Dialoghi con Premadharma
Inviato: 12/02/2017, 20:51
Dialogo con Premadharma - tratto da forum pitagorico 30/06/2014
D. È stato detto che "si ha più paura di perdere la propria individualità che della morte fisica"...
Forse perchè nella esperienza ordinaria le due cose appaiono coincidere...
Ma a parte ciò, concordo sulla paura di perdere la propria individualità, alzi la mano chi non l'ha!
O abbiamo tutti desiderio di una obnubilazione di sè? Io penso a cosa "ero" prima di essere nato, e tale stato mi mette i brividi.
R. Perché?
D. Perché, sempre in base all'esperienza ordinaria che io, in buona compagnia, vivo, non riesco ad immaginare "il nulla" che io ero prima di nascere.
R. Su quali basi inferisci e credi di essere stato "il nulla" prima di nascere?
D. Inferisco in base ai miei ricordi. Più mi allontano dal presente più il ricordo della consapevolezza di me si fa flebile. Ne convengo, dunque, (se preferisci, inferisco) che prima della mia nascita su questo livello di esistenza, non avevo alcuna consapevolezza di me (sempre che ci fosse un "me" di cui avere consapevolezza, a quel dato momento, cosa del tutto da provare).
Per esempio penso che se quello stato di pre-nascita è analogo al sonno profondo, è analogamente agghiacciante
Astante: Trovi agghiacciante una bella dormita?
D. Assimilavo lo stato di pre-nascita a quello di post-mortem.
Ora, puoi dire che "è stata una bella dormita" solo quando ti svegli e rientri nello stato ordinario di coscienza.
Se ciò non accade concepisco l’"esperienza" del sonno profondo come agghiacciante.
R. Prima hai parlato del "ricordo della consapevolezza di me", mi descrivi per favore questa esperienza? Non la conosco o non riesco ad identificarla.
D. Io sono (ora).
Mi ricordo che ieri e l'altro ieri potevo affermare lo stesso, e così a ritroso ma ad un certo punto questa asserzione non vale più nel passato.
Inferisco che vi sia una cesura, e la colloco nel tempo in cui io non ero neanche nelle intenzioni dei miei genitori.
R. Dove è la consapevolezza di te? Stai affermando che sei ora, quindi ti stai collocando nello spazio - tempo, non c'è alcuna consapevolezza di te (che è slegata dallo spazio tempo).
Tu stai ricordando una affermazione o la possibilità di affermazione. Stai legando sì due eventi mnemonici, ma senza alcuna consapevolezza di te, nemmeno discontinua.
Affermare io sono non è essere consapevoli. Stai affermando una tua esistenza perché c'è la percezione.
D. Dici:«Stai affermando una tua esistenza perché c'è la percezione», sì, è così, per quanto mi riguarda questa è la mia esperienza, tutto il resto, per me, è inferenza, come la possibilità che questa facoltà percipiente “di me” cessi con la morte, e il fatto che sia una inferenza non attenua la sensazione di disagio che questa eventualità mi procura.
R. Ok, stai parlando della coscienza corporea. Nel sogno non c'è alcuna coscienza corporea, né percezione. Eppure converrai che esisti.
D. Non parlo di coscienza corporea, ma di coscienza del me interiore.
In ogni caso, riguardo al sonno, il fatto che io "esista" nel sonno lo posso appurare solo quando sono sveglio. Nel sonno in sè non ho alcun ricordo di aver coscienza di esistere.
Per quanto concerne il sogno, tale coscienza c'è, ma c'è anche appercezione di sè, eccome.
R. Non riesco più a seguire il tuo discorso. Per poter proseguire occorre definire che cosa intendi per:
- me interiore
- coscienza del me interiore
- appercezione (Secondo Leibniz - percezione della percezione. Secondo Kant - Io penso)
- appercezione di sè
- sé (che appercepisci)
Le poni come esperienze diverse, diversificando fra un "me interiore" e un "sé"...
D. Non le pongo come esperienze diverse. Scusa, utilizzo termini inappropriati, ma mi spiego: il me interiore che percepisco è la coscienza che sento di essere, quindi direi è più l'"io penso" (me stesso) di Kant piuttosto che la percezione secondo Leibniz. Appercezione perchè non è semplice percezione quale quella corporea, ma qualcosa di più sottile.
Parlo di "me" perchè è la mia esperienza. Successivamente ho parlato di "appercezione di sè" perchè mi riferivo all'esperienza di sogno in generale, quindi il soggetto diventava impersonale, e perciè ho utilizzato il "sè", che è sempre il sè individuale, che nel mio caso è il "me", nel tuo caso lo definirei il "te" etc.
R. Purtroppo, se non si usano termini di cui si condivide il significato, è inutile ogni forma di dialogo.
Ad esempio se si definisse, come ha fatto prima un fratello, l'Assoluto come "ciò che non si conosce di sè" sarebbe un azzardo che poi porterebbe molte complicazioni successive.
In questi dialoghi cerchiamo di utilizzare un linguaggio filosofico accademico perché riscontrabile in testi condivisibili (dizionari filosofici) e anche perché permette facilmente le traduzioni con/da altre lingue.
Quindi ad esempio ne consegue che per Realtà vale la definizione di ciò che non cambia, che non è soggetto al divenire.
C'è poi la distinzione fra una Realtà Pura (Essere o Atman) intesa distinta dalla Realtà Assoluta (o Brahman), perché mentre la seconda è ab solutus, senza alcuna legame o collegamento, la prima è ancora definibile quale pura esistenza. Devo però ammettere che per questi termini non ho mai controllato a fondo l'etimologia, ma ne ho preso uso dai testi dell'Asram Vidya.
Riprendiamo. Prima dicevi:
Non parlo di coscienza corporea, ma di coscienza del me interiore. In ogni caso, riguardo al sonno, il fatto che io "esista" nel sonno lo posso appurare solo quando sono sveglio. Nel sonno in sè non ho alcun ricordo di aver coscienza di esistere. Per quanto concerne il sogno, tale coscienza c'è, ma c'è anche appercezione di sè, eccome.
Allora non capisco. Nella veglia, ti pensi, quindi hai coscienza di te. Nel sogno? Sostieni che è doppia (coscienza di me e appercezione di sé)?
Il che starebbe anche bene. Un aspirante anziano può vivere abitualmente i sogni consapevole di essere in uno stato di sogno.
D. Sui termini, bisogna pure dire che talvolta alcuni termini possono andare stretti o semplicemente non li si conosce. Ciò accade per l'italiano, che è la nostra lingua madre, tanto più per i termini del glossario dell'ashram vidya...
Detto ciò, dimmi tu come si può definire la percezione di sè (minuscolo) senza che essa sia necessariamente di natura corporea (per quello ho utilizzato il termine "appercezione").
In ogni caso lasciamo pure perdere il concetto di appercezione. È accettabile la definizione "coscienza di me"?
Allora, nella veglia ho coscienza (corporea) di me, ma in taluni momenti posso avere coscienza del "me" interiore, cosa che invece ho sempre nei sogni (coscienza di me non corporea).
Ora, queste esperienze le riconosco e quindi le prendo come vere, ma nel sonno profondo non posso dire altrettanto: non ho coscienza di me, nè corporea, nè incorporea. Difatti quando mi sveglio nulla posso dire di questa esperienza: obnubilazione totale.
Dunque, se lo stato pre nascita e post mortem è assimilabile al sonno profondo, per quanto è nella mia esperienza, la cosa non mi piace per niente, anzi mi agghiaccia.
Sono riuscito a spiegarmi?
R. Direi di no, allora, ho coscienza del corpo. Ma non ho alcuna coscienza di me. Ho coscienza delle emozioni. Ho coscienza dei pensieri. Ho coscienza della gioia. Non riesco a trovare alcun me di cui essere cosciente. D'altra parte come si potrebbe essere coscienti di sé... un occhio può vedere sé stesso? Una mano può afferrare sé stessa?
D. Va bene allora non sono cosciente di ciò che sono veramente, ma sono cosciente del mio corpo dei miei pensieri etc. Ci sto. Questo non elimina, anzi acuisce il fatto che nella mia esperienza, ciò di cui non sono cosciente (cioè il 'non so"), proprio perchè non ne sono cosciente è uno stato che non augurerei al mio peggior nemico.
Quale beatitudine vi è nell'"essere" senza esserne coscienti?
E perchè Ramana parla di beatitudine del Sé, ma solo quando riacquisisce coscienza di sè?
R. Il Vedanta afferma ( e con esso la testimonianza di tutti coloro che l'hanno verificato e dei vari altri rami tradizionali) che noi siamo proprio ciò che assiste le azioni del corpo, ai pensieri, etc. Questo quid che alcuni chiamano io sono, altri (in una fase iniziale) testimone, essente, mente, jivatman, jiva, essere umano, essere individuato, individuo, persona, etc.
Dell'essere non è possibile essere coscienti, in quanto la coscienza implica un soggetto, un oggetto e una relazione fra i due (qualcuno usa percipienza o percezione quando la relazione avviene attraverso i sensi, e coscienza quando invece appartiene al mondo interiore).
L'essente che sono può essere "liberato" dalle adesioni ai pensieri, dalla sovrapposizione sulle emozioni (paura, benessere, etc); riuscire ad essere centrati sull'io sono, senza distrazioni di sorta, senza adesioni, senza illusioni, etc. viene detta consapevolezza di sé. Gli aspiranti anziani affermano che questa consapevolezza può essere completamente introflessa e cade ogni percezione o coscienza di alterità, o contemporaneamente anche estroflessa (al momento non viene il termine più adatto) e quindi avere percezione e coscienza di alterità.
La maggioranza degli aspiranti necessita tempo per man mano riconoscere le adesioni e la coscienza interiore dei pensieri, emozioni, etc. E tale identificazione spaventa perché è una sorta di spoliazione dell'io che determina emozioni di paura, perché l'assenza di identificazioni, la presa di consapevolezza dell'essente viene vissuta come deserto, desolazione, vuoto, etc.
Ciò di cui non sei cosciente, quanto dici il "non so", è ciò che sei, il tuo punto di osservazione, il centro di ogni coscienza, consapevolezza, etc.
Parliamo di beatitudine. Della beatitudine siamo coscienti, in quanto nella testimonianza che ci danno i saggi o qualche aspirante anziano, nonché i vari rami tradizionali, essa viene considerata uno stato di coscienza, una guaina corporea, un vero e proprio involucro di cui l'ente ha coscienza-esperienza. In molti chiamano "io" l'insieme degli Stati di coscienza, ossia la coscienza e percezione dei vari involucri. Alcuni includono nell'io l'esperienza del corpo, ossia identificano sé stessi con il corpo.
Ramana e chiunque parla della beatitudine, non quando riprende consapevolezza di sé (in quanto quella non viene mai meno), ma quando riprende la coscienza corporea necessaria per percepire l'astante cui parlare e l'uso del corpo con cui parlare.
Esiste poi un altro stato chiamato sat-cit-ananda, Brahman, turiya, Realtà Assoluta, che è un definitivo assorbimento nell'essente. Ovviamente per parlarne occorre la coscienza corporea, anche se entriamo in un ambito dove le testimonianze sono rare e raramente riscontrabili nella vita degli aspiranti.
D .Quindi, la consapevolezza trascende anche la beatitudine, in quanto involucro.
Ora, che motivo c'è per un aspirante trascendere anche lo stato di beatitudine (che, essendo uno stato di coscienza, è esperibile dal soggetto individualizzato) per giungere ad una consapevolezza piena di.... niente?
R. Infatti Totapuri il guru di Ramakrishna dovette faticare a smuovere l'allievo dal piano dell'Ananda in cui contemplava la Madre Divina. Alcuni lo fanno per amore del guru o del lignaggio, altri non si fermano nemmeno sul piano dell'Ananda.
Considera che la consapevolezza o inseità o conoscenza del Sé è autobastevole in sé. Da qualche parte nel forum c'è l'esempio di onde singole, pelo dell'acqua e profondità come metafora delle diverse esperienze.
D. Quando parli di consapevolezza estroflessa ti riferisci alla ri-acquisizione della coscienza individualizzata? A questo livello si può tornare a parlare di beatitudine, credo.
R. A quel punto si può parlare di coscienza puntuale, perché non si individualizza più. Si ripristina la coscienza degli involucri, ma senza più adesioni, sovrapposizioni, etc. se non fittizie o finte. Si ha come una corda incenerita che conservi la struttura apparente ma non la forza o la possibilità di legare o cingere. Poi dipende sin dove si svolge il processo di bilanciamento degli involucri e relativo utilizzo.
D. Perchè non si dovrebbe immaginare questo come step finale? Perchè alcuni aspiranti preferiscono questo stato ? Posso comprenderli...
Mi sai fare un esempio di chi, invece, tra i maestri, è rimasto allo stato indifferenziato in vita
R. Dicono i diversi yogi che sono morti in nirvikalpa samadhi. Un altro esempio è di quei Maestri che non si riescono a commensurare con le necessità degli astanti, a parte i perecottari di "Sei già quello, non c'è bisogno di alcuno sforzo, paga il satsanga!"
D. Grazie. Un'ultima cosa, mi domando come sia possibile passare dallo stato di consapevolezza a quello di coscienza puntuale? Chi o cosa riporta il (realizzato?) allo stato puntuale? Non vi è il rischio di rimanere inviluppato nella vacuità? Per quello parlavo di buco nero.
R. Intrappolati nella vacuità? No. Primo perché chi vive tale stato non la sente come tale, secondo perché l'essere tende naturalmente a manifestare la molteplicità. Però osservando vediamo che Ramakrishna sceglie un piano di esistenza alto (entrava spessissimo in samadhi contemplativi), mentre Ramana sceglie il piano consueto. Entrambi mantengono inalterata la consapevolezza del Sé.
D. E poi volevo capire dopo la morte. Con il disfacimento degli involucri, cosa sorreggerà la coscienza puntuale?
R. Nulla. Ramana cercò proprio di lasciarla. Considera che dicono che i vari involucri necessitino tempo per dissolversi.
D. In base a quanto hai appena detto, perlomeno fino a quando permangono le guaine, si può "essere" mantenendo la coscienza (puntuale) di "essere"?
R. Quando parlo di coscienza "puntuale" sono termini arbitrari perché non li si è trovati in letteratura. Il termine lo si è adottato perché il centro di percezione può anche essere diffuso, distribuito, particellare, etc., nel caso dell'essere individuato è, sì, puntuale ma immaginato proprio in un non ben identificato "io" a sua volta formato proprio da aspetti percepiti (corpo fisico, pensieri, emozioni, etc), quindi è autoevidente che esso non può essere il soggetto percettivo essendo costituito da oggetti percepiti. Parlando con esseri stimati realizzati (con ampia significazione del termine), essi sembrano il più delle volte mantenere entro i limiti della persona il centro percettivo.
Non ricordo le parole precise di Ramana, ma sembra di ricordare che quando decise in un certo momento di lasciare il corpo, accennò ad una sorta di immersione nella natura. Ma è meglio verificare.
D. È stato detto che "si ha più paura di perdere la propria individualità che della morte fisica"...
Forse perchè nella esperienza ordinaria le due cose appaiono coincidere...
Ma a parte ciò, concordo sulla paura di perdere la propria individualità, alzi la mano chi non l'ha!
O abbiamo tutti desiderio di una obnubilazione di sè? Io penso a cosa "ero" prima di essere nato, e tale stato mi mette i brividi.
R. Perché?
D. Perché, sempre in base all'esperienza ordinaria che io, in buona compagnia, vivo, non riesco ad immaginare "il nulla" che io ero prima di nascere.
R. Su quali basi inferisci e credi di essere stato "il nulla" prima di nascere?
D. Inferisco in base ai miei ricordi. Più mi allontano dal presente più il ricordo della consapevolezza di me si fa flebile. Ne convengo, dunque, (se preferisci, inferisco) che prima della mia nascita su questo livello di esistenza, non avevo alcuna consapevolezza di me (sempre che ci fosse un "me" di cui avere consapevolezza, a quel dato momento, cosa del tutto da provare).
Per esempio penso che se quello stato di pre-nascita è analogo al sonno profondo, è analogamente agghiacciante
Astante: Trovi agghiacciante una bella dormita?
D. Assimilavo lo stato di pre-nascita a quello di post-mortem.
Ora, puoi dire che "è stata una bella dormita" solo quando ti svegli e rientri nello stato ordinario di coscienza.
Se ciò non accade concepisco l’"esperienza" del sonno profondo come agghiacciante.
R. Prima hai parlato del "ricordo della consapevolezza di me", mi descrivi per favore questa esperienza? Non la conosco o non riesco ad identificarla.
D. Io sono (ora).
Mi ricordo che ieri e l'altro ieri potevo affermare lo stesso, e così a ritroso ma ad un certo punto questa asserzione non vale più nel passato.
Inferisco che vi sia una cesura, e la colloco nel tempo in cui io non ero neanche nelle intenzioni dei miei genitori.
R. Dove è la consapevolezza di te? Stai affermando che sei ora, quindi ti stai collocando nello spazio - tempo, non c'è alcuna consapevolezza di te (che è slegata dallo spazio tempo).
Tu stai ricordando una affermazione o la possibilità di affermazione. Stai legando sì due eventi mnemonici, ma senza alcuna consapevolezza di te, nemmeno discontinua.
Affermare io sono non è essere consapevoli. Stai affermando una tua esistenza perché c'è la percezione.
D. Dici:«Stai affermando una tua esistenza perché c'è la percezione», sì, è così, per quanto mi riguarda questa è la mia esperienza, tutto il resto, per me, è inferenza, come la possibilità che questa facoltà percipiente “di me” cessi con la morte, e il fatto che sia una inferenza non attenua la sensazione di disagio che questa eventualità mi procura.
R. Ok, stai parlando della coscienza corporea. Nel sogno non c'è alcuna coscienza corporea, né percezione. Eppure converrai che esisti.
D. Non parlo di coscienza corporea, ma di coscienza del me interiore.
In ogni caso, riguardo al sonno, il fatto che io "esista" nel sonno lo posso appurare solo quando sono sveglio. Nel sonno in sè non ho alcun ricordo di aver coscienza di esistere.
Per quanto concerne il sogno, tale coscienza c'è, ma c'è anche appercezione di sè, eccome.
R. Non riesco più a seguire il tuo discorso. Per poter proseguire occorre definire che cosa intendi per:
- me interiore
- coscienza del me interiore
- appercezione (Secondo Leibniz - percezione della percezione. Secondo Kant - Io penso)
- appercezione di sè
- sé (che appercepisci)
Le poni come esperienze diverse, diversificando fra un "me interiore" e un "sé"...
D. Non le pongo come esperienze diverse. Scusa, utilizzo termini inappropriati, ma mi spiego: il me interiore che percepisco è la coscienza che sento di essere, quindi direi è più l'"io penso" (me stesso) di Kant piuttosto che la percezione secondo Leibniz. Appercezione perchè non è semplice percezione quale quella corporea, ma qualcosa di più sottile.
Parlo di "me" perchè è la mia esperienza. Successivamente ho parlato di "appercezione di sè" perchè mi riferivo all'esperienza di sogno in generale, quindi il soggetto diventava impersonale, e perciè ho utilizzato il "sè", che è sempre il sè individuale, che nel mio caso è il "me", nel tuo caso lo definirei il "te" etc.
R. Purtroppo, se non si usano termini di cui si condivide il significato, è inutile ogni forma di dialogo.
Ad esempio se si definisse, come ha fatto prima un fratello, l'Assoluto come "ciò che non si conosce di sè" sarebbe un azzardo che poi porterebbe molte complicazioni successive.
In questi dialoghi cerchiamo di utilizzare un linguaggio filosofico accademico perché riscontrabile in testi condivisibili (dizionari filosofici) e anche perché permette facilmente le traduzioni con/da altre lingue.
Quindi ad esempio ne consegue che per Realtà vale la definizione di ciò che non cambia, che non è soggetto al divenire.
C'è poi la distinzione fra una Realtà Pura (Essere o Atman) intesa distinta dalla Realtà Assoluta (o Brahman), perché mentre la seconda è ab solutus, senza alcuna legame o collegamento, la prima è ancora definibile quale pura esistenza. Devo però ammettere che per questi termini non ho mai controllato a fondo l'etimologia, ma ne ho preso uso dai testi dell'Asram Vidya.
Riprendiamo. Prima dicevi:
Non parlo di coscienza corporea, ma di coscienza del me interiore. In ogni caso, riguardo al sonno, il fatto che io "esista" nel sonno lo posso appurare solo quando sono sveglio. Nel sonno in sè non ho alcun ricordo di aver coscienza di esistere. Per quanto concerne il sogno, tale coscienza c'è, ma c'è anche appercezione di sè, eccome.
Allora non capisco. Nella veglia, ti pensi, quindi hai coscienza di te. Nel sogno? Sostieni che è doppia (coscienza di me e appercezione di sé)?
Il che starebbe anche bene. Un aspirante anziano può vivere abitualmente i sogni consapevole di essere in uno stato di sogno.
D. Sui termini, bisogna pure dire che talvolta alcuni termini possono andare stretti o semplicemente non li si conosce. Ciò accade per l'italiano, che è la nostra lingua madre, tanto più per i termini del glossario dell'ashram vidya...
Detto ciò, dimmi tu come si può definire la percezione di sè (minuscolo) senza che essa sia necessariamente di natura corporea (per quello ho utilizzato il termine "appercezione").
In ogni caso lasciamo pure perdere il concetto di appercezione. È accettabile la definizione "coscienza di me"?
Allora, nella veglia ho coscienza (corporea) di me, ma in taluni momenti posso avere coscienza del "me" interiore, cosa che invece ho sempre nei sogni (coscienza di me non corporea).
Ora, queste esperienze le riconosco e quindi le prendo come vere, ma nel sonno profondo non posso dire altrettanto: non ho coscienza di me, nè corporea, nè incorporea. Difatti quando mi sveglio nulla posso dire di questa esperienza: obnubilazione totale.
Dunque, se lo stato pre nascita e post mortem è assimilabile al sonno profondo, per quanto è nella mia esperienza, la cosa non mi piace per niente, anzi mi agghiaccia.
Sono riuscito a spiegarmi?
R. Direi di no, allora, ho coscienza del corpo. Ma non ho alcuna coscienza di me. Ho coscienza delle emozioni. Ho coscienza dei pensieri. Ho coscienza della gioia. Non riesco a trovare alcun me di cui essere cosciente. D'altra parte come si potrebbe essere coscienti di sé... un occhio può vedere sé stesso? Una mano può afferrare sé stessa?
D. Va bene allora non sono cosciente di ciò che sono veramente, ma sono cosciente del mio corpo dei miei pensieri etc. Ci sto. Questo non elimina, anzi acuisce il fatto che nella mia esperienza, ciò di cui non sono cosciente (cioè il 'non so"), proprio perchè non ne sono cosciente è uno stato che non augurerei al mio peggior nemico.
Quale beatitudine vi è nell'"essere" senza esserne coscienti?
E perchè Ramana parla di beatitudine del Sé, ma solo quando riacquisisce coscienza di sè?
R. Il Vedanta afferma ( e con esso la testimonianza di tutti coloro che l'hanno verificato e dei vari altri rami tradizionali) che noi siamo proprio ciò che assiste le azioni del corpo, ai pensieri, etc. Questo quid che alcuni chiamano io sono, altri (in una fase iniziale) testimone, essente, mente, jivatman, jiva, essere umano, essere individuato, individuo, persona, etc.
Dell'essere non è possibile essere coscienti, in quanto la coscienza implica un soggetto, un oggetto e una relazione fra i due (qualcuno usa percipienza o percezione quando la relazione avviene attraverso i sensi, e coscienza quando invece appartiene al mondo interiore).
L'essente che sono può essere "liberato" dalle adesioni ai pensieri, dalla sovrapposizione sulle emozioni (paura, benessere, etc); riuscire ad essere centrati sull'io sono, senza distrazioni di sorta, senza adesioni, senza illusioni, etc. viene detta consapevolezza di sé. Gli aspiranti anziani affermano che questa consapevolezza può essere completamente introflessa e cade ogni percezione o coscienza di alterità, o contemporaneamente anche estroflessa (al momento non viene il termine più adatto) e quindi avere percezione e coscienza di alterità.
La maggioranza degli aspiranti necessita tempo per man mano riconoscere le adesioni e la coscienza interiore dei pensieri, emozioni, etc. E tale identificazione spaventa perché è una sorta di spoliazione dell'io che determina emozioni di paura, perché l'assenza di identificazioni, la presa di consapevolezza dell'essente viene vissuta come deserto, desolazione, vuoto, etc.
Ciò di cui non sei cosciente, quanto dici il "non so", è ciò che sei, il tuo punto di osservazione, il centro di ogni coscienza, consapevolezza, etc.
Parliamo di beatitudine. Della beatitudine siamo coscienti, in quanto nella testimonianza che ci danno i saggi o qualche aspirante anziano, nonché i vari rami tradizionali, essa viene considerata uno stato di coscienza, una guaina corporea, un vero e proprio involucro di cui l'ente ha coscienza-esperienza. In molti chiamano "io" l'insieme degli Stati di coscienza, ossia la coscienza e percezione dei vari involucri. Alcuni includono nell'io l'esperienza del corpo, ossia identificano sé stessi con il corpo.
Ramana e chiunque parla della beatitudine, non quando riprende consapevolezza di sé (in quanto quella non viene mai meno), ma quando riprende la coscienza corporea necessaria per percepire l'astante cui parlare e l'uso del corpo con cui parlare.
Esiste poi un altro stato chiamato sat-cit-ananda, Brahman, turiya, Realtà Assoluta, che è un definitivo assorbimento nell'essente. Ovviamente per parlarne occorre la coscienza corporea, anche se entriamo in un ambito dove le testimonianze sono rare e raramente riscontrabili nella vita degli aspiranti.
D .Quindi, la consapevolezza trascende anche la beatitudine, in quanto involucro.
Ora, che motivo c'è per un aspirante trascendere anche lo stato di beatitudine (che, essendo uno stato di coscienza, è esperibile dal soggetto individualizzato) per giungere ad una consapevolezza piena di.... niente?
R. Infatti Totapuri il guru di Ramakrishna dovette faticare a smuovere l'allievo dal piano dell'Ananda in cui contemplava la Madre Divina. Alcuni lo fanno per amore del guru o del lignaggio, altri non si fermano nemmeno sul piano dell'Ananda.
Considera che la consapevolezza o inseità o conoscenza del Sé è autobastevole in sé. Da qualche parte nel forum c'è l'esempio di onde singole, pelo dell'acqua e profondità come metafora delle diverse esperienze.
D. Quando parli di consapevolezza estroflessa ti riferisci alla ri-acquisizione della coscienza individualizzata? A questo livello si può tornare a parlare di beatitudine, credo.
R. A quel punto si può parlare di coscienza puntuale, perché non si individualizza più. Si ripristina la coscienza degli involucri, ma senza più adesioni, sovrapposizioni, etc. se non fittizie o finte. Si ha come una corda incenerita che conservi la struttura apparente ma non la forza o la possibilità di legare o cingere. Poi dipende sin dove si svolge il processo di bilanciamento degli involucri e relativo utilizzo.
D. Perchè non si dovrebbe immaginare questo come step finale? Perchè alcuni aspiranti preferiscono questo stato ? Posso comprenderli...
Mi sai fare un esempio di chi, invece, tra i maestri, è rimasto allo stato indifferenziato in vita
R. Dicono i diversi yogi che sono morti in nirvikalpa samadhi. Un altro esempio è di quei Maestri che non si riescono a commensurare con le necessità degli astanti, a parte i perecottari di "Sei già quello, non c'è bisogno di alcuno sforzo, paga il satsanga!"
D. Grazie. Un'ultima cosa, mi domando come sia possibile passare dallo stato di consapevolezza a quello di coscienza puntuale? Chi o cosa riporta il (realizzato?) allo stato puntuale? Non vi è il rischio di rimanere inviluppato nella vacuità? Per quello parlavo di buco nero.
R. Intrappolati nella vacuità? No. Primo perché chi vive tale stato non la sente come tale, secondo perché l'essere tende naturalmente a manifestare la molteplicità. Però osservando vediamo che Ramakrishna sceglie un piano di esistenza alto (entrava spessissimo in samadhi contemplativi), mentre Ramana sceglie il piano consueto. Entrambi mantengono inalterata la consapevolezza del Sé.
D. E poi volevo capire dopo la morte. Con il disfacimento degli involucri, cosa sorreggerà la coscienza puntuale?
R. Nulla. Ramana cercò proprio di lasciarla. Considera che dicono che i vari involucri necessitino tempo per dissolversi.
D. In base a quanto hai appena detto, perlomeno fino a quando permangono le guaine, si può "essere" mantenendo la coscienza (puntuale) di "essere"?
R. Quando parlo di coscienza "puntuale" sono termini arbitrari perché non li si è trovati in letteratura. Il termine lo si è adottato perché il centro di percezione può anche essere diffuso, distribuito, particellare, etc., nel caso dell'essere individuato è, sì, puntuale ma immaginato proprio in un non ben identificato "io" a sua volta formato proprio da aspetti percepiti (corpo fisico, pensieri, emozioni, etc), quindi è autoevidente che esso non può essere il soggetto percettivo essendo costituito da oggetti percepiti. Parlando con esseri stimati realizzati (con ampia significazione del termine), essi sembrano il più delle volte mantenere entro i limiti della persona il centro percettivo.
Non ricordo le parole precise di Ramana, ma sembra di ricordare che quando decise in un certo momento di lasciare il corpo, accennò ad una sorta di immersione nella natura. Ma è meglio verificare.