la nausea.
Allora perché parla di contenuto del Sé? E' ovvio che non esiste alcun contenuto nel Sé, e ne è riprova del suo precipitare. Smetta di considerare il Sé come un oggetto, con una sua natura. Non lo è, non ne ha. A parte l'inseità il Sé non ha natura o caratteristiche. Affinché sia percettibile occorre farlo "copulare" con la natura stessa, è l'unione con Essa che permette di dire "questa è una rosa, quella è una mosca, quell'altra è una brocca. In Italiano chiamamo copula l'"è". Il Sé non ha contenuti, piuttosto li sostiene tutti. E quanto lei chiama il cadere, è il semplice momentaneo distacco della mente da questi contenuti. Col tempo si apprende che non c'è alcun luogo o posto ove precipitare e allora non si precipita; sono semplici fasi mentali.
Dunque, mantenendoci sul piano di esistenza in cui si sta verificando questo colloquio, che senso ha la sofferenza, il dolore del mondo, la crudeltà, in una parola: il male?
Perchè il male? Perchè, stanti le infinite possibilità dell'essere, non si è scelta una manifestazione essenziata esclusivamente di bene?
Male? Dove?

Quando un corpo muore, i semi causali sono liberi di predisporsi ad incarnare nuovamente l'essere con rinnovata energia.

Quando un corpo muore, batteri e altri animali sono liberi di dissociare gli elementi per renderli disponibili a nuova vita.

Quando un corpo muore, alcuni astanti identificati con il corpo soffrono, ma è una loro scelta il non essere felici della rinascita.

Quando c'è una rapina, il bene è per chi si arricchisce.

Se voglio la gioia mi apro al dolore.

Se immagino il bene, cerco il male.

Siamo come vestiti che si turbano quando finiscono in lavatrice o bottiglie di vetro cui non piace essere riciclate.

Il mondo segue le leggi molto semplici della causalità e ogni esperienza ci è data; io sono l'uccisore e l'ucciso. Il problema sorge quando cerchiamo qui quello che non c'è, ossia l'eternità, la perfezione, la vita eterna. Quella persona che ci è cara morirà comunque, quanto avremmo voluto che vivesse? E' sua la vita, non possiamo possederla... la sua causalità si sostiene sino a quando è attiva, poi si disgrega per semplice entropia.

E infine come concepire il bene senza quanto lei chiama male? Alcuni parlano di conoscenza e ignoranza, vidya e avidya.

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