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Il percorso è la nostra stessa vita

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blue_scouter
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Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da blue_scouter » 20/11/2021, 20:38

È da due mesi consecutivi che penso: «Il "Quaderno Advaita & Vedanta" è stato scritto apposta per me. E io che tardavo a leggerlo, non so bene per quale motivo.»
Il senso dei due quaderni cui mi riferisco (nn. 195 e 196) – per come è stato da me colto - è questo: ci sono in Noi alcune istanze che devono essere realizzate, alcune opere che devono essere compiute. Insomma, c'è una via – che poi è la vita stessa – che va percorsa e che, se portata a compimento, condurrà al senza «senza-via», al «senza-sentiero». Per me sembra essere così. Ci sono dei desideri di cui la mente non riesce a fare a meno, pur sapendone - in fondo - l'estrema vacuità. Vacuità della mente in primis. Però è con Lei – e la sua vacuità – che tocca fare i conti.

Le frasi che mi hanno colpito sono:

- «Il percorso è la nostra stessa vita. Possiamo viverla in fuga, immaginando futuri migliori o rimpiangendo passati migliori, oppure possiamo viverla nel presente (quindi nel distacco e discriminazione, o dedita al Divino, o dedita al distacco dai frutti delle azioni), sempre più consapevoli di Essa e del Suo significato. »
[Quaderno A&V n. 195];

- «I sādhaka (cercatori) comprendono raramente la differenza tra questo temporaneo calmare la mente (manolaya) e la distruzione permanente dei pensieri (manonāśa). In manolaya cʼè un temporaneo calmarsi delle onde-pensiero e, sebbene questo periodo temporaneo possa durare persino mille anni, i pensieri, che sono stati così temporaneamente calmati, risorgono non appena manolaya cessa. Perciò si deve sorvegliare attentamente il proprio progresso spirituale. Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero.»
[Quaderno A&V n. 196];

Buona serata.

cielo
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Re: Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da cielo » 21/11/2021, 19:00

blue_scouter ha scritto:
20/11/2021, 20:38
È da due mesi consecutivi che penso: «Il "Quaderno Advaita & Vedanta" è stato scritto apposta per me. E io che tardavo a leggerlo, non so bene per quale motivo.»
Il senso dei due quaderni cui mi riferisco (nn. 195 e 196) – per come è stato da me colto - è questo: ci sono in Noi alcune istanze che devono essere realizzate, alcune opere che devono essere compiute. Insomma, c'è una via – che poi è la vita stessa – che va percorsa e che, se portata a compimento, condurrà al senza «senza-via», al «senza-sentiero». Per me sembra essere così. Ci sono dei desideri di cui la mente non riesce a fare a meno, pur sapendone - in fondo - l'estrema vacuità. Vacuità della mente in primis. Però è con Lei – e la sua vacuità – che tocca fare i conti.

Le frasi che mi hanno colpito sono:

- «Il percorso è la nostra stessa vita. Possiamo viverla in fuga, immaginando futuri migliori o rimpiangendo passati migliori, oppure possiamo viverla nel presente (quindi nel distacco e discriminazione, o dedita al Divino, o dedita al distacco dai frutti delle azioni), sempre più consapevoli di Essa e del Suo significato. »
[Quaderno A&V n. 195];

- «I sādhaka (cercatori) comprendono raramente la differenza tra questo temporaneo calmare la mente (manolaya) e la distruzione permanente dei pensieri (manonāśa). In manolaya cʼè un temporaneo calmarsi delle onde-pensiero e, sebbene questo periodo temporaneo possa durare persino mille anni, i pensieri, che sono stati così temporaneamente calmati, risorgono non appena manolaya cessa. Perciò si deve sorvegliare attentamente il proprio progresso spirituale. Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero.»
[Quaderno A&V n. 196];

Buona serata.
Grazie Blue scouter che dai un po' di vita a questo luogo.

Ogni volta che mi capita di leggere i dialoghi del passato che spesso compongono i quaderni 2021, può innestarsi il rimpianto e attivarsi la memoria di quei tempi in cui le persone che partecipavano al forum erano in azione con domande, contestazioni, critiche, esteriorizzazioni di erudizione, lamentele...Venivano, andavano, tornavano.

Era la vita di quel presente. Le domande, secondo me, venivano fatte perchè si aveva una risposta che era viva, presente, e non messa a punto da una mente ambiziosa, manipolatrice di opinioni per farne strumento di potere o modelli di un proprio "personale" insegnamento e orientata a costruire una sadhana di doveri da propinare ai viandanti capitati lì o ai vecchi fedelissimi che tendenzialmente concordavano, o rimanevano più silenziosi.

Tutti erano uguali, democraticamente liberi anche di dar libero sfogo al proprio confuso pensare mettendo in piedi teorie filosofiche o considerazioni dottrinali su veda, upanishad, tantra, yoga o anche contestare, a volte l'ovvio e comprensibile anche ai bambini, travolti dalle proprie incrollabili e cristallizzate credenze.
Difficile che non si avesse risposta sulle diverse materie. Il "preside" era preparatissimo.

Quando invece leggo i quaderni e non si attiva la mente che piange, ma quella che esercita (prova ad esercitare) la discriminazione e il distacco dal passato e dalla memoria, ecco che quelle parole tornano viventi, vere, e si attualizzano, sono il mio presente, rispondono a quelle increspature di dubbi e di insicurezze che osservo come mi agitano la mente, i famosi "vortici" (vritti), alzando e abbassando l'adrenalina nel mio sangue.
Con tutte le conseguenze del caso, a una certa età l'adrenalina si gestisce meno bene che da giovani, quando i sensi sono cavalli scattanti, ma il cavaliere è baldo in sella e si sente forte.

Ecco allora che dico a me stessa: "Queste parole che ti risuonano le hai realizzate? Oppure ti lasci coccolare dalla loro perfezione di verità, ma sono ancora le variegate menate mentali che ti fai perchè la mente non è capace di stare ferma e si propende come un tentacolo di polipo a tastare il mare?".
Sì, confesso: sono ancora le variegate menate mentali.
Il divenire mi impulsa con le sue necessità, lo scopo ultimo di trascendere il dualismo e dimorare nell'eterno, immobile, indescrivibile presente che tutto pervede, non è realizzato.
Sono una foglia sbattuta dal vento. Mi racconto com'è bella la realizzazione, ma mi domando che cosa abbia mai realizzato che non sia frutto delle fluttuazioni mentali che aderiscono all'impermanente.
Confusione: c'è. Finchè c'è, c'è.

Però...ho fatto una domanda, qualche giorno fa, e mi è arrivata la risposta.
Tuttavia ora è arrivato un monito che mi risuona particolarmente:
"Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero."

Prima di ricapitolare la faccenda della domanda, vorrei far notare che i dialoghi che ora vengono pubblicati nei quaderni vedanta, si sono potuti fare perchè ai (bei) tempi c'erano persone che facevano domande, che riuscivano a rapportare a sè stessi quanto affermato dalle scritture o da altri partecipanti e dialogavano con il riferimento che si rendeva disponibile per tutti. E' grazie a loro che si sono fatti quei dialoghi.
Io personalmente ho dato scarsi contributi in tanti anni, perchè di domande ne ho fatte pochissime.
E' che proprio le domande non mi vengono, ne ho un numero limitato presenti in testa (due o tre) e difatti negli anni ho spesso propinato sempre quelle, ricevendo varie risposte.

Una di queste domande, che si è ripresentata recentemente in mente con tutta la sua brillantezza di dubbio tormentoso è: "Ok l'autoindagine, ok conoscere me stessa e osservare la mente. Ma che cavolo significa conoscere me stessa? Perchè non dovrei conoscermi se sono ben più di un lustro che porto a spasso questo fantasma di io che mi dà il tormento e sto nella causalità che lo riguarda subendola per lo più?
Conosco me stessa a che pro? Perchè? Che cosa mi significa? A cosa serve? Che cosa salta fuori conoscendo me stessa?

Poi, pentita, mi dico che ho una mente utilitaristica, avida, agitata, che ha uno scopo, che segue i desideri e le loro tracce olfattive qua e là. E che non c'è uno scopo a conoscere sè stessi, perchè ciò che siamo è l'unica realtà presente realmente conoscibile. Conosciamo noi stessi scartando ciò che "non siamo", focalizziamo sull'essenza, sul puro atman ...
Non c'è altro, c'è ciò che sono e basta. Nè un meglio, nè un peggio. Non un "migliorabile". Solo la vita da me interpretata e vissuta, fino all'ultimo respiro. Nel puro Essere che sempre è.

Entrambi i personaggi interiori concordano sul fatto che è la mente che dà il tormento. L'io è la mente. Muore la mente e si affronta la morte dell'io. Cosa resta? Piena conoscenza di ciò che si è. Affrancamento dal duale.

Qui, resta la scissura interiore, il dualismo dei pensieri che denota la confuzione della mia ignoranza...

Comunque, quella notte sogno che sto leggendo e so libro e capitolo. Mentre leggo sono in pace e tranquilla. Leggere in sogno è piacevole come nella veglia, anche se diverso.
Nel mondo oggettivo poi creo le condizioni ambientali favorevoli per riuscire a riprendere quel libro e leggere. Me lo impongo perchè sono pigra. Come faccio al lavoro.

Così incontro Platone che mi dice:

"Il conoscere sè stessi è temperanza."

"La temperanza consiste nel fare ogni cosa in modo ordinato e tranquillo, sia che si tratti di camminare per strada, che di conversare, che di qualsiasi altra azione".
*

Perfetto. Ricevuto. Quasi imparata a memoria, così la mente avrà un osso da rosicchiare ogni volta che l'ectoplasma dell'io diventerà intemperante, vedrà rosso, penserà "brutti" pensieri, invocando i fulmini di Zeus a ristabilire l'ordine...(non si fa, ogni cosa è al suo posto, non devo salvare il mondo...).

Ora però è arrivato il monito di Bodhananda:
"Perciò si deve sorvegliare attentamente il proprio progresso spirituale. Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero."

Qualsiasi considerazione facessi ora sarebbe confusa, ci devo pensare un po' su. Ruminare nella riflessione per comprendere il "senso" in questo presente.

Buona serata a tutti

*Tratto da Dattātreya, Avadhūtagītā. Commento di Bodhānanda. Ed. I Pitagorici (Capitolo II: Autoconoscenza)

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Fedro
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Re: Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da Fedro » 22/11/2021, 0:07

'Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero."
Il fascino del pensiero, la tranquillità che esso sostiene temporaneamente:
al netto di esso (quindi non permettendolo) mi chiedo: possiamo preferire altro?
Ecco, a parte lo spazio della consapevolezza, non vedo altra fonte che possa bypassare la mente, tanto da desiderarne la sua distruzione.
Il percorso è la nostra stessa vita. Possiamo viverla in fuga, immaginando futuri migliori o rimpiangendo passati migliori, oppure possiamo viverla nel presente
a questo punto mi chiedo: c'è in questo presente questa consapevolezza che può permettersi l'incenerimento della mente? Oppure è la mente stessa che crede ancora una volta di desiderare, ovvero illudersi di desiderare il proprio suicidio?
Nel riconoscermi dove sono (lo spazio da cui osservo) vedo l'origine di questi desideri: sorgono dalla mente o invece sono l'espressione genuina del cuore?
Poi, nel riconoscimento (c'è quello che c'è) la domanda decade, e non preferisco alcunché.

cielo
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Re: Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da cielo » 23/11/2021, 12:25

"Perciò si deve sorvegliare attentamente il proprio progresso spirituale.
Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero."


Fedro ha scritto:
22/11/2021, 0:07
Il fascino del pensiero, la tranquillità che esso sostiene temporaneamente:
al netto di esso (quindi non permettendolo) mi chiedo: possiamo preferire altro?
Vero; è uno stato desiderabile a cui tutti abbiamo temporaneamente accesso, non solo coloro che hanno attenzionato le scritture vedanta o bevuto sorsate di saggezza "spirituale" da varie sorgenti incontaminate.

Non si chiede però di non "permetterlo" (non farlo), ma di non permettere a se stessi di essere sopraffatti da questi momenti ineffabili.

Chiunque, secondo me, ha la possibilità in vita di godere di questi momenti di tranquillità mentale durante i quali si sceglie di "non riempire" più se stessi con sollecitazioni esterne. Pura contemplazione, anche dei pensieri che inondano, e poi placati dall'immensità del mare in cui, facendosi coraggio, provano a immergersi, scomparendo.

Le vaste braccia del Tutto che tutti contiene, ma che non è in alcuno trattenuto o delimitato.

Le onde vanno e vengono, la mente prende e lascia.
Quando molla la sua presa è un momento incantevole, come quando lo sguardo si perde all'orizzonte , o dondola con le fronde degli alberi, o cade con la pioggia.
Visto che il Vento soffia dove vuole, accetterò il suo colpo che mi sposta, senza paura. Surrender, diceva Sri Aurobindo.
Non manca nulla, sono viva e respiro. Amen

Momenti di nostalgia, di rimembranza, quando la vita dona inaspettatamente queste fessure di pienezza beata (magari in situazioni "strane", perfino nei pronto degli ospedali, a volte...), di sintonia con l'ambiente, di empatia con le persone vicine, a volte miracolosamente tutte silenti come in casi rari anche sui bus al mattino, tra la nebbia...Attimi, fessure.

Di questi tempi è sempre più difficile tenere fuori i canali di contatto con il mondo esterno. Chiudere le porte della percezione, tranne che attenzionando il respiro tra cielo e terra, tra il mio corpo, quello che ha sotto i piedi e l'immensa volta di spazio sopra la testa.

Non a caso si dice che abbiamo acquisito una dimensione globale. Sempre interconnessi, in ogni dove. Mai soli o poco, dormendo...
Fedro ha scritto:
22/11/2021, 0:07
Ecco, a parte lo spazio della consapevolezza, non vedo altra fonte che possa bypassare la mente, tanto da desiderarne la sua distruzione..
Non sono sicura di aver capito quello che volevi dire.
Se la mente molla la presa, molla i suoi oggetti, muoiono pure i personaggi che ci giocano.
Chi sono io?
Cosa resta quando l'attenzione si ritira e i pensieri si riducono?
Cosa c'è?
Lo spazio della consapevolezza in cui contemporaneamente si osserva l'incessante movimento della trasformazione nel mondo grossolano, e l'immobilità (potenziale) dell'essere che siamo, qui e ora.

Forse indulgere troppo in quella tranquillità che si genera, tiene incatenati nella contemplazione del Bello e del Puro, ma potrebbe essere fine a sè stessa. Un mero balsamo lenitivo su ferite ancora purulente.

Un bel passaggio di Bodhananda tratto dall'Avadhūtagītā:

La sofferenza della mente, di fronte al dissolvimento della separazione, ha portato qualche aspirante ad individuare in essa il nemico da sconfiggere.

Molti interpretano le esortazioni tradizionali a controllarla, come se essa potesse essere controllata direttamente dall’ente.

Questo è impossibile perché il mezzo attraverso cui effettuare il controllo è la mente stessa.

La mente è il movimento dei pensieri e non si può imporre la quiete dove è il movimento.

Ogni movimento, se non alimentato, è destinato all’immobilità, una volta esaurita l’inerzia; così la tradizione indirizza proprio a questo, a sospendere l’alimentazione del movimento stesso; affinché, non più alimentata, la mente possa essere ricondotta al suo stato naturale di quiete. Solo da questo punto di vista, possiamo considerare la mente lo strumento attraverso cui è possibile la realizzazione.

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cannaminor
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Re: Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da cannaminor » 24/11/2021, 12:44

cielo ha scritto:
23/11/2021, 12:25
Non sono sicura di aver capito quello che volevi dire.
Se la mente molla la presa, molla i suoi oggetti, muoiono pure i personaggi che ci giocano.
Chi sono io?
Cosa resta quando l'attenzione si ritira e i pensieri si riducono?
Cosa c'è?
Resta la consapevolezza, resta il "sono".
Quando l'attenzione\pensieri dell' "io sono questo e quello" si ritira\riduce, resta la consapevolezza (che non se ne era invero mai andava via) del "sono".
Resta l'Essere, il Sono....fermo, fisso e non in movimento al seguito dei vari "questo e quello" sì da dar vita ad un irreale io-mente agente di azione e di pensiero. Siamo ciò che pensiamo, dice l'adagio, siamo il nostro stesso pensiero, la nostra stessa mente pensante, siamo il soggetto pensante ed agente,"io", che si da vita-esistenza dal pensare ed agire stesso. Siamo il nostro movimento pensante, ed il nostro movimento pensante è e coincide con noi-io. Cessato il movimento, esaurita l'inerzia pensativa, l'azione, il karma, la mente torna in quiete, ferma e fissa; torna ad essere invece che divenire, torna alla coincidenza puntuale del "sono" e non al movimento proiettivo dell'io sono questo e quello.

ortica
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Re: Il percorso è la nostra stessa vita

Messaggio da ortica » 28/11/2021, 13:14

blue_scouter ha scritto:
20/11/2021, 20:38
È da due mesi consecutivi che penso: «Il "Quaderno Advaita & Vedanta" è stato scritto apposta per me. E io che tardavo a leggerlo, non so bene per quale motivo.»

Sebbene in questo talquando si riveste un ruolo leggermente diverso (tu lettore, io aiuto dell'aiuto compilatore), per me è esattamente lo stesso: le parole del riferimento sembrano scritte apposta per me, proprio come accadeva anni fa, quando ancora rivestiva un corpo, e sono un sostegno, un aiuto, una guida, un sorriso, oggi come allora.
Questo accade - io credo (con tutti i limiti che accompagnano questo verbo) - perché si tratta di parole vere ed eterne.


Il senso dei due quaderni cui mi riferisco (nn. 195 e 196) – per come è stato da me colto - è questo: ci sono in Noi alcune istanze che devono essere realizzate, alcune opere che devono essere compiute. Insomma, c'è una via – che poi è la vita stessa – che va percorsa e che, se portata a compimento, condurrà al senza «senza-via», al «senza-sentiero». Per me sembra essere così. Ci sono dei desideri di cui la mente non riesce a fare a meno, pur sapendone - in fondo - l'estrema vacuità. Vacuità della mente in primis. Però è con Lei – e la sua vacuità – che tocca fare i conti.

È così, tentare di sottrarsi, mentalmente o fisicamente non importa, a ciò che la Vita/via ha previsto per noi, che ci piaccia o ci procuri dolore, significa errare, nel senso non tanto di commettere un errore , il che già in sè conterrebbe un giudizio, quanto di allontanarsi dalla via maestra, vagare, sprecare tempo ed energie, sempre col rischio di perdersi per sentieri forse senza uscita.
“Quel che c’è c'è, quel che non c’è non c’è”, rimasi fulminata ascoltando questa apparente banalità espressa dal riferimento.
E va vissuto in consapevolezza, mi permetto di aggiungere oggi.
È tutto così semplice, ma non facile.


Ti ringrazio bluescouter.

Un abbraccio


Le frasi che mi hanno colpito sono:

- «Il percorso è la nostra stessa vita. Possiamo viverla in fuga, immaginando futuri migliori o rimpiangendo passati migliori, oppure possiamo viverla nel presente (quindi nel distacco e discriminazione, o dedita al Divino, o dedita al distacco dai frutti delle redress), sempre più consapevoli di Essa e del Suo significato. »
[Quaderno A&V n. 195];

- «I sādhaka (cercatori) comprendono raramente la differenza tra questo temporaneo calmare la mente (manolaya) e la distruzione permanente dei pensieri (manonāśa). In manolaya cʼè un temporaneo calmarsi delle onde-pensiero e, sebbene questo periodo temporaneo possa durare persino mille anni, i pensieri, che sono stati così temporaneamente calmati, risorgono non appena manolaya cessa. Perciò si deve sorvegliare attentamente il proprio progresso spirituale. Non si deve permettere a se stessi di essere sopraffatti dal fascino della tranquillità del pensiero.»
[Quaderno A&V n. 196];

Buona serata.


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