Il gruppo che cura Vedanta.it inizia ad incontrarsi sul web a metà degli anni 90. Dopo aver dialogato su mailing list e forum per vent'anni, ha optato per questo forum semplificato e indirizzato alla visione di Shankara.
Si raccomanda di tenere il forum libero da conflittualità e oscurità di ogni genere.
Grazie

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 23/01/2017, 18:06

Fedro, ma anche Nowhere e latriplice:
《Il corpo, il paradiso e l'inferno, la schiavitù e la liberazione, finanche la paura, sono solo immaginazione. Cosa rimane da fare a me la cui reale natura è consapevolezza?》

Asthavakra Gita
Teoricamente (o praticamente ,se possibile) rimane da osservare (essere presenti, consapevoli a ciò) quello che in queste parole viene testimoniato.
Tutto il resto è ancora immaginazione, congettura, pensiero, inferenza, aderenza ecc. come tutto quello che ne è stato partorito in questo thread.
Verissimo, è tutta immaginazione, sia questo argomento, sia la frase dell'Asthavakra Gita. Tanto che, alla fine, volendo, può sparire anche l'osservazione di tali parole, qui suggerita.
MA niente a quel punto impedirà che "il corpo, il paradiso, l'inferno, la schiavitù, la liberazione, finanche la paura", possano tornare (con tutta la loro apparenza, certo, creduta PERO' reale), così come sono già apparse e attualmente in atto (apparentemente, da un certo punto di vista, certo; ma anche non apparentemente, da un altro punto di vista, cioè appunto quello nostro attuale). Da quel che ho compreso, ci sono persino alcuni maestri e insegnamenti che sembrano suggerire il fatto che possiamo impedire (perlomeno se prendiamo consapevolezza ora di questa possibilità) che tutto ciò torni (che torni a noi in quanto Brahman, non a noi in quanto jiva).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 23/01/2017, 18:07

latriplice:
Dipende a cosa ti riferisci intendendo il jiva:

Quella parte del Sé identificato al complesso corpo-mente-sensi (upadhi) e per via di questo malinteso ignorante della propria natura in quanto ordinaria, imperturbabile, illimitata, non agente e non duale consapevolezza?

Oppure:

al complesso corpo-mente-sensi stesso oggetto dell'identificazione, un'appendice limitata di materia inerte che riproduce meccanicamente modelli di comportamento secondo programmi prestabiliti e la qualità dei guna prevalente. Una macchina che apparentemente prende vita in ragione della presenza "illuminante" della coscienza che svolge le seguenti funzioni meccaniche: i sensi percepiscono, la mente riproduce una immagine coerente e dubita del risultato, l'intelletto delibera, discrimina e decide (basato sull'input che riceve dal corpo causale), la mente che rientra nuovamente in gioco per trasformare i pensieri in azione tramite le emozioni, e l'ego che si attribuisce la paternità dell'azione?

In ogni caso essere una "persona" è un grosso problema, significa farsi carico del fardello karmico che appartiene ad Ishvara, che si manifesta come sensi di colpa, risentimento, inadeguatezza, complesso di inferiorità, carenza per nominarne alcuni. Tutto perché si reclama come propria la vita che in verità appartiene ad Ishvara, il campo dell'esistenza che dispone secondo le esigenze della totalità.

"Ed infatti tutta questa apparenza creduta reale è avvenuta".

Certamente, se creduta reale è avvenuta. Ogni tanto presta attenzione a ciò che scrivi e vedi le contraddizioni.
E' ovvio che ci siano delle contraddizioni in ciò che dico, le vedo, come è ovvio che siano vedibili anche in qualunque altra parola, anche di qualunque altro post non mio. Il punto è che sto proprio mostrando tali contraddizioni, anche le mie, cercando di trovare anche il modo affinché non tornino. Mai.
Esempio di una mia contraddizione: "l'apparenza creduta reale è avvenuta". E' ovvio che, se è solo una credenza, non può essere avvenuta davvero. Ma vienicelo a dire quando appunto crediamo che essa sia avvenuta, soprattutto nella sua forma più totalizzante! (Cioè non la semplice maya quale "produttrice" di forme, ma la totale ignoranza-identificazione.) La domanda è: vogliamo che tale "atto totalizzante" torni, o che non ne abbia più la possibilità?
Esempio invece di una tua contraddizione: "jiva: quella parte del Sé identificato al complesso corpo-mente-sensi". E' chiara la contraddizione, no? "Quella parte del Sé". Parte del Sé? Il Sé non ha parti. Infatti lo diciamo solo per non far credere che il Sé si sia trasformato in jiva, visto che rimane appunto sempre inalterato. Ma, ciononostante, è il Sé, nella sua totalità inalterata e indivisibile, l'unico a sentirsi Jiva. Non ci sono sue parti che aderiscono, e altre che non lo fanno. E, di nuovo, qui sta il punto: sono io, in quanto Brahman, che credo di sperimentare la condizione di jiva. Se, all'interno di tale condizione, essa può essere risolta, è il caso di tralasciare il fatto che, sempre al suo interno, le possa essere impedito di tornare di nuovo, almeno nelle modalità totalizzanti di adesso?

Altro post di latriplice:
Sono due ordini di realtà completamente diversi, una reale (sathya) e una apparente (mithya). Quello che si sta discutendo qui sta avvenendo nella realtà apparente, in un sogno.
Dobbiamo fermarci a questa frase, perché non tiene conto di quanto detto pochi post fa, neanche per smentirlo; di nuovo, quindi, perdonate la ripetizione: non ci sono due ordini di realtà, è qui che sta l'Ignoranza (metafisica, di tutti noi) di base. Il sogno, l'apparenza, è tale solo da un punto di vista intellettivo.
In realtà c'è solo Brahman.
"Sogno", o maya, o apparenza, è solo una parola applicata al Brahman (parola che, paradossalmente, è essa stessa Brahman), non è un livello, non è un altro ordine di realtà (su cui applicare l'etichetta "apparenza/sogno").
Per questo dobbiamo comprendere (possiamo farlo qui e ora, senza aspettare maestri vari) che ogni insegnamento e sadhana riguarda noi, noi in quanto Brahman, pur non alterando la natura di tale Brahman.
Dobbiamo soggettivizzare ogni cosa quindi. Anche la sadhana.
Possiamo cioè dire solo da un punto di vista intellettivo che la sadhana "agisce sul jiva"; in questo modo non si crederà che essa possa alterare la natura del Brahman. Ma dobbiamo anche comprendere che i risultati di tale sadhana saranno testimoniati dall'unica soggettività: cioè da noi in quanto Brahman. In sé, Brahman non ha interessi sul fatto che la sadhana si compia o meno, che il jiva permanga o meno, che l'Ignoranza sparisca o meno. Ciononostante, siamo qui ad interessarci di tutto ciò, perché, pur essendo noi il Brahman (e niente altro), ci sono comunque dei "momenti" in cui non vogliamo testimoniare ciò che sembra accadere. Nell'esempio: sono la mente, sempre lo sarò, e non ho problemi a sognare, ma se sogno (io, la mente: non c'è nessun'altro che può sognare, né la mente si è "divisa" in una parte sognante ed in una non sognante), e sogno di essere totalmente dipendente dal sogno, in tal sogno posso volermi svegliare abbastanza da distaccarmi dagli eventi del sogno (di qualunque sogno), ma posso anche non volermi svegliare del tutto, se questo comportasse la possibilità di tornare a fare di nuovo sogni del genere. Infatti:
sono indipendente dall'esperienza. Questo vale per tutti, anche se qualcuno non lo sa.
Appunto: qualcuno non lo sa. Chi? Io (questo deve dirselo ognuno di noi). Io e niente altro, nonostante io sia il Brahman (e non il jiva. Jiva è un concetto spesso utile, ma io non sono mai tale jiva).
Ora, visto che tale condizione può risolversi, voglio che permangano le basi affinché tale condizione possa tornare? (Tornerà a me, Brahman, non al jiva, che non è la vera soggettività).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 23/01/2017, 18:12

Mauro:
Il jiva per sua propria definizione (in quanto riflesso di coscienza), non può essere "insenziente".
State parlando di Vedanta o di Samkhya?
Parliamo del darshana Vedanta (in cui il darshana Samkhya è compreso, ma anche trasceso), ma cercando di andare oltre il maestro Shankara, nonostante il suo particolare Vedanta (il kevaladvaita) sia probabilmente l'apice di tutta la filosofia. Possiamo andare oltre, persino di essa, solo non prendendola alla lettera, cioè non prendendola come una dottrina a cui aderire, ma solo come materiale su cui ragionare-lavorare.
E, da questo punto di vista, il jiva non è effettivamente neanche insenziente: è solo una parola applicata al Brahman, ma, paradossalmente, anche tale parola è Brahman: infatti, c'è solo il Brahman, anche quando diciamo di essere jiva.
Possiamo dire che è insenziente solo se preso di per sé, perché appunto una parola, di per sé, è insenziente; ma tale astrazione è comunque fittizia, quindi vale quello che è stato detto prima: c'è solo il Brahman, quindi esiste solo la senzienza, mai l'insenzienza.
Solo rimanendo aderenti (con tutti i pro e contro di tale perfetta aderenza) alla dottrina vedantica, possiamo dire che c'è un Jiva, e che sembra senziente quando tale condizione sembra reale, mentre sembra insenziente quando tale condizione comincia a sembrare meno reale.

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Fedro » 23/01/2017, 19:01

KaaRa ha scritto:
23/01/2017, 18:06
Fedro, ma anche Nowhere e latriplice:
《Il corpo, il paradiso e l'inferno, la schiavitù e la liberazione, finanche la paura, sono solo immaginazione. Cosa rimane da fare a me la cui reale natura è consapevolezza?》

Asthavakra Gita
Teoricamente (o praticamente ,se possibile) rimane da osservare (essere presenti, consapevoli a ciò) quello che in queste parole viene testimoniato.
Tutto il resto è ancora immaginazione, congettura, pensiero, inferenza, aderenza ecc. come tutto quello che ne è stato partorito in questo thread.
Verissimo, è tutta immaginazione, sia questo argomento, sia la frase dell'Asthavakra Gita. Tanto che, alla fine, volendo, può sparire anche l'osservazione di tali parole, qui suggerita.
MA niente a quel punto impedirà che "il corpo, il paradiso, l'inferno, la schiavitù, la liberazione, finanche la paura", possano tornare (con tutta la loro apparenza, certo, creduta PERO' reale), così come sono già apparse e attualmente in atto (apparentemente, da un certo punto di vista, certo; ma anche non apparentemente, da un altro punto di vista, cioè appunto quello nostro attuale). Da quel che ho compreso, ci sono persino alcuni maestri e insegnamenti che sembrano suggerire il fatto che possiamo impedire (perlomeno se prendiamo consapevolezza ora di questa possibilità) che tutto ciò torni (che torni a noi in quanto Brahman, non a noi in quanto jiva).
Verissimo?
Nel senso che la tua consapevolezza ha constatato la veridicità di quella frase, e dunque testimonia che è tutto immaginazione?
Se così è, che senso avrebbe questo continuare a congetturarvi sopra, non credi?
Nel caso contrario non sarebbe per niente un "verissimo", quanto un'adesione della tua mente a quella frase e che quindi immagina "quella realtà", proiettandola (come vera/falsa).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da latriplice » 24/01/2017, 0:39

KaRaa ha scritto:

Esempio di una mia contraddizione: "l'apparenza creduta reale è avvenuta". E' ovvio che, se è solo una credenza, non può essere avvenuta davvero. Ma vienicelo a dire quando appunto crediamo che essa sia avvenuta, soprattutto nella sua forma più totalizzante! (Cioè non la semplice maya quale "produttrice" di forme, ma la totale ignoranza-identificazione.) La domanda è: vogliamo che tale "atto totalizzante" torni, o che non ne abbia più la possibilità?

"...Ma vienicelo a dire quando appunto crediamo che essa sia avvenuta...."

Di fronte a un miraggio nel deserto equiparabile, alla realtà apparente (mithya), hai due possibilità:

1) Credere alla visione che ti si palesa e recarti di buona lena ad abbeverarti.

2) Riconoscere il miraggio in quanto tale e astenerti dall'atto (karma) conseguente di cui sopra.

Quest'ultima è equiparabile alla realtà dei fatti (sathya) non assoggettata al potere ammaliante dell'apparenza.


"...Cioè non la semplice maya quale "produttrice" di forme, ma la totale ignoranza-identificazione..."

Ovviamente il credere all'apparenza è solo l'aspetto preliminare dell'intera faccenda, occorre che poi vi sia l'identificazione con l'oggetto parte della visione apparente che corre ad abbeverarsi, nella fattispecie il complesso corpo-mente-sensi presente nella medesima. Questa identificazione trasforma il precedente oggetto corpo-mente-sensi nell'attuale soggetto (jiva) artefice dell'azione di recarsi ad abbeverarsi.

Ecco svelato il mistero del jiva nella sua evidente genesi.

Ma prima ancora che ti conceda il lusso di poter credere all'apparenza è necessario da parte tua che tu ignori (maya) la tua vera natura in quanto ordinaria, imperturbabile, illimitata consapevolezza non-duale e non-agente.

Ecco svelato il mistero di maya nella sua evidente genesi.

KaaRa ha scritto:

Esempio invece di una tua contraddizione: "jiva: quella parte del Sé identificato al complesso corpo-mente-sensi". E' chiara la contraddizione, no? "Quella parte del Sé". Parte del Sé? Il Sé non ha parti. Infatti lo diciamo solo per non far credere che il Sé si sia trasformato in jiva, visto che rimane appunto sempre inalterato. Ma, ciononostante, è il Sé, nella sua totalità inalterata e indivisibile, l'unico a sentirsi Jiva. Non ci sono sue parti che aderiscono, e altre che non lo fanno. E, di nuovo, qui sta il punto: sono io, in quanto Brahman, che credo di sperimentare la condizione di jiva. Se, all'interno di tale condizione, essa può essere risolta, è il caso di tralasciare il fatto che, sempre al suo interno, le possa essere impedito di tornare di nuovo, almeno nelle modalità totalizzanti di adesso?

Nel Canto del Beato abbiamo due personaggi che intraprendono un dialogo iniziatico mentre stava per infuriare una battaglia tra due eserciti schierati pronti a darsele di santa ragione. Da una parte abbiamo Il Sé illimitato pieno e totale nella figura di Krishna e dall'altra il sé limitato, carente e unilaterale nelle vesti di Arjuna. Sarebbe inopportuno in questa sede affermare che Krishna alla vista della disperazione dipinta sul volto di Arjuna gli venisse da ridere a crepapelle vedendo Se stesso vittima di un abbaglio, ma mosso da compassione iniziò una conversazione per rimuovere tale ignoranza. Ma tant'è.

E' evidente che si tratta dello stesso Sé, da una parte la visione che compendia la corda dall'altra la visione del serpente sovrapposto alla corda.
Ma questa storiella come quelle che ci siamo raccontati in questo thread compete alla visione del serpente sovrapposto alla corda. In altre parole è a beneficio del jiva che ignora la sua natura in quanto Brahman che avviene questo intrattenimento concettuale al limite del ludico (lila).
Dalla prospettiva/non-prospettiva del Brahman, non c'è l'ignoranza (maya) nè la sua vittima sacrificale (jiva) né l'ideatore celeste che sta orchestrando questa messinscena (Ishvara). Pertanto alla tua domanda:

"Se, all'interno di tale condizione, essa può essere risolta, è il caso di tralasciare il fatto che, sempre al suo interno, le possa essere impedito di tornare di nuovo, almeno nelle modalità totalizzanti di adesso?"

Essa, l'ignoranza (maya), fa capolino in pratica ogni minuto dell'intera giornata sottoforma del pensiero "sono un piccolo inutile verme con un sacco di problemi ma chi me l'ha fatto fare maledetta quella volta" e suoi corollari. Non è necessario attendere la fine dei cicli cosmici per impedire nuovamente la sua comparsa. Essa ci accompagna dall'utero alla tomba e non c'è verso di farla andar via......a meno che tu non applichi l'auto-conoscenza "Io sono la consapevolezza illimitata, completa e non-duale ogni istante che ti viene in mente si essere limitato, carente ed unilaterale e la bruci sul nascere. Non c'è altro mezzo. L'applicazione costante dell'auto-conoscenza corrisponde all'auto-indagine, la discriminazione tra il reale e l'apparente che corrisponde ogni volta che ha successo a moksha, liberazione. Dal Jiva e per il Jiva ovviamente.

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da latriplice » 24/01/2017, 1:27

Indulgere nel pensare di essere limitato, carente e unilaterale, cioè una persona, ti costringe a rincorrere gli oggetti (situazioni, persone e cose) in maya per trovare appagamento con l'effetto collaterale, in ragione delle attrazioni e repulsioni che il contatto con tali oggetti producono, di sviluppare delle tendenze inconsce (vasane) che costringono in un moto incessante auto-rigenerante nella sequenza kama (desiderio), karma (azione), vasana, che a sua volta rinnova la sequenza kama-karma-vasana che a sua volta rafforza la sequenza kama-karma-vasana, fino a risucchiarti in un vortice centripeto senza via d'uscita chiamato samsara. Già, perché quando il desiderio (kama) si fa pressante ed inderogabile, l'unico modo per allentare la tensione è indulgere nell'azione (karma) per ottenere l'oggetto del desiderio che a sua volta va a rigenerare il seme (vasana) origine del desiderio. Il karma lascia sempre dei residui pertanto non è tramite il karma che puoi porre fine al karma.

Il Cristo crocefisso sulla croce simbolo dei 4 elementi è una raffigurazione efficace del samsara.

Mauro
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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Mauro » 24/01/2017, 7:57

KaaRa ha scritto:
23/01/2017, 18:12
Mauro:
Il jiva per sua propria definizione (in quanto riflesso di coscienza), non può essere "insenziente".
State parlando di Vedanta o di Samkhya?
Parliamo del darshana Vedanta (in cui il darshana Samkhya è compreso, ma anche trasceso)
Ecco, invece sarebbe bene distinguerli, perchè sono metafisicamente due dottrine diverse: vivartavada e parinamavada.
Inoltre il Samkhya postula due princîpi, il Vedanta ne postula uno.
L'insenzienza ha ragion d'essere solo se abbiamo due princîpi, come nel caso del Samkhya, e difatti la prakriti del Samkhya è insenziente. Non si può dire lo stesso nel Vedanta. Se così fosse, avremmo nel vedanta un unico principio metafisico che non è provvisto di consapevolezza (una coscienza "non cosciente"). Nel Vedanta, proprio perchè il principio è unico ed è la coscienza/ consapevolezza, la cosmologia vivartavada nega l'insenzienza a tutti i tattva, anche a quelli grossolani: sono tutti illuminati dalla luce della consapevolezza (e non in maniera "formale": vedere la dottrina della "quintuplicazione", di Shankaracharya e Sureshvaracharya).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Mauro » 24/01/2017, 9:02

Il karma lascia sempre dei residui pertanto non è tramite il karma che puoi porre fine al karma.
Esatto, ma dato che non esiste un'azione che non produca karma (e la nostra stessa esistenza come esseri sottili- grossolani ne è planare dimostrazione), non esiste strumento (tantomeno quello mentale che tu proponi, essendo la stessa mente una vritti), che possa emanciparci da questa situazione, se non quando abbiamo dissolto tutti i veicoli, quello della beatitudine incluso.
L'unica cosa che possiamo fare è tentare di mantenere desta la consapevolezza nei (e dei) tre stati, cosicchè tale consapevolezza permanga nel dissolversi dei veicoli.
Ma è pratica estremamente difficile, perchè se facciamo fatica a mantenere la consapevolezza nello stato di veglia, figurarsi in quello di sogno o di sonno profondo!

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Fedro » 24/01/2017, 9:09

la triplice:
latriplice ha scritto:
24/01/2017, 1:27
Indulgere nel pensare di essere limitato
Mi fermo a questo frammento, perchè è da questo incipit (e che trovo sia sempre presente, anche quando non lo si legge, in questa continuo sciorinare di pensieri che si leggono in questo thread) che nasce sempre tutto il resto,
per fare un osservazione:
potremmo trasformare la stessa frase in: Indulgere nel pensare di essere illimitato, senza che, mi pare cambi molto..
si tratterà comunque di un indulgere nel pensiero di essere (limitato o illimitato che sia) dunque non vedrei differenza sostanziale.
Per questo motivo, mi/ti/vi chiedevo: a che serve questo continuo "pensare di essere" questo e quello?
Dove portano tutti questi ragionamenti, oltre il mero gioco mentale?
Lo chiedo perchè io non lo capisco, e se vi è uno scopo che mi sfugge, oltre quell'indugere che viene visto nell'argomentazione, come un continuo cedere a kama che ci trattiene nell'attrazione/repulsione ecc. che tu stesso ravvisi, sai dirmi qual è? Grazie

cielo
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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da cielo » 24/01/2017, 10:59

latriplice ha scritto:
24/01/2017, 1:27
Indulgere nel pensare ---


C'è una difficoltà di fondo. Ognuno di noi, qui, corre il rischio di esporre (didatticamente o meno) una visione, inevitabilmente la propria, e farsi prendere la mano dal desiderio (virtuoso?) di esprimerla per condividerla con gli altri, ma correndo l'altrettanto inevitabile rischio di contrapporsi a qualcun'altro altrettanto convinto ed entusiasta della propria.
Oppure di usufruire di un forum per esprimere in santa pace le proprie monografie metafisiche, mini trattatelli filosofici, ad esempio sui grandi detti (mahavakya) vedici, condendo eccessivamente di spezie un piatto all'origine servito semplice semplice.
Mi viene in mente la mandukya upanishad, di come ho sempre accuratamente saltato (o quasi) le parti in cui Shankara ribatte ai pandit e alle loro elucubrazioni presunte metafisiche, ma volte a costruire una visione accettabile mentalmente. Nessuna speculazione porta all'Essere che è e non diviene. Ciò che diviene è la mente.

Sarebbe importante riuscire a testimoniare senza esprimere alcuna visione da contrapporre a quella altrui, ma iniziando un processo di osservazione equanime e capace di deporre la propria mente, per guardare attraverso la mente e gli occhi altrui.

E tenendo sempre presente che la mente è uno strumento utile, ma difficile da manovrare, sofisticato e complesso. Un panno da lavare strofinandolo per bene, in modo da togliere tutte le macchie di unto che hanno penetrato le fibre del tessuto.
Ancora più difficile usare la mente in modo consapevole, quando si tenta di "filosofare", per il rischio di rimanere intrappolati nelle gabbie dell'erudizione, in quanto l'atmavicara (l'indagine interiore) si alimenta e si puntella sulle letture fatte (dunque su qualcosa di esteriore, di acquisito), che non necessariamente sono state davvero assimilate e comprese tanto da averle "realizzate".
Ognuno può osservare come si costruiscano pensieri su pensieri, ma non stiamo giocando a domino.

Il gioco è pur sempre però dar vita a una marionetta che parli con un'altra marionetta, visto che alla fine della fiera, è sempre il sè che dialoga col Sè.
Un gioco che può essere a volte utile, a volte dispersivo e fuorviante, se non addirittura dannoso.

Di conseguenza, almeno per me, fa parte della sadhana tentare la comunicazione con l'altro, ma limitandomi alla pura testimonianza, ed evitando il giudizio, che pur sorge.

La difficoltà, direi per tutti i cercatori, sta proprio in questo: liberarsi della mente che orienta, sceglie, preferisce e spesso impone la visione personale difendendola come un castello medioevale arroccato su una rupe.

La mente non è che lo strumento che crea i pensieri. Se cessa la creazione dei pensieri, anche la mente scompare. Lo sperimentiamo solo nello stato di sonno profondo, visto che anche nel sogno la mente produce pensieri, corpi da indossare e a cui riferire un "io" che noi stessi consideriamo e descriviamo come "inesistente", interlocutori con cui dialogare, litigare e passeggiare mano nella mano.

Sperimento giorno per giorno quanto sia difficile fermare la creazione dei pensieri, la mente continua a galoppare ininterrottamente.
Da qualche parte viene fatto un esempio che mi piace molto, che se l''abito che indossiamo è comodo e largo possiamo sfilarcelo facilmente, ma se invece è stretto, dovremo sforzarsi un po' per togliercelo. Cominciando a tirar giù la cerniera, magari, soli o facendoci aiutare.

La mente aderisce a noi come la pelle al corpo, ma a un livello molto più profondo, togliersela di dosso e deporla nel silenzio è impegnativo assai.

Ed è altrettanto impegnativo osservare anche come sia la mente stessa ad inserire alla bisogna il concetto di silenzio per coprire le proprie incoerenze e inferenze. Inferenze che durano fino al sorgere delle successive e che spesso non ha nemmeno senso esprimere per quanto sono inconsistenti.

shanti

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 24/01/2017, 15:58

FEDRO:
Verissimo?
Nel senso che la tua consapevolezza ha constatato la veridicità di quella frase, e dunque testimonia che è tutto immaginazione?
Se così è, che senso avrebbe questo continuare a congetturarvi sopra, non credi?
Nel caso contrario non sarebbe per niente un "verissimo", quanto un'adesione della tua mente a quella frase e che quindi immagina "quella realtà", proiettandola (come vera/falsa).
Che importa constatare cosa ho compreso? Potrei essere il più grande maestro che hai incontrato. Il più potente avatara. Anzi, lo sono di sicuro: tutto è il maestro, tutto è l'incarnazione di Dio (per dirla religiosamente), non importa quanto ammantato di ignoranza possa apparire. Perché quindi non ragionare neanche un attimo nella direzione della questione che ho posto, visto che siamo all'interno di un ragionamento, o comunque di un forum in cui si può fare poco altro che ragionare?
Ma vogliamo ribaltare la situazione? Dal mio punto di vista? Sei tu in questo momento il maestro, l'avatara che mi dice: "svegliati, non perdere tempo a questionare". Il punto che ho posto per me rimane comunque: certo, maestro, mi sveglio. Ma non abbastanza, altrimenti NIENTE (NIENTE), [*], mi impedirà di poter sognare di nuovo di essere qualcuno e di avere davanti un maestro che mi dice "svegliati, non questionare".

[*]: NIENTE

KaaRa
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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 24/01/2017, 16:00

LATRIPLICE:

"...Ma vienicelo a dire quando appunto crediamo che essa sia avvenuta...."

Di fronte a un miraggio nel deserto equiparabile, alla realtà apparente (mithya), hai due possibilità:

1) Credere alla visione che ti si palesa e recarti di buona lena ad abbeverarti.

2) Riconoscere il miraggio in quanto tale e astenerti dall'atto (karma) conseguente di cui sopra.

Quest'ultima è equiparabile alla realtà dei fatti (sathya) non assoggettata al potere ammaliante dell'apparenza.
Salve, Architetto. Avevo citato un mero film, alcuni post fa, ovvero il secondo film di Matrix. Di solito chi si considera "spirituale" cita il primo film (apparendo così molto New Age agli occhi degli altri. Tutti sono New Age agli occhi degli altri, a meno che non siano iscritti e residenti nel più isolato dei vicini monasteri, con tanto di divisa di riconoscimento monacale, magari in un contesto religioso che vanta le proprie radici in avvenimenti che hanno la stessa attinenza storica di quella che ha un qualunque film di fantascienza). Citando il secondo film, invece, si appare meramente consumistici ("è solo uno spara-spara"). Facciamolo comunque.
L'Architetto propone agli Eletti due scelte, come hai fatto te. Torna in Matrix a salvare i tuoi compagni (presumibilmente è la scelta data ai precedenti Eletti) o la tua compagna (la scelta data all'attuale Eletto), ma così facendo morirà tutta l'umanità, sia quella fuori di Matrix (uccisi dalle Macchine) sia quelli dentro (uccisi dall'inevitabile collasso del sistema innescato dall'esistenza stessa dell'Eletto). Oppure, entra nella Sorgente, e questo, anche se non salverà coloro che sono usciti, salverà almeno coloro che sono in Matrix (se esce di scena l'Eletto, si ferma anche il collasso), che avranno ancora la possibilità di uscire (ma anche di essere massacrati anche loro quando tutto si ripeterà con il prossimo Eletto).
Qualunque scelta presa (i precedenti cinque scelsero presumibilmente la porta numero 2, quello attuale la numero 1) vinceva comunque il gioco delle Macchine, e quindi di Matrix: in entrambi i casi infatti, anche se in modi diversi, tutto portava a ricaricare Matrix, una Matrix vista di nuovo come un nemico. La scelta binaria in fondo è il ragionamento delle macchine, dei computer attuali: meno consapevoli di un lombrico, ma più efficienti di qualunque altra cosa.

Sai cosa mi venne in mente riguardandolo di recente? (Probabilmente influenzato da quel che mi era venuto in mente su questi argomenti.) Che bastava premunirsi prima. Bastava che l'Eletto si fermasse a riflettere un attimo durante la sua missione, invece di essere tanto impegnato a credersi il salvatore che avrebbe fatto chiudere Matrix; riflettere per poter arrivare a comprendere che Matrix nasce dall'umanità (è vero, con la mediazione delle Macchine, ma anch'esse nacquero dall'umanità!). Ne è un'espressione, non è qualcosa a cui contrapporsi, non è qualcosa da distruggere, o da cui voler uscire. E' qualcosa da vedere diversamente. In questo modo potrà persino migliorare conseguentemente da sé, proprio perché è un'espressione dell'umanità. Non c'è quindi da farne uscire qualcuno, c'è solo da insegnargli a viverci (con consapevolezza, non con le sue regole nate da una contrapposizione ad essa, anche solo inconscia).
A quel punto (forte del fatto di aver insegnato alle persone in Matrix a vederla in modo diverso e quindi a conviverci, invece di farli uscire da essa), arrivato dall'Architetto bastava che si mettesse seduto e dicesse: no, grazie. Non scelgo niente. Non ce n'è bisogno. Ho insegnato alle persone a convivere con Matrix, loro non dipendono più dai suoi eventi, anzi, è Matrix che dipende da loro, essa non collasserà neanche più quindi. A quel punto non ha senso neanche che uccidiate quelli che ne sono già fuori, è solo uno spreco di energie.
Fine. Matrix rimane, deve rimanere, altrimenti tornerebbe comunque, ma nella stessa forma inconsapevole di prima. A cambiare non è più Matrix, ma le persone che vi vivono, il modo in cui la vedono.

E' esattamente l'insegnamento del Buddhismo mahayana. Non puntare all'assoluto, che vedono come un concetto astratto dannoso quanto tutti gli altri concetti, ma comprendere invece che il samsara è già il nirvana, ovviamente nel senso che le distinzioni solo solo nominali-formali. Sarebbe un insegnamento perfetto, perché evita appunto di figurarsi l'assoluto-Brahman come uno "stato", semplicemente più elevato degli altri; sarebbe un insegnamento perfetto se non fosse che così si crea un'ambiguità nella maggior parte delle persone, che a volte credono, alla lettera, che il samsara sia già di per sé il nirvana.
"...Cioè non la semplice maya quale "produttrice" di forme, ma la totale ignoranza-identificazione..."

Ovviamente il credere all'apparenza è solo l'aspetto preliminare dell'intera faccenda, occorre che poi vi sia l'identificazione con l'oggetto parte della visione apparente che corre ad abbeverarsi, nella fattispecie il complesso corpo-mente-sensi presente nella medesima. Questa identificazione trasforma il precedente oggetto corpo-mente-sensi nell'attuale soggetto (jiva) artefice dell'azione di recarsi ad abbeverarsi.

Ecco svelato il mistero del jiva nella sua evidente genesi.

Ma prima ancora che ti conceda il lusso di poter credere all'apparenza è necessario da parte tua che tu ignori (maya) la tua vera natura in quanto ordinaria, imperturbabile, illimitata consapevolezza non-duale e non-agente.

Ecco svelato il mistero di maya nella sua evidente genesi.
Perfetto, concordo. Non ho mai messo in discussione tali "genesi" così come le hai esposte. Questo significa però ANCHE che esse non hanno NIENTE (NIENTE), [NIENTE], che impedisce loro di avvenire, se si rimane all'interno di un discorso di annullamento di Maya e del Jiva. Certo, si può dire che, prima di tutto, basta riconoscere che essi neanche esistono come enti distinti da noi (noi in quanto Brahman), e che quindi non c'è neanche bisogno di annullarli, ma l'importante è appunto rendersi conto che la maya, in quanto "movimento coformato e conformante", deve continuare in qualche modo ad esserci, affinché questa consapevolezza permanga.
E' quello che raccomandano tutte le tradizioni, a ben pensarci! Non solo le "allusioni" di Shankara e di Bodhananda già accennate, ma anche il concetto di Bodhisattva nel Buddismo, la resurrezione nel Cristianesimo, ecc. Compresi alla luce di questo argomento, e non prese alla lettera, ovviamente. Alla lettera non avrebbero senso: di cosa se ne fa un ente, che ha riconosciuto la sua figliolanza spirituale con il Padre, di tornare in un "corpo nuovo" in una "terra nuova"? Di cosa se ne fa un Buddha di restare in una illusione in cui, per principio (cioè proprio perché è un'illusione, quindi senza capo né coda), non può riuscire a salvare tutti, come gli imporrebbe invece il voto da Bodhisattva?
KaaRa ha scritto:

Esempio invece di una tua contraddizione: "jiva: quella parte del Sé identificato al complesso corpo-mente-sensi". E' chiara la contraddizione, no? "Quella parte del Sé". Parte del Sé? Il Sé non ha parti. Infatti lo diciamo solo per non far credere che il Sé si sia trasformato in jiva, visto che rimane appunto sempre inalterato. Ma, ciononostante, è il Sé, nella sua totalità inalterata e indivisibile, l'unico a sentirsi Jiva. Non ci sono sue parti che aderiscono, e altre che non lo fanno. E, di nuovo, qui sta il punto: sono io, in quanto Brahman, che credo di sperimentare la condizione di jiva. Se, all'interno di tale condizione, essa può essere risolta, è il caso di tralasciare il fatto che, sempre al suo interno, le possa essere impedito di tornare di nuovo, almeno nelle modalità totalizzanti di adesso?

Nel Canto del Beato abbiamo due personaggi che intraprendono un dialogo iniziatico mentre stava per infuriare una battaglia tra due eserciti schierati pronti a darsele di santa ragione. Da una parte abbiamo Il Sé illimitato pieno e totale nella figura di Krishna e dall'altra il sé limitato, carente e unilaterale nelle vesti di Arjuna. Sarebbe inopportuno in questa sede affermare che Krishna alla vista della disperazione dipinta sul volto di Arjuna gli venisse da ridere a crepapelle vedendo Se stesso vittima di un abbaglio, ma mosso da compassione iniziò una conversazione per rimuovere tale ignoranza. Ma tant'è.

E' evidente che si tratta dello stesso Sé, da una parte la visione che compendia la corda dall'altra la visione del serpente sovrapposto alla corda.
Ma questa storiella come quelle che ci siamo raccontati in questo thread compete alla visione del serpente sovrapposto alla corda. In altre parole è a beneficio del jiva che ignora la sua natura in quanto Brahman che avviene questo intrattenimento concettuale al limite del ludico (lila).
Dalla prospettiva/non-prospettiva del Brahman, non c'è l'ignoranza (maya) nè la sua vittima sacrificale (jiva) né l'ideatore celeste che sta orchestrando questa messinscena (Ishvara).

Prendiamo Nisargadatta, che consiglia di leggerla non immedesimandoci in Arjuna, ma in Krishna. Ha senso, alla luce di ciò che sto dicendo fin dal primo post.
Se mi immedesimo in Arjuna, e il mio unico scopo è essere un ignorante che cerca di liberarsi dall'ignoranza, avendo un inizio ed una fine tale scopo può fare solo una cosa, nell'infinito e nell'eterno del Brahman: riproporsi.
Come Krishna invece (o meglio: come Arjuna che ha come scopo assumere il punto di vista di Krishna) ho il dovere di far continuare il teatrino, nonostante mi venga da ridere a vederlo. Se non lo faccio, se smetto di farlo, NIENTE (NIENTE), [NIENTE], mi (a me, Brahman) impedirà di vivere di nuovo la situazione dal punto di vista del Jiva.
Pertanto alla tua domanda:

"Se, all'interno di tale condizione, essa può essere risolta, è il caso di tralasciare il fatto che, sempre al suo interno, le possa essere impedito di tornare di nuovo, almeno nelle modalità totalizzanti di adesso?"

Essa, l'ignoranza (maya), fa capolino in pratica ogni minuto dell'intera giornata sottoforma del pensiero "sono un piccolo inutile verme con un sacco di problemi ma chi me l'ha fatto fare maledetta quella volta" e suoi corollari. Non è necessario attendere la fine dei cicli cosmici per impedire nuovamente la sua comparsa. Essa ci accompagna dall'utero alla tomba e non c'è verso di farla andar via......a meno che tu non applichi l'auto-conoscenza "Io sono la consapevolezza illimitata, completa e non-duale ogni istante che ti viene in mente si essere limitato, carente ed unilaterale e la bruci sul nascere. Non c'è altro mezzo. L'applicazione costante dell'auto-conoscenza corrisponde all'auto-indagine, la discriminazione tra il reale e l'apparente che corrisponde ogni volta che ha successo a moksha, liberazione. Dal Jiva e per il Jiva ovviamente.
Anche su questo siamo d'accordo. Ma questo implica che tale applicazione di auto-coscienza, tale auto-indagine, ovvero tale Conoscenza, sia... appunto costante, come dici anche tu. Il che implica che l'ignoranza deve restare, possibilmente al minimo sindacale (cioè senza identificazione). In caso contrario, i cicli cosmici potranno anche sparire subito, ma potranno anche tornare subito, e in pieno (cioè con identificazione). Perché questa mia precisazione è così ardua da integrare nei discorsi in cui già concordiamo?
Indulgere nel pensare di essere limitato, carente e unilaterale, cioè una persona, ti costringe a rincorrere gli oggetti (situazioni, persone e cose) in maya per trovare appagamento con l'effetto collaterale, in ragione delle attrazioni e repulsioni che il contatto con tali oggetti producono, di sviluppare delle tendenze inconsce (vasane) che costringono in un moto incessante auto-rigenerante nella sequenza kama (desiderio), karma (azione), vasana, che a sua volta rinnova la sequenza kama-karma-vasana che a sua volta rafforza la sequenza kama-karma-vasana, fino a risucchiarti in un vortice centripeto senza via d'uscita chiamato samsara. Già, perché quando il desiderio (kama) si fa pressante ed inderogabile, l'unico modo per allentare la tensione è indulgere nell'azione (karma) per ottenere l'oggetto del desiderio che a sua volta va a rigenerare il seme (vasana) origine del desiderio. Il karma lascia sempre dei residui pertanto non è tramite il karma che puoi porre fine al karma.

Il Cristo crocefisso sulla croce simbolo dei 4 elementi è una raffigurazione efficace del samsara.
Siamo d'accordissimo. Ma possiamo essere d'accordo anche sul fatto che il Cristo deve sempre tenere la croce dentro di sé? Cito: "nel cuore dei risvegliati vive una croce di fiamma che non brucia" (da: Raphael, citato dal retro di copertina di Discrosi Ispirati di Vivekananda, I Pitagorici). Tenere sempre viva tale croce. Nonostante un realizzato non ne abbia bisogno, né lo caratterizzi, in quanto egli non è più "qualcuno", ma è consapevolmente solo una forma apparente del Brahman. Altrimenti sulla croce dovrà salirci di nuovo, Cristo (un nuovo jiva, o meglio, il Brahman quale unica vera soggettività, quando crederà di nuovo di essere un jiva), con tutte le paure e le sofferenze che ciò ha comportato; che è esattamente ciò che è successo a Cristo, prima di rendere l'anima a Dio, risorgere ed ascendere (prendiamo alla lettera la scrittura biblica ai fini del mito del Cristo che hai proposto).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 24/01/2017, 16:01

MAURO:
Ecco, invece sarebbe bene distinguerli, perchè sono metafisicamente due dottrine diverse: vivartavada e parinamavada.
Inoltre il Samkhya postula due princîpi, il Vedanta ne postula uno.
L'insenzienza ha ragion d'essere solo se abbiamo due princîpi, come nel caso del Samkhya, e difatti la prakriti del Samkhya è insenziente. Non si può dire lo stesso nel Vedanta. Se così fosse, avremmo nel vedanta un unico principio metafisico che non è provvisto di consapevolezza (una coscienza "non cosciente"). Nel Vedanta, proprio perchè il principio è unico ed è la coscienza/ consapevolezza, la cosmologia vivartavada nega l'insenzienza a tutti i tattva, anche a quelli grossolani: sono tutti illuminati dalla luce della consapevolezza (e non in maniera "formale": vedere la dottrina della "quintuplicazione", di Shankaracharya e Sureshvaracharya).
Il Samkhya distingue, anzi, comprende se stesso in quanto "due", ma non comprende il Vedanta, perché il Samkhya non arriva a comprendere l'"uno". Il Vedanta è già passato oltre il due, e quindi lo comprende anche (infatti non lo nega, lo relativizza solamente), infatti il Vedanta dice che c'è solo il Brahman, che è pura senzienza, e che la dualità-molteplicità c'è, ma è solo apparenza. Quindi dobbiamo appunto riconoscere (io devo per forza, visto che è ciò che ho trovato nei testi e nei dialoghi vedantantici) che nel Vedanta il punto di vista duale del Samkhya è comunque insegnato, infatti il Vedanta accenna, come dicevo, il discorso che i tattva, presi di per sé, sono insenzienti, anche se ciò è riconosciuta essere solo un'astrazione fittizia, che serve esclusivamente per non far credere agli aspiranti che i tattva siano realtà indipendenti. In pratica, spiega il "due" prima di arrivare "all'uno", ma tale "due" non lo affronta più dal punto di vista assolutistico del Samkhya.

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da KaaRa » 24/01/2017, 16:02

CIELO:
C'è una difficoltà di fondo. Ognuno [ecc.]
Spero si possa notare, pur nella lungaggine dei miei post, che non c'è contrapposizione, a meno che non si consideri come contrapposizione il prendere i discorsi degli altri integrandoli in una visione che per me è meno letterale e più ampia (non per una maggiore mia elevatura, ma semplicemente perché mi è sembrato di intravvedere particolari elementi, nello stesso insegnamento vedantico, che però non sembrano essere presi in considerazione da nessuno - poco male: continuare a parlare di queste cose è per me quasi un japa, poco sintetico, ma pur sempre un japa o namasmarana).

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Fedro » 24/01/2017, 16:25

KaaRa ha scritto:
24/01/2017, 15:58
FEDRO:
Verissimo?
Nel senso che la tua consapevolezza ha constatato la veridicità di quella frase, e dunque testimonia che è tutto immaginazione?
Se così è, che senso avrebbe questo continuare a congetturarvi sopra, non credi?
Nel caso contrario non sarebbe per niente un "verissimo", quanto un'adesione della tua mente a quella frase e che quindi immagina "quella realtà", proiettandola (come vera/falsa).
Che importa constatare cosa ho compreso? Potrei essere il più grande maestro che hai incontrato. Il più potente avatara. Anzi, lo sono di sicuro: tutto è il maestro, tutto è l'incarnazione di Dio (per dirla religiosamente), non importa quanto ammantato di ignoranza possa apparire. Perché quindi non ragionare neanche un attimo nella direzione della questione che ho posto, visto che siamo all'interno di un ragionamento, o comunque di un forum in cui si può fare poco altro che ragionare?
Ma vogliamo ribaltare la situazione? Dal mio punto di vista? Sei tu in questo momento il maestro, l'avatara che mi dice: "svegliati, non perdere tempo a questionare". Il punto che ho posto per me rimane comunque: certo, maestro, mi sveglio. Ma non abbastanza, altrimenti NIENTE (NIENTE), [*], mi impedirà di poter sognare di nuovo di essere qualcuno e di avere davanti un maestro che mi dice "svegliati, non questionare".

[*]: NIENTE
Cosa tu abbia "compreso" è affar tuo, a me interessava semplicemente comprendere cosa tu stessi affermando, senza creare ultereriori mistificazioni che possano proporre le parole stesse, tutto qui.
non ti stavo nemmeno proponendo di svegliarti, poichè neanche questo è affar mio, ci mancherebbe.
Mi sono semplicemente fermato un attimo per capire cosa leggevo e ho chiesto ragguagli.
Il resto: il ragionare, il sognare, e tutte le altre funzioni immaginarie della mente che conosciamo, non sta a me imporre cosa valgano per te, ma mi è stato insegnato di metterle al vaglio della mia attenzione, e così ho fatto, e così ti ho chiesto.
Libero dunque di continuare a disquisire, così come mi sento libero di evidenziare la mistificazione continua di ciò che un pensiero creduto vero mi pone davanti, e quindi all'interlucutore che la pone, maestro presunto o non maestro che sia

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da latriplice » 24/01/2017, 16:48

Fedro ha scritto:
24/01/2017, 9:09
la triplice:
latriplice ha scritto:
24/01/2017, 1:27
Indulgere nel pensare di essere limitato
Fedro ha scritto:

Mi fermo a questo frammento, perchè è da questo incipit (e che trovo sia sempre presente, anche quando non lo si legge, in questa continuo sciorinare di pensieri che si leggono in questo thread) che nasce sempre tutto il resto,
per fare un osservazione:
potremmo trasformare la stessa frase in: Indulgere nel pensare di essere illimitato, senza che, mi pare cambi molto..
si tratterà comunque di un indulgere nel pensiero di essere (limitato o illimitato che sia) dunque non vedrei differenza sostanziale.
Per questo motivo, mi/ti/vi chiedevo: a che serve questo continuo "pensare di essere" questo e quello?
Dove portano tutti questi ragionamenti, oltre il mero gioco mentale?
Lo chiedo perchè io non lo capisco, e se vi è uno scopo che mi sfugge, oltre quell'indugere che viene visto nell'argomentazione, come un continuo cedere a kama che ci trattiene nell'attrazione/repulsione ecc. che tu stesso ravvisi, sai dirmi qual è? Grazie

"...potremmo trasformare la stessa frase in: Indulgere nel pensare di essere illimitato, senza che, mi pare cambi molto..si tratterà comunque di un indulgere nel pensiero di essere (limitato o illimitato che sia) dunque non vedrei differenza sostanziale."

La differenza sostanziale è che se indulgi nel pensare di essere un'individuo limitato, carente e unilaterale ti costringi ad una linea d'azione (karma) tesa all'acquisizione di oggetti transitori per colmare il tuo vuoto esistenziale.

Parimenti se pensi di essere per natura illimitato pertanto mancante di nulla, ti trattieni perlomeno dal vagabondare nel regno di samsara alla ricerca della felicità effimera dal possesso di oggetti, siano essi situazioni, persone o cose.

Io ci vedo un mare di differenza e se tu non ravvisi alcun senso in quello che ho detto perché lo bocci come mera espressione intellettuale, sappi almeno che anche il tuo atteggiamento critico è dettato da una mera considerazione intellettuale. Direi al limite della castroneria.

In ogni caso pensare di essere illimitato sulla base della conoscenza acquisita dalla discriminazione non si discosta di molto dalla realtà dei fatti, anzi.

Qual'è l'esperienza più intima per te? Non sarebbe così facile da rispondere? Lo so che è una domanda vaga, ma in ogni caso non sarebbe per te facile conoscere di che cosa si tratta? Pensaci. Non dovrebbe prendere più di un paio di secondi, ma potrebbe anche volerci molto tempo perché la risposta è così ovvia che molte persone non lo realizzano.

Quando sperimenti qualcosa per tutto il tempo e non muta mai è quasi impossibile notarla, come la gravità. La gravità sta esercitando una pressione costante sul tuo corpo tutto il tempo ma non te ne accorgi perché c'è sempre. Quello che è interessante riguardo alla tua esperienza più intima è che è costante come la gravità, ma puoi conoscerla. Sebbene non cambia mai, puoi esserne consapevole. Pertanto che cos'è?

L'esperienza più familiare per te è che esisti. Ogni singola cosa che tu fai sperimenti e conosci accade all'interno del contesto della tua esistenza. Questo è estremamente ovvio, vero? Ma non ci viene in mente perché si trova nello sfondo e non ci pensiamo o lo apprezziamo per quello che è perché....insomma.....perché è sempre lì.

Nel momento che pensi riguardo al fatto che esisti proprio adesso, tu immediatamente senti o sperimenti o conosci la tua esistenza in qualche modo, vero? Come fai a sapere che esisti? Beh, lo sai semplicemente, questo è tutto. Non è perché tu vedi la tua esistenza, o la senti, o la pensi o per qualsiasi altra ragione. Nessun'altra informazione è richiesta. Che tu esisti è la più importante conoscenza che ciascuna persona ha. E' così ovvio, fondamentale e non fa una piega. E lo sai semplicemente perché lo sai. Nulla di nuovo qui. Sto solo indicando ciò che già conosci tutto il tempo.

C'è comunque un'altro fatto molto importante riguardo te che bisogna considerare. Che tu esisti è chiaro, ma qual'è la natura della tua esistenza? Cos'è esattamente l'esistenza? L'esistenza è consapevolezza. Queste due parole significano esattamente la stessa cosa. L'esperienza più familiare per te è che sei consapevole. Esistenza, consapevolezza, deve essere lì altrimenti non sperimenti o conosci nulla. O potresti dire che l'esistenza o la consapevolezza devono essere lì altrimenti tu non ci sei. Giusto?

Alcune persone nel mondo spirituale, molti infatti, pensano che la consapevolezza è qualcosa di speciale, qualcosa da un'altra parte, qualcosa da scoprire o realizzare o sperimentare in qualche modo mistico. Sto semplicemente indicando quanto è labile il confine tra pensare e essere riguardo la totale ordinarietà della consapevolezza che tu sei.

Una cosa è comprendere che tu sei esistenza-consapevolezza, ma è un'altra cosa sapere cosa significa essere quello che sei. Significa che sei sempre pieno, totale e completo. Questo è ciò che si intende per beatitudine. Significa che sei sempre soddisfatto con te stesso. Potresti argomentare dicendo che la tua esperienza personale non corrisponde a questa conclusione. La risposta è che non sei focalizzato per mancanza di discriminazione (viveka) su te stesso, esistenza-consapevolezza. C'è qualcosa che ostruisce il tuo apprezzamento di te stesso in quanto illimitato e sono le paure e i desideri derivate dal pensarsi limitato, carente e unilaterale.

Come vedi c'è un mare di differenza.

"Si diventa ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero"

Maitri Upanisad

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da latriplice » 24/01/2017, 17:13

Cielo ha scritto:

C'è una difficoltà di fondo. Ognuno di noi, qui, corre il rischio di esporre (didatticamente o meno) una visione, inevitabilmente la propria, e farsi prendere la mano dal desiderio (virtuoso?) di esprimerla per condividerla con gli altri, ma correndo l'altrettanto inevitabile rischio di contrapporsi a qualcun'altro altrettanto convinto ed entusiasta della propria.
Oppure di usufruire di un forum per esprimere in santa pace le proprie monografie metafisiche, mini trattatelli filosofici, ad esempio sui grandi detti (mahavakya) vedici, condendo eccessivamente di spezie un piatto all'origine servito semplice semplice.
Mi viene in mente la mandukya upanishad, di come ho sempre accuratamente saltato (o quasi) le parti in cui Shankara ribatte ai pandit e alle loro elucubrazioni presunte metafisiche, ma volte a costruire una visione accettabile mentalmente. Nessuna speculazione porta all'Essere che è e non diviene. Ciò che diviene è la mente.


Sarà pure un mini trattatello filosofico, ma ti ha dato lo spunto di esporre la tua personale visione che sebbene limitata alla pura testimonianza evita il giudizio, che pur sorge.

Nel frontespizio del forum c'è scritto:

Questo forum semplificato e indirizzato alla visione di Shankara.

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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Fedro » 24/01/2017, 19:14

la triplice:
latriplice ha scritto:
24/01/2017, 16:48

La differenza sostanziale è che se indulgi nel pensare di essere un'individuo limitato, carente e unilaterale ti costringi ad una linea d'azione (karma) tesa all'acquisizione di oggetti transitori per colmare il tuo vuoto esistenziale.
Sembri tanto convinto che funzioni così, dunque che altro aggiungere.
Da quel che dici, dunque, basta pensarsi di essere illimitati, per trattenersi dal samsara..buon per te.
Per quel che mi riguarda, non credo che delle convinzioni possano pormi nella condizione di escludermi dal vagabondare nel regno del samsara...sarebbe come guardarmi un bel film e dopo crederci che è vero...

Parimenti se pensi di essere per natura illimitato pertanto mancante di nulla, ti trattieni perlomeno dal vagabondare nel regno di samsara alla ricerca della felicità effimera dal possesso di oggetti, siano essi situazioni, persone o cose.

Io ci vedo un mare di differenza e se tu non ravvisi alcun senso in quello che ho detto perché lo bocci come mera espressione intellettuale, sappi almeno che anche il tuo atteggiamento critico è dettato da una mera considerazione intellettuale. Direi al limite della castroneria.

In ogni caso pensare di essere illimitato sulla base della conoscenza acquisita dalla discriminazione non si discosta di molto dalla realtà dei fatti, anzi.

Qual'è l'esperienza più intima per te? Non sarebbe così facile da rispondere? Lo so che è una domanda vaga, ma in ogni caso non sarebbe per te facile conoscere di che cosa si tratta? Pensaci. Non dovrebbe prendere più di un paio di secondi, ma potrebbe anche volerci molto tempo perché la risposta è così ovvia che molte persone non lo realizzano.

Quando sperimenti qualcosa per tutto il tempo e non muta mai è quasi impossibile notarla, come la gravità. La gravità sta esercitando una pressione costante sul tuo corpo tutto il tempo ma non te ne accorgi perché c'è sempre. Quello che è interessante riguardo alla tua esperienza più intima è che è costante come la gravità, ma puoi conoscerla. Sebbene non cambia mai, puoi esserne consapevole. Pertanto che cos'è?

L'esperienza più familiare per te è che esisti. Ogni singola cosa che tu fai sperimenti e conosci accade all'interno del contesto della tua esistenza. Questo è estremamente ovvio, vero? Ma non ci viene in mente perché si trova nello sfondo e non ci pensiamo o lo apprezziamo per quello che è perché....insomma.....perché è sempre lì.

Nel momento che pensi riguardo al fatto che esisti proprio adesso, tu immediatamente senti o sperimenti o conosci la tua esistenza in qualche modo, vero? Come fai a sapere che esisti? Beh, lo sai semplicemente, questo è tutto. Non è perché tu vedi la tua esistenza, o la senti, o la pensi o per qualsiasi altra ragione. Nessun'altra informazione è richiesta. Che tu esisti è la più importante conoscenza che ciascuna persona ha. E' così ovvio, fondamentale e non fa una piega. E lo sai semplicemente perché lo sai. Nulla di nuovo qui. Sto solo indicando ciò che già conosci tutto il tempo.

C'è comunque un'altro fatto molto importante riguardo te che bisogna considerare. Che tu esisti è chiaro, ma qual'è la natura della tua esistenza? Cos'è esattamente l'esistenza? L'esistenza è consapevolezza. Queste due parole significano esattamente la stessa cosa. L'esperienza più familiare per te è che sei consapevole. Esistenza, consapevolezza, deve essere lì altrimenti non sperimenti o conosci nulla. O potresti dire che l'esistenza o la consapevolezza devono essere lì altrimenti tu non ci sei. Giusto?

Alcune persone nel mondo spirituale, molti infatti, pensano che la consapevolezza è qualcosa di speciale, qualcosa da un'altra parte, qualcosa da scoprire o realizzare o sperimentare in qualche modo mistico. Sto semplicemente indicando quanto è labile il confine tra pensare e essere riguardo la totale ordinarietà della consapevolezza che tu sei.

Il confine tra pensare ed essere (cognizione di essere) sarà anche labile, come affermi, ma, perquanto sia niente di speciale, sono due aspetti completamente diversi, se vengono discriminati.
Una cosa è comprendere che tu sei esistenza-consapevolezza, ma è un'altra cosa sapere cosa significa essere quello che sei. Significa che sei sempre pieno, totale e completo. Questo è ciò che si intende per beatitudine. Significa che sei sempre soddisfatto con te stesso. Potresti argomentare dicendo che la tua esperienza personale non corrisponde a questa conclusione. La risposta è che non sei focalizzato per mancanza di discriminazione (viveka) su te stesso, esistenza-consapevolezza. C'è qualcosa che ostruisce il tuo apprezzamento di te stesso in quanto illimitato e sono le paure e i desideri derivate dal pensarsi limitato, carente e unilaterale.

Come vedi c'è un mare di differenza.

"Si diventa ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero"

Maitri Upanisad
Ma chi sarebbe il soggetto che comprede che cosa..?
Da come lo descrivi, vi è un jiva che, suppostosi consapevolezza si crede esistenza-consapevolezza, e tutto può essere...
Concluderei con le tue stesse parole: come vedi c'è un mare di differenza
e non so più a quale mare ci stiamo riferendo, visto che qui, sembra che ciascuno ha il suo di mare, che difende e afferma..
buona serata :)

latriplice
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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da latriplice » 24/01/2017, 20:02

Fedro ha scritto:

Da come lo descrivi, vi è un jiva che, suppostosi consapevolezza si crede esistenza-consapevolezza, e tutto può essere...


Non sono io che lo dico ma Samkara:

"Brahma satyam, jagan mithya. Jivo brahmaiva naparah"

Brahman, consapevolezza, è reale; il mondo (incluso l'individuo) è apparentemente reale; Il jiva (pertanto) non è altro che Brahman.

Buona serata. :)

Mauro
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Re: E' solo un'occhiata

Messaggio da Mauro » 24/01/2017, 20:22

A che pro ripetere per duecento volte la stessa asserzione?
Per convincerci della sua validità?
Grazie, abbiamo capito.

Ma c'è un problema, ed è l' utilizzo surrettizio di tale asserzione da parte tua, latriplice.

Perchè, come scriveva Fedro, una cosa è credere di essere ciò che si è, altra è esserlo.

E la frase di Shankara afferma il secondo stato di cose; non il primo, come tu tenti forzatamente di interpretare.

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